“La città proibita” è un vero film di arti marziali, ma è italiano

Il regista Gabriele Mainetti lo ha girato con i principi e le tecniche del cinema asiatico, e il risultato si vede

di Gabriele Niola

Una scena di La città proibita
Una scena di La città proibita
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La città proibita, il nuovo film di Gabriele Mainetti, è un film di arti marziali. E non è una cosa normale per un film fatto in Italia, dove non esiste un’esperienza consolidata nel genere, né tra i registi né tra le maestranze. Eppure è un film di arti marziali girato ai massimi livelli, cosa peraltro oggi molto più difficile da fare rispetto al passato: si avvicina per capirsi agli standard dei film asiatici, come i precedenti film di Mainetti Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out si erano avvicinati a quelli dei film americani.

La storia è quella di una ragazza cinese che ha praticato kung fu fin da piccola, che arriva a Roma in cerca della sorella scomparsa. Insieme a un ragazzo romano si trova coinvolta nello scontro tra piccoli criminali locali e cinesi, e trattandosi di un film di arti marziali gran parte della narrazione si sviluppa attraverso i combattimenti tra la protagonista e diversi avversari.

I film di arti marziali appartengono alla tradizione del cinema cinese e più in generale asiatico; solo in tempi più recenti si è iniziato a produrli anche nel resto del mondo. L’approccio rimane comunque diverso, e nei film occidentali gli attori coinvolti usano comunque in molti casi controfigure: non sono veri atleti come nel cinema asiatico. Gabriele Mainetti ha praticato arti marziali da giovane e conosce molto bene il cinema asiatico, le sue particolarità e le tecniche di ripresa. Come spesso accade l’esperienza acquisita attraverso la visione di film fa la differenza già in fase di pianificazione della produzione del film.

La prima scelta fatta con Wildside, la società produttrice, è stata quella di cercare un’artista marziale (detti anche “marzialisti”) per il ruolo della protagonista, invece di un’attrice convenzionale che si sarebbe poi allenata per interpretare alcune scene di combattimento (e altre no). Non è scontato perché fin dall’inizio i film d’arti marziali non cinesi hanno faticato a farlo.

Il momento in cui le arti marziali diventarono un elemento rilevante per il cinema americano risale al 1971, con l’uscita di Billy Jack, un film oggi poco noto ma all’epoca di grande successo. Il protagonista non era un artista marziale ma l’americano Tom Laughlin, che interpretava un eroe per metà nativo americano che in una piccola cittadina si batte contro chi maltratta studenti e hippie locali. Lo fa utilizzando l’arte marziale coreana hapkido, in un film a basso budget indipendente che cerca di riprendere gli scontri nel miglior modo possibile, grazie alle coreografie del maestro di hapkido Han Bong-soo.

Nonostante gli sforzi quelle scene oggi appaiono artefatte, più simili a un’esibizione che a veri combattimenti. Billy Jack incassò più di 50 milioni di dollari dell’epoca e generò due sequel. Due anni dopo uscì negli Stati Uniti il primo film con Bruce Lee, The Big Boss (in Italia Il furore della Cina colpisce ancora), inaugurando la moda delle arti marziali e mostrando qualcosa di molto più realistico, veloce e tecnico fatto da un vero atleta e artista marziale. Ancora oggi le scene dei primi film di Bruce Lee risultano credibili e appassionanti.

Per La città proibita sono state provinate molte attrici di fama internazionale (come da prassi, i nomi non sono stati divulgati), ma alla fine ne è stata scelta una poco nota, ma davvero marzialista. Si tratta della cinese Yaxi Liu, che pratica diverse discipline marziali ed è entrata nel mondo del cinema come controfigura della protagonista nel film americano Mulan. Invece di selezionare un’attrice dotata di buon atletismo si è optato insomma per una marzialista videogenica, dotata di una naturale intensità. Ed è stata scelta anche se non parla né italiano né inglese. La differenza si nota chiaramente già nella prima scena del film, concepita per stabilire la credibilità di ciò che seguirà e strutturata appositamente per mostrare con riprese a figura intera e un montaggio ridotto le capacità della protagonista.

Oltre a padroneggiare i movimenti giusti, un’atleta simile li sa eseguire con velocità e può reggere i lunghi tempi di ripresa delle scene più fisiche, che magari vanno ripetute più volte sempre alla medesima intensità. Ma per un film simile è indispensabile anche un coreografo per i combattimenti. Non è solo quello che decide tutti i movimenti, come in una danza, ma anche un collaboratore del regista, capace di inquadrare i conflitti fisici in modo che sembrino autentici.

