Che fine ha fatto il ChievoVerona
Dopo le stagioni in Serie A e il fallimento è tornato alle sue origini di squadra di quartiere, ma è rimasto ambizioso grazie al suo nuovo presidente: l'ex capitano Sergio Pellissier
di Gianluca Cedolin

altre
foto
Per molti anni chi seguiva la Serie A si era abituato a vedere tra le partecipanti il ChievoVerona, l’unica squadra nel calcio italiano ad aver completato, con la prima promozione in Serie A nel 2001, l’intera scalata dalla categoria più bassa alla più alta. Fu un caso abbastanza eccezionale soprattutto per il contesto in cui ebbe origine, e cioè un quartiere di appena cinquemila abitanti a nord-ovest di Verona, sulla riva destra dell’Adige, con un passato prima agricolo, poi da periferia operaia e popolare, e un presente da zona residenziale tranquilla e amena.
In Serie A il Chievo ci rimase, con una pausa per la retrocessione in B del 2007, fino al 2019, ottenendo diversi risultati sorprendenti soprattutto nei primi anni, in cui arrivò addirittura a giocare competizioni internazionali. Poi però alcuni problemi giudiziari lo costrinsero a tornare nelle categorie inferiori, quelle in cui aveva giocato per tutta la sua storia fino agli anni Ottanta. Nel 2021 fu escluso da tutti i campionati professionistici e in seguito dichiarato fallito a causa di inadempienze tributarie; in quello stesso anno gli ex calciatori Sergio Pellissier ed Enzo Zanin fondarono una nuova squadra, la Clivense, e la iscrissero al campionato di Terza Categoria. La scorsa primavera la Clivense ha acquistato il marchio del Chievo, acquisendo il nome ChievoVerona.
Oggi è settimo nel girone B di Serie D e gioca alcune partite nel campo dell’Hellas Verona femminile e altre in quello del Sona, una squadra locale. Si giocava lì anche la partita contro il Crema di domenica 2 marzo, durante la quale i tifosi di casa hanno intonato un coro che fa così: «Siamo i figli della storia, di una magica realtà, di una squadra di un quartiere, arrivata in Serie A. Poi sono passati gli anni, poi sono arrivati i guai, ma non ci hanno mai piegati, noi non molleremo mai». Come molti cori ultrà è un po’ enfatico e retorico, ma sintetizza in modo efficace le vicissitudini della squadra.
L’atmosfera al campo del Sona (definirlo stadio forse è eccessivo, visto che c’è una sola tribuna, mentre su due lati confina con vigneti) è piuttosto lontana da quella delle partite di Serie A. Non ci sono tornelli e controlli; le persone possono scegliere se sedersi in tribuna oppure guardare la partita a bordo campo, appoggiate alle reti; mancano raccattapalle e maxischermi. Ciononostante, c’è grande partecipazione tra gli ultras e tra la gente di Chievo e dintorni, anzi la ripartenza nelle categorie inferiori ha forse reso di nuovo preponderante la componente del tifo più popolare e di quartiere. Pur non essendo mai del tutto sparita, si era un po’ smorzata quando il Chievo era diventato almeno nei risultati la prima squadra di Verona, arrivando ad acquisire per un periodo una dimensione anche internazionale.
Quanto la squadra sia radicata nel suo quartiere lo si vede passeggiando nelle poche strade di Chievo, dove ci sono tanti adesivi e murales legati alla squadra e ai gruppi organizzati di tifosi; il primo in cui ci si imbatte, arrivando nel quartiere da sud, dice «al Chievo solo il Chievo» (anche il quartiere viene spesso menzionato con l’articolo davanti). Poco più avanti c’è il Tito’s bar, un punto di ritrovo nei giorni delle partite, sulle cui pareti sono esposti gagliardetti, maglie, sciarpe e altri cimeli della squadra: qui i tifosi ricordano ancora l’eccitazione che accompagnò l’ascesa del Chievo ai vertici del calcio e i primi, storici derby contro l’Hellas Verona.

