Cosa dicono editori e librai del “decreto cultura” di Alessandro Giuli
Gli obiettivi sono condivisibili, ma le perplessità sono parecchie: dicono che si tratta di un piano poco ambizioso, limitato nel tempo e con poche risorse

A fine febbraio, il “decreto cultura” voluto dal ministro Alessandro Giuli è diventato una legge, dopo essere stato approvato da entrambe le camere del parlamento. Opposizioni, associazioni che rappresentano editori, librai e bibliotecari hanno parlato di un’iniziativa con obiettivi condivisibili, ma hanno anche manifestato insoddisfazioni: a dispetto degli annunci fatti dal ministro su una vera e propria riforma del settore culturale, dicono che si tratta in realtà di un piano poco ambizioso, limitato nel tempo, composto da misure non organiche, con poche risorse e che crea nuove figure dirigenziali esterne non necessarie.
Il decreto cultura, oltre a finanziare alcune istituzioni culturali e a stanziare 800 mila euro per la celebrazione del venticinquesimo anniversario della Convenzione europea sul paesaggio, contiene due principali interventi: un progetto di cooperazione culturale con stati e organizzazioni internazionali africane e il cosiddetto “piano Olivetti”, che è quello che interessa di più il settore dei libri e la sua sostenibilità economica.
Il nome del piano fa riferimento ad Adriano Olivetti, industriale delle macchine da scrivere, ma anche scrittore ed editore dei primi decenni del Novecento che credeva nella cultura come strumento di emancipazione sociale. I dettagli del piano non sono ancora chiari perché non sono stati ancora approvati i decreti attuativi, cioè altre norme che spieghino come quella legge debba essere messa in pratica. Da quanto se ne sa finora il piano Olivetti servirà comunque «a promuovere la rigenerazione culturale delle periferie, delle aree interne e di quelle svantaggiate», ha detto Giuli.
Il piano contiene tre investimenti a sostegno di editoria, biblioteche e librerie: 30 milioni di euro per l’acquisto di libri da parte di biblioteche storiche e di prossimità; 3 milioni di euro per favorire l’apertura di nuove librerie da parte di giovani fino ai trentacinque anni; 1 milione di euro per sostenere la vendita di libri nei piccoli centri abitati con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti. La parte più consistente di questi finanziamenti sarà distribuita nel 2025, mentre 5 milioni saranno messi a disposizione nel 2026. Atri 10 milioni di euro del piano saranno infine destinati ad ampliare l’offerta culturale dei quotidiani di carta attraverso il potenziamento delle pagine dedicate a cultura e spettacolo.
La nuova legge è stata accolta in modo positivo, almeno per quanto riguarda gli obiettivi generali che si è data: per le aziende editoriali e le librerie forme simili di sostegno sono state molto preziose negli anni passati. Ma è anche stata criticata perché non metterebbe a disposizione sufficienti strumenti per realizzarli.
Il 21 febbraio i presidenti di sette associazioni che rappresentano editori, librai e bibliotecari hanno scritto che la strategia del ministro «può essere vincente», ma hanno anche aggiunto che sperano crescano «le risorse a disposizione per promuovere nuove politiche culturali in maniera efficace per il settore del libro». Il primo problema ha dunque a che fare con la quantità dei fondi previsti: «L’intenzione del ministro è buona», dice l’editore Alessandro Laterza. «Ma offre una copertura significativa, sebbene più bassa rispetto al passato, solo per quanto riguarda il 2025. I 5 milioni stanziati per il 2026 sono un intervento che assume solo un valore testimoniale». A sua volta Sandro Ferri, proprietario e fondatore insieme a Sandra Ozzola della casa editrice E/O, nota che il decreto «rappresenta un’inversione di tendenza rispetto al passato», che ogni aiuto va colto positivamente e che «però un minimo di scetticismo permane. I soldi sono pochi, in prospettiva. L’intervento avrà una storia che proseguirà o è solo un intervento occasionale?».
Il “passato” citato da Laterza e Ferri è un riferimento a quanto fatto dall’ex ministro della Cultura Dario Franceschini, del Partito Democratico, che nel 2020, primo anno della pandemia, formulò un decreto che istituiva un fondo speciale annuo di 30 milioni per le biblioteche per acquisire il 70 per cento dei loro libri da almeno tre librerie diverse presenti sul rispettivi territori di pertinenza. Il decreto e il fondo da 30 milioni vennero rinnovati negli anni successivi fino a quando, nel 2024, l’attuale governo con il ministro Gennaro Sangiuliano, di cui Giuli prese poi il posto, decise di non rinnovarlo più. Giudicato molto positivamente da librai, editori e bibliotecari, negli anni in cui il decreto Franceschini rimase in vigore l’acquisto di libri da parte delle biblioteche permise alle biblioteche stesse di rinnovare e rafforzare il proprio catalogo e alle librerie e agli editori di contare su una base consistente di vendite sicure.