La storia delle arti marziali al cinema è una costante esportazione di tecniche, stili e soluzioni dal cinema asiatico al resto del mondo, principalmente grazie ai film angloamericani e quasi sempre grazie ai coreografi. A Hong Kong e in Cina i film di arti marziali sono più numerosi, più sofisticati e quasi sempre realizzati con atleti che vengono dal mondo delle vere competizioni di arti marziali oppure da performer atletici come Jackie Chan, che ha praticato le arti marziali come forma di allenamento ma viene dalla scuola dell’Opera di Pechino. Le migliori maestranze del settore lavorano in quei film. In America invece i film d’azione hanno sempre seguito altri stili, tecniche di regia e montaggio, fino all’arrivo dei coreografi cinesi.

Il successo prima di Matrix nel 1999 e poi di La tigre e il dragone l’anno successivo cambiò le cose. Entrambi questi film avevano come coreografo uno dei più rispettati maestri del settore, Yuen Woo-ping, che in Cina era stato anche regista di film di arti marziali storici. Grazie a lui quelle pellicole importarono la tecnica del wire-fu, ovvero il kung fu cinematografico in cui gli attori rimangono in aria per tempi impossibili attaccati a dei cavi. Yuen Woo-ping collaborò anche a Kill Bill.

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Questo cambiò profondamente il modo in cui si coreografano e si girano le scene d’azione e di combattimento nel cinema americano dagli anni Duemila in poi. In questo contesto si formò Liang Yang, stuntman e coreografo di arti marziali e d’azione in film come Edge of Tomorrow o Mission: Impossible – Fallout. È stato lui a curare le coreografie di La città proibita, scelto dopo un’accurata selezione che ha coinvolto anche alcuni professionisti della squadra di stuntmen di Jackie Chan (scartati perché non parlano inglese, ma solo cinese). In La città proibita poi lavorano anche molti stuntmen delle più importanti squadre italiane, quelle che collaborano ai film d’azione di Stefano Sollima o altri più spettacolari come Il primo re o Freaks Out, e che affiancano le produzioni americane quando girano in Italia. Tuttavia in La città proibita non si occupano direttamente della pianificazione e della ripresa delle scene di combattimento.

La differenza si nota non solo nella complessità, ma anche nella creatività delle scene d’azione. I film che rappresentano male le arti marziali infatti non sono solo quelli in cui i combattimenti risultano poco credibili, ma anche quelli in cui appaiono noiosi e ripetitivi. I migliori invece sono quelli che introducono elementi innovativi: l’uso di oggetti non convenzionali, continui cambi di scena o di dinamiche, momenti divertenti all’interno dell’azione o persino un arco narrativo.

Questo aspetto era particolarmente importante per Gabriele Mainetti, proprio per la sua conoscenza del genere. In ogni scena di combattimento di La città proibita è stato inserito un racconto interno allo scontro con una struttura ben definita: un momento iniziale, un evento che cambia gli equilibri o sorprende il pubblico, una variazione delle forze in campo, il ribaltamento delle aspettative e infine la risoluzione. Sono tecniche che già Bruce Lee sperimentava e che si vedono chiaramente nel suo celebre duello con Chuck Norris in L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente, ma che spesso vengono trascurate anche nei film d’azione contemporanei più importanti.

Infine, per realizzare un film di arti marziali moderno che non risulti datato ma in linea con gli standard internazionali, è molto importante il lavoro con la steadicam. Sono le videocamere con un sistema di contrappesi che permettono all’operatore di muoversi all’interno della scena senza che l’immagine tremi eccessivamente. Il ruolo della steadicam è cambiato radicalmente nel 2011 con l’uscita di The Raid, un film girato in Indonesia con attori e marzialisti indonesiani ma diretto dal gallese Gareth Evans. In The Raid le arti marziali sono molto più realistiche e tecniche del solito, vengono riprese con pochi stacchi, in lunghi piani sequenza e con la macchina da presa che partecipa attivamente alla coreografia: si muove vicino ai personaggi e si sposta all’interno del combattimento, invece di limitarsi a osservarlo dall’esterno. Questo stile ha profondamente influenzato il cinema d’azione contemporaneo ed è stato adottato in produzioni americane come John Wick o Atomica bionda.

Anche in La città proibita le coreografie seguono questa impostazione. Gabriele Mainetti ha spiegato che il merito va a Matteo Carlesimo, l’operatore con cui lavora fin da Lo chiamavano Jeeg Robot e che ha grande esperienza anche di produzioni d’azione americane. Carlesimo ha permesso a Mainetti di realizzare le scene concepite da Liang Yang ed eseguite da Yaxi Liu insieme agli altri stuntmen provenienti dalla Cina, a un livello mai tentato prima nel cinema italiano.