Una scritta su un muro di Chievo, Verona, 2 marzo 2025 (Gianluca Cedolin, Il Post)
Fu in effetti abbastanza impronosticabile il modo in cui una squadra di un quartiere così piccolo, in una città dove tutti o quasi tifavano per l’Hellas (che nel 1985 aveva anche vinto lo Scudetto), riuscì a cambiare le gerarchie e ad affermarsi in quel modo. Il ChievoVerona non arrivò solo in Serie A, ma giocò alcuni campionati abbastanza eccezionali.
Alla prima stagione, con Luigi Delneri come allenatore, arrivò quinto, con una squadra diventata di culto tra gli appassionati, con giocatori come Simone Perrotta, Eugenio Corini, Bernardo Corradi e Massimo Marazzina. Negli anni successivi ottenne due settimi posti, uno dei quali (nel 2006) diventò un quarto posto dopo le sentenze legate allo scandalo Calciopoli: grazie a quel piazzamento, il Chievo giocò i preliminari di Champions League, la principale competizione europea per club.
Il Chievo dei primi anni Duemila era insomma considerato un modello virtuoso di squadra piccolissima diventata grande con programmazione, idee e investimenti azzeccati (dal 1992 al 2014 il direttore sportivo fu Giovanni Sartori, che poi ha contribuito all’eccezionale crescita di Atalanta e Bologna). Nel 1964 il club era stato acquistato dalla famiglia Campedelli, proprietaria dell’azienda dolciaria veronese Paluani, famosa soprattutto per i suoi pandori; alla morte di Luigi Campedelli, nel 1992, suo figlio Luca diventò presidente del Chievo a soli 23 anni.
Proprio la settimana scorsa per Luca Campedelli, che era stato presidente del Chievo per diciassette stagioni in Serie A, la procura ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di bancarotta fraudolenta e per la cessione fittizia di alcuni giocatori al Cesena e al Carpi, una vicenda di plusvalenze per la quale la squadra ricevette una penalizzazione nella sua ultima stagione in Serie A, quella 2018/2019.
Al termine di quella stagione si ritirò dal calcio Pellissier, che aveva giocato nel Chievo come attaccante tra il 2002 e il 2019, diventando il giocatore con più gol in Serie A nella storia della squadra (112). In occasione della sua ultima partita in casa, Campedelli disse che Pellissier sarebbe diventato il presidente operativo del club dalla stagione successiva. Col tempo però, con gli sviluppi delle vicende giudiziarie del Chievo, i rapporti tra i due peggiorarono, e quando il Chievo fallì Pellissier decise di fondare una nuova squadra che ne riprendesse la storia.
Non fu semplice, però, perché inizialmente non gli fu consentito di chiamarla Chievo, e solo tre anni dopo riuscì ad acquistare il marchio, in un’asta piuttosto onerosa alla quale si presentò pure Campedelli, che nel frattempo aveva acquistato il Vigasio, un’altra squadra della provincia di Verona, di Serie D. Pellissier, Zanin e i loro soci, anche grazie a una raccolta fondi a cui hanno partecipato sponsor e tifosi (una specie di azionariato popolare), se lo aggiudicarono per circa 350mila euro, che per un club di Serie D sono davvero parecchi.
Pellissier e Zanin assieme ai tifosi dopo l’asta con cui si sono presi il marchio ChievoVerona
Con l’acquisizione del marchio, i tifosi che avevano smesso di tifare per il Chievo non riconoscendo alla Clivense la continuità storica con quel club sono quasi tutti tornati a seguirlo, racconta un tifoso al Tito’s Bar. Oggi i due principali gruppi ultras, North Side e Followers, cantano insieme alle partite in casa e in trasferta: a frequentare lo stadio sono nell’ordine di qualche centinaio. Quelli del North Side, il più antico e grosso gruppo di tifo organizzato (sono nati nel 1994, quando il Chievo arrivò in Serie B per la prima volta), si sono schierati sin da subito dalla parte di Pellissier e della Clivense; i Followers invece sono stati più attendisti e sono tornati a tifare solo con il ritorno del ChievoVerona.