Vittorio Graziani, libraio della Centofiori di Milano, dice che Giuli ha introdotto nuovamente quello che Sangiuliano aveva tolto, ma «con un inghippo. Il decreto Franceschini era buono perché confermava ogni anno la stessa consistente cifra, mentre ora i 30 milioni sono ripartiti su due anni. E i 5 milioni di euro per il secondo anno sono fumo negli occhi, non ci fai niente». Il problema, aggiunge, «è che ogni volta che cambia ministro si mettono in discussione gli investimenti di questo settore. Il decreto Franceschini, purtroppo, non è mai stato trasformato in legge e non è mai diventato strutturale».
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Diverse critiche al decreto cultura di Giuli riguardano i fondi stanziati in modo specifico per l’apertura di nuove librerie da parte di giovani che hanno meno di 35 anni. Ferri di E/O spiega che «non è facile, oggi, per un giovane aprire una libreria, ma ancora più complicato che aprirla, è riuscire a tenerla in piedi». I fondi dovrebbero dunque essere continuativi per consentire alle librerie di reggere nel tempo e dovrebbero soprattutto essere affiancati da una serie di misure di sostegno più organiche.
Ferri, sebbene non abbia nulla a che fare con degli interventi statali, cita come modello positivo quello di Adelc, (Association pour le développement de la librairie de création), associazione francese fondata da un libraio editore nel 1988 che attorno a sé raccolse molti altri editori piccoli e grandi come, per esempio, Gallimard. Dalla sua creazione Adelc ha aiutato 617 librerie in Francia e in Belgio, investendo in totale più di 57 milioni di euro. Questa associazione, prosegue Ferri, «è composta sostanzialmente da editori che cedono parte del loro fatturato per dare un supporto continuo alle librerie, per le nuove aperture e per la formazione dei librai che vengono poi seguiti e supportati per diversi anni». Anche Graziani cita Adelc, precisando che «l’errore più grande contenuto nel decreto Giuli sono i finanziamenti dati a giovani che hanno meno di 35 anni senza che venga insegnato loro il mestiere: senza la creazione di una struttura che li aiuti veramente, questi soldi sono buttati al vento».
Ferri aggiunge di essere dubbioso anche rispetto ai fondi che il decreto Giuli prevede per sostenere la vendita di libri nei piccoli centri con una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti, soprattutto alla luce del fatto che il 21,1 per cento della popolazione italiana residente in comuni con più di 10 mila abitanti non ha una libreria vicino, come dimostra un’analisi dell’Ufficio studi dell’Associazione Italiana Editori (Aie): «Significa che l’Italia è piena di comuni sopra i 10 mila abitanti in cui non c’è una libreria e che forse è questo il target a cui sarebbe bene guardare».
A gennaio l’Aie ha stimato che, a causa dell’assenza nel 2024 dei fondi del decreto Franceschini per le biblioteche e della cancellazione della 18app, i ricavi dalle vendite di libri sono stati inferiori di 62,7 milioni di euro: sulla seconda il decreto Giuli non interviene affatto. La carta 18app, nota anche come “bonus cultura”, era un sussidio economico da 500 euro che dal 2016 lo Stato metteva a disposizione dei ragazzi e delle ragazze italiane che compivano 18 anni per acquistare prodotti e servizi culturali, come libri, corsi di formazione, biglietti per teatri, musei, concerti o abbonamenti ai quotidiani. Il buono poteva essere richiesto tramite una piattaforma online da tutti i neodiciottenni, senza limiti di reddito, ma è stato cancellato dal governo di Giorgia Meloni e sostituito con altre due misure: la Carta della cultura giovani e la Carta del merito.
La Carta della cultura giovani è legata a un indicatore economico del nucleo famigliare a cui il diciottenne appartiene, la seconda al suo voto di maturità: la possono cioè richiedere, senza limiti di reddito, i diplomati che hanno ottenuto il massimo dei voti. Il “bonus cultura”, dice Alessandro Laterza, «è stato uno strumento importante per l’incentivo alla domanda e dunque per la creazione di nuovi lettori. Le due carte che l’hanno sostituito sono invece di difficile accesso e non più universali. Il tema per quanto riguarda gli interventi di Giuli non è dunque solo la cifra messa a disposizione, ma anche le condizioni di accesso ai libri, capitolo sostanzialmente non contemplato dal piano Olivetti».
Le opposizioni all’attuale governo hanno infine criticato il decreto cultura perché, per la realizzazione degli obiettivi del piano Olivetti e del progetto di cooperazione con l’Africa, prevede l’assunzione di nuovi dirigenti scelti esternamente al ministero e direttamente dipendenti dal ministro. Nel decreto si specificano anche i compensi di tali dirigenti: quello responsabile del piano Olivetti percepirà 247.163 euro per l’anno 2025 e 296.596 euro annui a decorrere dall’anno 2026.
«Questi dirigenti», ha spiegato il Partito Democratico, «saranno incaricati di gestire, programmare e addirittura controllare attività che rientrano già nelle competenze degli uffici ministeriali esistenti, portando a una duplicità di funzioni e risorse». Anche la CGIL è intervenuta su questo punto: «La nomina di sei nuovi dirigenti esterni con ruoli che sarebbero invece di competenza delle strutture ministeriali è un fatto grave, e conferma la volontà di esercitare un controllo politico su tutta la macchina ministeriale».