La lingua segreta dei consulenti della comunicazione

«C’è un momento preciso in cui ci si rende conto di non parlare più come persone normali. Succede quando a fine giornata riponi nel frigo un po’ di lattine di birra e in automatico la tua mente descrive così la situazione: “Durante un’operazione di ‘beverage management’ nella ‘kitchen area’, ho notato un ‘cluster’ di birre in prossimità del ‘water dispenser’”»

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A venticinque anni sono stata battezzata Junior Consultant in una piccola agenzia di consulenza milanese con bei progetti, bei clienti e sempre a corto di margini operativi. Mi sentivo fortunata: era quanto di meglio offrisse Milano, quindi l’Italia. Esistevo, finalmente, con la mia seggiolina dentro un avanguardistico spazio coworking. Esistevo per un mondo piccolo, certo, ma avevo un biglietto da visita, computer e cellulare aziendali – erano persino della Apple. La vita: iniziava la vita, quella vera, quella fatta di cedolini – che tuttora non so leggere – e stipendio a fine mese e bollette e rate dell’affitto.

Peccato che questa vita non era proprio tanto vera.

Non importava che mia madre non capisse quale fosse il mio lavoro e perché stessi scrivendo una proposition o un positioning.

All’inizio, non capivo nemmeno io: «Fai un PT, scarica l’RFQ, guarda il NS e mandami un ballpark EOD», una richiesta come tante, ma cosa voleva dire EOD? End Of Day, cioè entro fine giornata. E ballpark? Una stima “spannometrica”. PT, il pricing tool, lo strumento su cui si stimano i prezzi dei servizi offerti da cui si scarica la Request For Quotation (RFQ) all’interno della quale sono riportati, oltre ai costi interni ed esterni, anche i principali indicatori per valutare quanto sarà il guadagno netto, detto anche Net Sale oppure NS. E allora eccomi a stilare glossari e linee guida che, non potevo immaginarlo, ma dopo non molto non mi sarebbero serviti più.

C’è un momento preciso nella carriera di chi lavora nella comunicazione in cui ci si rende conto di non parlare più come persone normali. Succede piuttosto semplicemente quando a fine giornata ti capita di riporre nel frigo dell’ufficio un po’ di lattine di birra e in automatico la tua mente descrive così la situazione: «Durante un’operazione di beverage management nella kitchen area, ho notato un cluster di birre in prossimità del water dispenser. In assenza di alert specifici rispetto a eventuali misappropriation, ho effettuato un’allocation a scopo privato e conviviale».

Arriva anche un momento preciso in cui non hai più modo di liberarti di anglicismi e formule magiche perché il tuo modo di percepire la realtà è cambiato e la tua realtà sembra essere migliore.

Così, almeno, è stato per me. Non inviavo più semplici e-mail, ma indicevo allineamenti strategici, non suggerivo di ottimizzare processi, ma costruivo sinergie. Soprattutto, non facevo presentazioni: costruivo uno storytelling data-driven. La consulenza mi ha cambiata, mi ha regalato l’illusione di sentirmi potente, trasformando la mia lingua in un codice elitario costruito per definire chi appartiene al sistema e chi, invece, no.

– Leggi anche: La lingua che parla il Post

Il linguaggio della consulenza toglie il contatto con la realtà, ma fornisce un senso alla vita, anzi un work-life balance.

«Allineiamoci sulla delivery e assicuriamoci che la nostra value proposition sia chiara per il cliente, è l’unica arma che abbiamo contro i competitor se vogliamo evitare una mentalità price-driven».

L’ho sentito dire e l’ho a mia volta ripetuto così tante volte da finire per credere che fosse una frase qualsiasi, una di quelle che si sentono anche nei bar o al supermercato. Significa solo che dobbiamo essere convincenti per giustificare il costo dei nostri servizi. Ma il nostro lessico è tutto così: apparentemente neutrale, deliberatamente incomprensibile grazie a un sistema codificato di parole chiave che non si limitano a descrivere, ma strutturano e consolidano un’intera visione del mondo.

