Stiamo ancora cercando di identificare i migranti morti nel naufragio di Lampedusa del 2013
Sono state riconosciute solo 54 delle 368 persone annegate, ma è un caso straordinario perché spesso nessuno se ne occupa

All’inizio di febbraio una specializzanda in medicina legale dell’Università Statale di Milano e l’attivista Tareke Brhane sono andati per qualche giorno a Kampala, in Uganda, per prelevare dei campioni di DNA e intervistare i membri di tre famiglie che pensano che un proprio parente sia morto nel grande naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013. L’obiettivo di questa breve missione, la prima in un paese africano, era provare a identificare i resti di alcune delle 368 persone morte in quel naufragio. In quasi dodici anni è stata accertata ufficialmente l’identità di solo 54 di loro.
È una situazione imparagonabile a ciò che avviene nei disastri collettivi che coinvolgono persone provenienti da paesi ricchi, quando in poco tempo tutti i corpi sono identificati e restituiti alle famiglie. Eppure quello del 3 ottobre 2013 è un caso privilegiato tra i naufragi nel mar Mediterraneo degli ultimi vent’anni, e non solo perché furono recuperati (si ritiene) i corpi di tutte le persone morte. Quel naufragio fu uno dei più gravi mai avvenuti nel mar Mediterraneo ed è considerato da molti un momento di svolta per il dibattito sulle migrazioni verso l’Europa: la grande attenzione mediatica e politica che attirò spinse la questura di Agrigento a raccogliere fotografie dettagliate e campioni di DNA per ogni corpo.
Questi dati, insieme all’impegno di persone come Brhane, hanno permesso a una parte dei familiari dei morti di conoscere con certezza la sorte dei propri cari, una cosa di fatto impossibile per moltissime famiglie di migranti annegati nel Mediterraneo.
Sia in Italia che negli altri paesi europei infatti non ci sono leggi che obblighino gli stati a identificare le persone migranti morte in mare. «Se un corpo viene trovato sulla spiaggia di Agrigento», spiega Brhane, «non viene trattato come un corpo trovato alla stazione Termini di Roma. Per il corpo a Termini viene chiamata la polizia scientifica, vengono registrati dei dati. La stessa persona trovata su una spiaggia non vale niente». Succede perché nel caso di Termini si apre un’indagine per escludere o verificare che sia stato commesso un reato; nel caso della spiaggia non si fa perché si dà per nota la causa della morte. «Prelevare un campione di DNA costa poco», aggiunge Brhane, «ma per la famiglia del morto vale tantissimo».
Le persone che erano a bordo dell’imbarcazione naufragata il 3 ottobre del 2013 provenivano per la maggior parte dall’Eritrea, un paese poverissimo e governato da una feroce dittatura che non ha alcun interesse a far rispettare i diritti dei suoi cittadini scappati all’estero, e, al contrario, spesso ne perseguita i parenti rimasti in patria. Per le famiglie dei presunti morti rimaste in Eritrea raggiungere l’Italia per avere notizie dei propri cari e dei loro resti era praticamente impossibile, mentre era fattibile per parenti e amici emigrati e residenti in Italia o in altri paesi europei: molti di loro, dopo il naufragio, andarono a Lampedusa o ad Agrigento per chiedere informazioni.
Nel frattempo Tareke Brhane, che ha origini eritree e nel 2005 aveva a sua volta attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Italia, aveva creato un gruppo su Facebook chiamato “Comitato 3 Ottobre”: voleva proporre di istituire una giornata della memoria dedicata ai migranti morti in mare (sarebbe poi stata istituita nel 2016), affinché nelle scuole e in altri contesti pubblici si parlasse dei durissimi e pericolosi viaggi affrontati dai migranti, all’epoca meno noti di ora. Dato che i parenti dei morti non riuscivano a ottenere informazioni né a Lampedusa né ad Agrigento, il Comitato 3 Ottobre, diventato un’associazione, organizzò molte iniziative per fare pressione sul governo e aiutarli.