Qualcuno tuttavia, dopo il fallimento, si è allontanato in modo più o meno definitivo dalla squadra. Il Gate 7, un altro dei gruppi organizzati, si è sciolto la scorsa estate; quelli degli Amici del ChievoVerona, uno dei coordinamenti storici, quasi non fanno più attività. Nati nel 1994, poco dopo il gruppo North Side, gli Amici hanno sempre avuto come punto di ritrovo il bar La Pantalona, a Chievo. Il titolare racconta che «la cancellazione del primo Chievo ha un po’ spiazzato l’anima della tifoseria». Per loro il Chievo, dice il barista, è sempre stata una cosa popolare, di tutti, soprattutto quando giocava tra i dilettanti ed era facile che ci fossero rapporti diretti tra la gente del quartiere e la squadra. Con il fallimento, però, alcuni si sono disamorati del calcio, non tanto per il ritorno in categorie inferiori, quanto per la temporanea cancellazione del marchio e tutte le vicende giudiziarie che hanno coinvolto il club.
È difficile dire cosa sarebbe successo se Campedelli fosse riuscito a ricomprarsi il marchio, perché a quel punto per i tifosi sarebbe sorto un nuovo dilemma: seguire «la continuazione spirituale» del Chievo (come il tifoso del Tito’s Bar definisce la squadra di Pellissier e Zanin) oppure la nuova squadra con il nuovo marchio ChievoVerona, che probabilmente avrebbe recuperato la continuità storica con il vecchio Chievo.
Secondo Zanin, attuale vicepresidente del club, «nessuno può dire se la gente ci avrebbe abbandonato; so solo che sin da subito abbiamo ricevuto grande sostegno. In ogni caso noi saremmo andati avanti». Nel primo anno della Clivense, in Terza Categoria, c’erano anche 300-400 persone allo stadio (tante, per una squadra di quel livello); la Clivense vinse quel campionato, con Pellissier che tornò eccezionalmente in campo dopo il ritiro e segnò una doppietta nella partita decisiva per la promozione; poi acquistò il titolo di una squadra di Eccellenza, saltando così due categorie e tre promozioni. Nel 2023 vinse il campionato di Eccellenza e fu promossa in Serie D.

Enzo Zanin (a sinistra) durante Chievo-Crema del 2 marzo 2025 (Gianluca Cedolin/Il Post)
Zanin è un altro che ha vissuto tutte le fasi storiche del Chievo: ci giocò come portiere in Serie C e in Serie B negli anni Novanta, poi lavorò come dirigente in tutto il periodo della Serie A, e infine assieme a Pellissier decise di fondare la Clivense. La squadra fu creata di fatto da zero; oggi non ha ancora un suo campo dove giocare in modo stabile, mentre la scorsa estate l’ex centro sportivo del Chievo è stato acquistato all’asta dall’Hellas per 3 milioni di euro. In quattro anni, comunque, è già riuscita a ottenere due promozioni, a organizzare un settore giovanile e una squadra femminile che stanno ottenendo ottimi risultati, e a far partecipare alla sua proprietà circa un migliaio di soci.
L’obiettivo sarebbe tornare in Serie B entro tre anni, cominciando a lottare per la promozione in Serie C dalla prossima stagione: «Per scalare le categorie ci servono 6 milioni di euro», dice Zanin, spiegando che sarà cruciale l’ingresso di nuovi soci e capitali per continuare a crescere. Non ha aiutato sicuramente dover sacrificare una grossa porzione del budget di questa stagione per comprare il marchio, ma secondo Zanin è valsa la pena riacquisire il nome e i simboli del Chievo, perché «quella è la nostra identità».
Sempre con quest’idea è stato deciso, sin dalla rinascita della Clivense, di ripristinare come colori sociali ufficiali il bianco e l’azzurro, anche se ancora oggi molti tifosi utilizzano il giallo e il blu nei loro stendardi e bandiere. Le maglie del Chievo in origine erano bianche e azzurre; poi, secondo una versione forse un po’ romanzata della storia, negli anni dopo la Seconda guerra mondiale la squadra, in grosse difficoltà economiche, chiese all’Hellas Verona di poter utilizzare le sue vecchie maglie gialle e blu. Il Chievo diventò quindi gialloblù, anche se mantenne il bianco e l’azzurro come alternativa per la seconda divisa; nei derby contro l’Hellas quindi si affrontavano due squadre con gli stessi colori sociali. In futuro, dovesse esserci un altro derby, non sarà più così, perché il nuovo, vecchio ChievoVerona ha scelto di tornare al biancazzurro.