Il lessico dei consulenti di comunicazione non è comunicazione, è l’esatto contrario. Serve a creare un’aura di esclusività, a tracciare i confini di un’élite, a controllare il modo di pensare, a inventare un mondo e a conferire autorità a chi lo padroneggia.

Parole come leverage, synergy, disruption non le usiamo nemmeno con il significato che hanno in inglese, sono solo simboli di un rituale di potere.

In The Interpretation of Cultures (1973) l’antropologo Clifford Geertz ha introdotto il concetto di “thick description”, la descrizione del comportamento umano non in base alle azioni e ai gesti, ma al contesto in cui avvengono e che li carica di significati. Ciò che diciamo non veicola informazioni, afferma il nostro ruolo. Per questo, paradossalmente, più siamo vaghi, più sembriamo credibili. Ma è fondamentale che questa credibilità non venga mai messa in discussione.

Il mondo della consulenza assomiglia a una setta, che ha una lingua propria cucita alla lingua reale di coloro che ne fanno parte, allo scopo di alienarli e ammaestrarli a una precisa visione del mondo: non avrai altra realtà all’infuori di me.

Il modo di pensare del consultant può essere visto come una religione, nel senso sociale che gli attribuì il sociologo Émile Durkheim in Le forme elementari della vita religiosa (1912). Il gergo della consulenza promuove, infatti, coesione sociale e senso di appartenenza e il linguaggio aziendale diventa lo strumento principale per creare la distinzione tra sacro e profano, stabilendo una barriera con i clienti (e il resto del mondo) e generando una dipendenza interpretativa, così come faceva il latino nella liturgia cattolica fino al Concilio Vaticano II. La terminologia tecnica è sempre caratterizzata da un’ambiguità funzionale che crea un’aura di misticismo e autorizza chi la domina a definire il significato secondo le sue necessità.

L’utilizzo del gergo ha anche la funzione di marginalizzare chiunque non appartenga alla setta. È un fenomeno molto simile al concetto di “ingiustizia epistemica” sviluppato da Miranda Fricker in Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing (2007): chi appartiene a un gruppo socialmente svantaggiato vede il proprio contributo sistematicamente sminuito o ignorato. Ma la conseguenza dell’uso del gergo è che ci sentiamo qualcuno solo all’interno del piccolo ghetto di chi quel gergo lo usa.

Il messaggio e la funzione implicita, politica, di ogni linguaggio iniziatico è semplice. Autoproclamarsi gli eletti: insignirsi del ruolo di mediatori tra la complessità del business e la necessità di prendere decisioni. L’impersonalità del linguaggio, inoltre, attenua la portata emotiva delle decisioni, trasformando scelte umane in meri passaggi tecnici. Non si licenzia, si fa right-sizing. Le dimissioni diventano off-boarding e svuotate di emozioni. E quando si parla di dipendenti, è raccomandabile far riferimento alle unità lavorative e, quindi, alle bandwidth. Dietro ad espressioni come agile workforce si nascondono precarietà e false partite IVA, mentre il bottom quartile identifica chi è a rischio licenziamento per scarsa produttività.

La lingua della consulenza ti invita sempre a cambiare prospettiva, ad abbracciare la trasformazione, a uscire dalla comfort zone. Invece la vera disruption sarebbe chiamare le cose con il loro nome.

Il cosiddetto “mindset sfidante” è solo l’arte di vendere fumo con stile. A questo serve l’antilingua di cui scrisse sessant’anni fa Italo Calvino in un articolo pubblicato il 3 febbraio 1965 sul quotidiano Il Giorno.

«Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”.

Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione:
“Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”.

Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua».

Comunicare in modo burocratico, pomposo e artificiale, ma anche tecnico o “cool” serve sempre a nascondere più che a informare, è un modo per esercitare potere e autorità, e mantenere gli esclusi a distanza e impedirgli di comprendere.

– Leggi anche: La lingua di plastica

Ilaria Padovan
Ilaria Padovan

Lavora in consulenza a Milano da più di dieci anni. Collabora con diverse riviste, tra cui Limina, Il Tascabile, The Vision, minima&moralia. Scrive anche per la rivista online di Treccani Lingua italiana.

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