La storia della bizzarra “operazione Atlantide” in Friuli

Nel 1969 dodici persone passarono quasi un mese sott'acqua nel lago di Cavazzo, per un esperimento rischioso e un po' raffazzonato

I cosiddetti acquanauti in una foto tratta da un servizio della Rai
I cosiddetti acquanauti in una foto tratta da un servizio della Rai
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Nel settembre del 1969, passate poche settimane da quando un uomo aveva raggiunto per la prima volta la Luna, dodici persone furono coinvolte in un’altra impresa a suo modo futuristica: trascorsero quasi un mese sott’acqua nel lago di Cavazzo, a nord di Udine, nel Friuli Venezia Giulia. La cosiddetta “operazione Atlantide” aveva da un lato l’obiettivo di sperimentare la vita subacquea, per capire se e come gli esseri umani ci si sarebbero potuti adattare, e dall’altro quello di testare alcune attività da svolgere sott’acqua, seppur con obiettivi non del tutto chiari.

È una storia poco ricordata, che il giornalista Pietro Spirito ha definito «una di quelle avventure tipiche di un’epoca», in «anni in cui tutto sembrava possibile». Fu un esperimento bizzarro e per certi versi romantico, ma soprattutto un po’ improvvisato, se si pensa ai rischi che comportava.

In due articoli pubblicati nell’agosto di quell’anno, sia La Stampa che il Corriere della Sera parlavano della «città subacquea» e degli «acquanauti», o «batinauti», come vennero chiamati coloro che l’avrebbero popolata: undici ragazzi, quasi tutti del posto, più una ragazza, Silvana Polese, allora 17enne. Il 3 settembre si calarono in quattro grossi cilindri metallici che erano stati posizionati a circa venti metri di profondità, dove poi trascorsero 25 giorni e 25 notti.

I contenitori erano lunghi circa sette metri, con un diametro di due e un volume di trenta metri cubi ciascuno. Erano completi di cucinino, radio ed elettricità, ma anche di acqua calda per la doccia, di una linea telefonica per comunicare con l’esterno e di un apparecchio per l’elettrocardiogramma; l’ossigeno invece era fornito da un contenitore a parte che erogava aria compressa.

«Dormivamo in brande che di giorno fissavamo al muro per avere più spazio per muoverci», ha raccontato Polese: «poi potevamo uscire dal nostro contenitore e raggiungere gli altri, ma mai salire in superficie». Il cibo veniva fornito con contenitori stagni dalla superficie, dove un gruppo di tecnici e medici controllava a distanza le condizioni di salute di chi partecipava all’esperimento. Mario Ordiner, che partecipò a una seconda fase l’anno seguente, ha detto che come passatempo alcuni raccoglievano dal fondale del lago le bombe della Seconda guerra mondiale.

Due dei contenitori metallici nel fermo immagine di un video della Rai

L’idea della cittadella subacquea era venuta a Luciano Mecarozzi, che aveva fondato un gruppo speleologico e una sezione sperimentale di ricerche subacquee a Udine. Ufficialmente era un’iniziativa privata, a cui però collaborarono le Università di Trieste e dell’Aquila, l’esercito e la marina militare, oltre ai ministeri dell’Interno e della Difesa e all’ENI. Fu finanziata in parte dalla Regione e da alcuni sponsor, e in parte dai partecipanti stessi, che erano stati scelti senza particolari criteri, assieme a dodici riserve, e dopo un addestramento di pochi mesi si occuparono anche di buona parte della preparazione.

«Toccò a noi dipingerli e metterci l’antiruggine», ha detto Polese parlando dei contenitori. Dino Barro, all’epoca 23enne, ha spiegato in un’intervista a Vice che ci furono subito problemi. Il 4 settembre, quando stava per entrare in un contenitore, questo si era alzato di scatto ed era piombato sul fondo del lago a causa di una bolla d’aria: «Per fortuna nostra l’incidente era successo senza nessuno all’interno», ha raccontato Barro. Un intoppo simile con la pressurizzazione o con il funzionamento dell’elettricità avrebbe potuto ucciderli facilmente.

Dettaglio di un articolo pubblicato sulla Stampa l’8 agosto del 1969 (Archivio storico della Stampa)

I giornali e i promotori dell’iniziativa invece la raccontavano in maniera molto enfatica. Dopo alcune ore in apposite camere di decompressione, il 28 settembre successivo gli “acquanauti” tornarono in superficie, dove furono accolti da cinquemila persone in quello che il Corriere della Sera definì un «tripudio generale». Secondo Mecarozzi l’esperimento aveva raggiunto il suo obiettivo, ovvero provare che era «possibile creare una specie di fattoria subacquea» da adibire alla coltivazione delle alghe, a ricerche petrolifere o archeologiche, oppure ancora al recupero di relitti. Per Fabrizio Galliani, il direttore sanitario, aveva inoltre appurato che «sia fisicamente sia sotto il profilo psicologico» le persone potevano vivere sott’acqua «per un periodo pressoché illimitato».

«Siamo venuti fuori facendo sì dei calcoli, però soprattutto sperando nella Madonna», ha scherzato in un’intervista data a FriuliTV Francesco Colucci, che alloggiava nel contenitore chiamato “Come Topo”, dai cognomi delle quattro persone che ospitava (Colucci, Menegozzi, Tolloi e Polese appunto). «Non avevamo ‘Houston, abbiamo un problema’. Se avevamo un problema, erano problemi nostri». A sua volta Polese ha parlato di un «perenne stato d’allerta»: «Eravamo pur sempre a 25 metri di profondità».

Dettaglio di un articolo del Corriere della Sera del 29 settembre 1969

Sempre a detta di Mecarozzi l’operazione era costata circa 75 milioni di lire, «un’inezia rispetto alle centinaia di milioni spesi da francesi e americani per esperimenti analoghi». Così l’anno successivo fu organizzata una seconda fase, da 15 giorni, in cui due gruppi di quattro persone testarono un sistema di condutture per l’estrazione del petrolio. Secondo Ordiner anche in questo caso «i protocolli di sicurezza erano molto labili e le cose venivano fatte alla carlona. Dobbiamo essere onesti e dire quello che è stato», ha commentato: «un’avventura».

La storia dell’operazione Atlantide fu seguita sia dalla stampa italiana, sia da quella straniera, e dai dati raccolti furono pubblicati tre studi incentrati sugli aspetti fisiologici della vita subacquea. «I risultati erano interessanti, ma il tutto si è concluso per mancanza di fondi e non abbiamo proseguito con indagini ulteriori», ha detto sempre a Vice Giorgio Maisano, primario di cardiologia all’Ospedale Gervasutta di Udine, che fu coinvolto nell’esperimento. «Da noi ho avuto l’impressione che fosse considerata una specie di goliardia», ha detto invece Colucci, che dopo questa esperienza fece carriera nell’esercito.

«Col senno di poi non sono in grado di dire se non ci fosse qualche influenza» di tipo militare, ha detto. Il periodo tuttavia era quello della Guerra fredda, in cui sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti e i loro alleati stavano investendo moltissimo nello sviluppo di nuove tecnologie, perciò a suo dire «può anche darsi che ci fosse qualcosa dietro».

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