I primi risultati ci furono nell’ottobre del 2014 quando 19 persone furono intervistate e, in alcuni casi, sottoposte a prelievi di DNA tramite tamponi buccali, nell’Ufficio del Commissario per le persone scomparse del ministero dell’Interno. A condurre le interviste e a mostrare agli intervistati le fotografie dei corpi recuperati a Lampedusa furono i ricercatori del Laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) dell’Università Statale di Milano: è il laboratorio diretto dalla nota medica legale Cristina Cattaneo, che da quasi trent’anni lavora per semplificare e sveltire i processi di identificazione delle persone morte di cui si ignorano le generalità.
Da allora ogni anno circa una decina di famiglie si rivolge al Comitato 3 Ottobre, di cui Brhane è presidente, per cercare informazioni sui propri cari scomparsi e viene messa in contatto col Labanof che poi collabora con la polizia scientifica di Milano per le analisi genetiche. Il viaggio in Uganda però è stato il primo che l’associazione ha organizzato in un paese africano per raggiungere persone che non vivono in Europa.
A Kampala vivono molti richiedenti asilo eritrei e tre famiglie avevano chiesto l’aiuto del Comitato 3 Ottobre. Ma quando Brhane e Annalisa D’Apuzzo, la medica del Labanof, sono arrivati in Uganda, altre nove famiglie hanno chiesto di essere intervistate e di poter dare dei campioni del proprio DNA. «Abbiamo finito tutti i tamponi che avevamo preso con noi», racconta Brhane, «e ne abbiamo dovuti comprare altri a Kampala» (le altre famiglie sono state avvisate tramite il passaparola nella comunità eritrea).

Una delle persone incontrate a Kampala da Brhane e D’Apuzzo (Comitato 3 Ottobre)
Di solito per raccogliere dati e fotografie utili a suffragare un’ipotesi di identificazione occorre un’intervista dettagliata di più di un’ora, emotivamente una dura prova per i parenti delle persone scomparse. Le informazioni sui denti e i campioni di DNA sono fondamentali nei casi come quello del naufragio del 3 ottobre 2013 in cui esistono dei dati “post mortem” con cui confrontarli. Possono infatti confermare in maniera certa una presunta identificazione.
A Kampala due famiglie hanno affermato di aver riconosciuto il proprio parente scomparso tra le fotografie dei corpi recuperati dopo il naufragio: se l’analisi dei campioni di DNA confermerà i riconoscimenti, l’Ufficio del Commissario per le persone scomparse del ministero dell’Interno potrà certificare le identificazioni e fare avere alle famiglie dei certificati di morte.
Con tutti i problemi relativi alle migrazioni «nessuno si vuole occupare dei morti», dice Brhane, «ma occuparsi dei morti ha un impatto anche sui vivi». Per i familiari delle persone morte in mare infatti avere il certificato di morte può essere molto importante, a volte anche per ragioni molto concrete. Brhane racconta il caso di una donna eritrea che insieme ai suoi tre figli vive in un campo profughi in Etiopia: aveva presentato una richiesta d’asilo in Australia ed era riuscita a ottenere la possibilità di andarci, ma non poteva portare con sé i figli minorenni a meno di provare che il padre fosse morto (e che dunque non potesse opporsi al loro spostamento). Il Comitato 3 Ottobre ha lavorato per fare arrivare un campione di DNA dall’Etiopia all’Italia e poi il Labanof si è occupato delle analisi genetiche insieme alla polizia scientifica di Milano, ma nei mesi necessari alla procedura la donna ha perso la sua occasione di andare in Australia.
Una vicenda simile, ma finita bene, è stata raccontata da Cristina Cattaneo nel suo libro Naufraghi senza volto, uscito nel 2018. Tra le persone che viaggiavano sulla barca naufragata il 3 ottobre 2013 c’era una donna vedova che aveva lasciato il figlio minorenne in un campo profughi della Somalia, affidato ad alcuni conoscenti. Uno zio del bambino residente in Canada e una zia residente in Svezia avrebbero voluto adottarlo per farlo crescere in famiglia, ma senza il certificato di morte della madre non potevano farlo. La donna fu tra le prime 35 persone identificate dal Labanof tra il 2014 e il 2015 e così il bambino ottenne i documenti necessari per essere adottato.
