Cosa vendiamo agli Stati Uniti
E cosa gli Stati Uniti vendono all'Unione Europea nella relazione commerciale più importante al mondo, e specificamente all’Italia

I dazi tra Stati Uniti ed Europa non sono più un’eventualità: quelli dell’amministrazione Trump sono appena entrati in vigore, l’Unione Europea ha annunciato che ne introdurrà altrettanti come ritorsione. Anche se al momento riguardano specifiche categorie di merci – gli Stati Uniti hanno tassato l’acquisto di acciaio e alluminio, l’Europa ha scelto prodotti dal valore simbolico come i jeans o le Harley-Davidson – c’è il rischio che ne nasca una cosiddetta “guerra commerciale”, con l’estensione dei dazi anche ad altri prodotti.
I dazi sono una tassa sulle merci importate, pagata da chi importa al proprio governo: i dazi di Trump saranno pagati dalle aziende statunitensi, quelli europei dalle aziende europee. Nella gran parte dei casi, fanno aumentare il prezzo al consumo dei beni interessati. Per capire se e quanto i dazi rischiano di danneggiare le due economie, quindi, bisogna guardare nel dettaglio cosa Stati Uniti ed Europa si scambiano di più.
Per quanto riguarda i servizi – per esempio quelli finanziari e tecnologici, le consulenze e le forniture di software – gli ultimi dati risalgono al 2023, e mostrano che gli Stati Uniti ne hanno venduti più di quanto ne abbiano comprati, fornendo ai paesi europei servizi per 420 miliardi di euro, a fronte di vendite europee negli Stati Uniti per 320 miliardi. Di solito i servizi non sono esposti al rischio di dazi, dunque il vantaggio statunitense in questo settore è al riparo.
Le cose sono molto diverse per il commercio di prodotti fisici. Nel 2024 le due parti si sono scambiate 864 miliardi di euro di beni, di cui 531 venduti dalle aziende europee agli Stati Uniti e 333 venduti dalle aziende statunitensi all’Unione Europea. Il saldo commerciale, cioè la differenza tra esportazioni e importazioni, è in questo caso a favore dei paesi europei, che agli Stati Uniti vendono più cose di quante ne comprino da loro.
Tra le merci europee più esportate negli Stati Uniti ci sono i prodotti farmaceutici, che pesano il 22,5 per cento del totale. Vendiamo negli Stati Uniti addirittura un terzo di tutti i prodotti farmaceutici – farmaci, dispositivi medici, principi attivi – che l’Europa vende all’estero: è in assoluto il mercato più profittevole per le aziende del settore, anche perché le aziende riescono a vendere a prezzi mediamente più alti che in Europa, dove i prezzi sono tenuti più bassi dall’intervento delle autorità pubbliche.
Dal 2017, poi, le vendite di prodotti farmaceutici negli Stati Uniti sono decisamente in aumento anche grazie a una serie di accordi che hanno uniformato le normative di riferimento contribuendo a integrare i due settori e renderli più interdipendenti. Le esportazioni europee dell’industria farmaceutica oggi valgono il 32 per cento del mercato statunitense, mentre quelle statunitensi in Unione Europea pesano il 39 per cento di tutto il mercato locale. Anche tra le aziende farmaceutiche italiane le esportazioni verso gli Stati Uniti sono fondamentali: secondo Farmindustria oltre il 90 della produzione nazionale finisce per essere venduta all’estero, di cui un quinto negli Stati Uniti.
Per quanto solitamente il settore medico-farmaceutico venga escluso da misure come i dazi, le politiche di Trump sono così erratiche che nel settore si parla dell’eventualità che le grandi multinazionali europee del settore finiscano per spostare alcune loro sedi negli Stati Uniti: riuscirebbero così a evitare i dazi, ma danneggerebbero il settore europeo in termini di investimenti e occupazione. Anche per questo motivo da mesi le azioni delle principali multinazionali europee quotate in borsa – come Roche, Novartis, Novo Nordisk – stanno perdendo parecchio valore.
Dopo la farmaceutica, ma con ampio distacco, il settore più rilevante per le esportazioni europee verso gli Stati Uniti è la meccanica: i veicoli stradali (auto, moto, camion, etc) pesano per quasi il 10 per cento, seguiti da diversi tipi di macchinari e componentistica per la meccanica, industriale e non. Le esportazioni di farmaceutica e meccanica rappresentano circa la metà di tutte le esportazioni europee verso gli Stati Uniti.