Brhane racconta anche la storia più recente di una ragazzina di 12 anni che lo scorso 3 ottobre si è presentata al Comitato in occasione delle attività organizzate per l’anniversario del naufragio: voleva dare un campione di DNA che permettesse di identificare il padre. «Non lo aveva mai conosciuto perché aveva 1 o 2 anni quando morì», spiega Brhane, «nel frattempo era andata a vivere in Belgio ed è venuta a Lampedusa da lì perché per fare il passaporto le serve il certificato di morte». Dopo le verifiche necessarie proprio la scorsa settimana è arrivato l’esito positivo dell’identificazione.
Le questioni pratiche ovviamente si aggiungono alla grande sofferenza causata dal non sapere che fine abbiano fatto una persona amata e i suoi resti. In questi casi si parla di “perdita ambigua”, un tipo di lutto che può causare gravi problemi di salute mentale, come depressione e alcolismo. Per chi soffre per una perdita ambigua sapere cosa è stato della persona scomparsa può dare una sensazione di sollievo ed essere un punto di partenza per una nuova fase della vita.
Brhane dice di voler provare a organizzare altre missioni come quella in Uganda, anche perché sono arrivate delle richieste da comunità eritree di altri paesi: «È una vergogna che più di undici anni dopo non siamo ancora riusciti a identificare tutti i morti dato che abbiamo tutti i dati “post mortem” necessari».
Le sepolture sono un altro aspetto problematico nell’esperienza delle famiglie dei morti. Finora di nessuna delle persone morte il 3 ottobre sono stati riesumati i resti per portarli in Eritrea, perché i familiari generalmente vivono all’estero. Dovrebbe essere il paese di provenienza ad autorizzare il rimpatrio della salma, ma dato che chi fugge dall’Eritrea è considerato un disertore dal governo del paese, è un tipo di richiesta che non viene fatta dai parenti. Anche in una situazione diversa sarebbe molto costoso spostare i resti.

Tombe di 19 migranti nel cimitero di Sciacca, in provincia di Agrigento: durante una visita al cimitero nel 2021 Brhane e alcuni parenti scoprirono che i resti erano stati spostati in una fossa comune, per quanto sepolti separatamente; con la collaborazione del comune di Sciacca nel 2022 fu inaugurata l’area cimiteriale come appare oggi, con i nomi o i codici identificativi delle persone sepolte (Comitato 3 Ottobre)
Molti dei parenti che hanno avuto a che fare con il Comitato 3 Ottobre chiedono la creazione di un cimitero in cui siano raccolti tutti i resti delle persone morte nel naufragio, che nel 2013 furono distribuiti tra diversi cimiteri siciliani in base agli spazi disponibili, per poter visitare le tombe in un unico posto. Ci sono nuclei familiari che sono stati divisi: «Una donna e una dei suoi figli sono sepolti ad Agrigento, un altro figlio è a Mazzarino», dice per esempio Brhane.
Pensando anche agli altri naufragi, il Comitato 3 Ottobre continua a chiedere all’Unione Europea di introdurre una legge che imponga di raccogliere in una banca dati le informazioni su tutti i corpi di persone morte in mare non identificate, e di mettere a disposizione delle famiglie un luogo dove chiedere informazioni e fornire dati “ante mortem”, da confrontare con i profili dei morti sconosciuti. Ha anche creato una petizione online a questo scopo. Dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 in Italia fu progettato un protocollo da seguire per permettere le identificazioni, ma sono pochi i naufragi per cui è stato seguito in modo preciso. Tra gli altri, non è stato fatto per il naufragio di Cutro del 26 febbraio 2023, in cui morirono almeno 88 persone.