Quanto alle merci che fanno il percorso inverso – vendute dagli Stati Uniti, comprate dall’Europa – un peso enorme ce l’ha l’energia, forse il settore per cui l’Unione Europea rischia di più: oltre un quinto delle importazioni europee dagli Stati Uniti è composto da gas e prodotti petroliferi. Dall’inizio della guerra in Ucraina gli Stati Uniti sono diventati tra i primi fornitori di gas dei paesi europei, in sostituzione della Russia; e i paesi europei sono diventati il primo paese di destinazione per il gas statunitense.
Finora abbiamo considerato insieme i 27 paesi europei, perché l’Unione Europea è un’unione doganale: vuol dire non solo che tra i suoi paesi non ci sono dazi o vincoli al commercio, ma anche che con gli altri paesi si relaziona come un’entità unica. Tutti i paesi dell’Unione applicano e sono sottoposti agli stessi dazi: l’Italia non può imporre in maniera autonoma un dazio sul formaggio prodotto negli Stati Uniti, solo l’Unione Europea può farlo; allo stesso modo, gli Stati Uniti non possono imporre dazi sul formaggio proveniente dall’Italia ma solo da quello proveniente dall’Unione.
Ogni paese però ha un suo legame con gli Stati Uniti, e importa ed esporta beni diversi e in quantità diverse. Il paese europeo più esposto ai dazi statunitensi è la Germania, la cui economia si fonda storicamente sulle esportazioni e che si trova peraltro in una grave crisi economica. Vende agli Stati Uniti quasi 160 miliardi di euro di merci ogni anno, circa il doppio di quanti ne importa: sono perlopiù prodotti chimici, macchinari, componenti e prodotti farmaceutici.
Altri paesi europei molto esposti sono Paesi Bassi, Francia e Italia, rispettivamente l’undicesimo, il dodicesimo e il tredicesimo partner commerciale degli Stati Uniti. L’Italia vende agli americani merci per 67 miliardi di euro, e ne importa per 25 miliardi. Esportiamo perlopiù macchinari, articoli farmaceutici e mezzi di trasporto, mentre importiamo farmaci, prodotti dell’estrazione di minerali e materie prime. Gli Stati Uniti sono il terzo paese di destinazione delle merci italiane, e le regioni più esposte sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna, la Toscana, il Veneto e il Piemonte, che insieme esportano più di due terzi del totale delle merci italiane vendute negli Stati Uniti.
Un settore menzionato spesso quando si parla di dazi è quello agroalimentare: nel 2023 l’Italia ha esportato negli Stati Uniti poco più di 6 miliardi di euro tra prodotti alimentari, alcolici, e prodotti agricoli, e ne ha importato poco più di un miliardo di euro. Sono il 9 per cento di tutte le esportazioni italiane negli Stati Uniti e il 5 per cento delle importazioni. Sebbene di per sé sembrino molti, non sono tra i settori più esposti ai dazi: valgono solo un terzo delle esportazioni della meccanica, per esempio, e poco più della metà dei prodotti chimici e farmaceutici.
– Leggi anche: Come funzionano i dazi, spiegato
Sia Stati Uniti che Unione Europea hanno dunque parecchio da perdere da un’imposizione di dazi incrociati: le due parti hanno la più grande relazione commerciale esistente al mondo, cioè si scambiano un quantitativo di beni, servizi e investimenti che non ha eguali per nessuna coppia di paesi. Significa non solo che i consumatori europei sono abituati a comprare la merce statunitense e viceversa, ma anche che le aziende europee usano strutturalmente prodotti e servizi intermedi che vengono dagli Stati Uniti e viceversa.
Non esiste alcun accordo commerciale complessivo tra Unione Europea e Stati Uniti, ma solo tanti accordi singoli che hanno l’obiettivo di armonizzare normative e procedure in settori specifici. In passato c’è stato un tentativo di accordo di libero scambio generalizzato: il famigerato TTIP, che sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership. Le trattative iniziarono nel 2013 ma lo scetticismo delle opinioni pubbliche europee e statunitensi, insieme con l’arrivo della prima amministrazione Trump, le fecero fallire e chiudere nel 2019.