Quand’è che gli Oscar sono diventati dei premi per i film indipendenti
È il risultato di una progressiva trasformazione che si è vista soprattutto a partire dagli anni Novanta, e ora è un problema per l'Academy
di Gabriele Niola

Una progressiva e radicale trasformazione dei premi Oscar, cominciata negli anni Ottanta e poi concretizzata soprattutto negli anni Novanta e nei Duemila, ha fatto sì che oggi sia normale che un film indipendente come Anora vinca i premi più importanti agli Oscar. Nella cerimonia di domenica Sean Baker ha ricevuto quattro premi Oscar, in quanto regista, produttore, sceneggiatore e montatore del film: era già successo in passato solo a Walt Disney nel 1954, ma per tre cortometraggi diversi e un documentario, e a Bong Joon-ho nel 2020 per Parasite.
Da cerimonia che premia i film più visti della stagione, infatti, gli Oscar sono diventati un evento che premia il cinema di nicchia, quello dei film indipendenti, cioè che non sono prodotti o distribuiti dai grandi studios come Disney, Warner, Universal, Sony/Columbia o Paramount, ma provengono da società di produzione molto più piccole, con giri d’affari minori e quindi anche meno soldi per le campagne Oscar.
Secondo i criteri con cui sono stati assegnati per gran parte della loro storia, quest’anno avrebbe dovuto vincere Wicked in molte categorie: un film fatto in grande, amato da una gran parte del pubblico americano, basato su una storia classica che appartiene alla tradizione hollywoodiana (Il mago di Oz), e al massimo si sarebbe potuto contendere diversi premi con A Complete Unknown, una biografia di un importante musicista americano (Bob Dylan), interpretata da qualcuno che ha fatto un gran lavoro per assomigliargli.
Entrambi sono film di grandi studi di produzione: Universal il primo, Disney il secondo (attraverso una delle società che possiede, la Searchlight). Invece hanno raccolto poco, mentre Anora e un altro film indipendente come The Brutalist, costato 10 milioni e gestito dalla A24, hanno preso i premi più importanti.
Il primo segno di un cambiamento in questo senso ci fu nel 1985, quando Il bacio della donna ragno e In viaggio verso Bountiful ottennero cinque nomination in due. Erano film indipendenti in un’era in cui il cinema indipendente non otteneva successo, non era conosciuto ed era considerato una cosa buona al massimo per il circuito degli appassionati. Erano entrambi film di relazioni: il primo tra due carcerati (Raul Julia e William Hurt), il secondo tra una signora anziana e una più giovane (Geraldine Page e Rebecca De Mornay) durante un viaggio. A far conoscere i film fu una delle prime campagne Oscar nel senso moderno del termine, cioè molto ben pianificata, attenta e in un certo senso aggressiva.
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Per Il bacio della donna ragno, dopo aver ricevuto un’ampia copertura stampa, il piccolo distributore si decise a fare un grande investimento per far vedere il film e portarlo in moltissimi cinema, rischiando la bancarotta ma sperando in un successo più trasversale. Non era frequente che film piccoli arrivassero in 2000 sale, come fece quello, ma era necessario, perché all’epoca altrimenti era quasi impossibile essere visti dai votanti degli Oscar.
Questi infatti potevano solo andare a vedere i film candidati al cinema, pagando, oppure se stavano a Los Angeles e New York potevano partecipare ad apposite proiezioni, la cui organizzazione comporta ancora oggi un grande costo. Per quanto sembri strano, all’epoca nessuno usava per gli Oscar questo tipo di strategia (inseguire una grandissima copertura stampa e programmare un’uscita massiccia nei cinema). Furono quel film e il suo risultato a costruire un nuovo modello di promozione.
Invece per far notare In viaggio verso Bountiful si pensò di programmarlo in un grande cinema posizionato molto vicino alla sala proiezioni dell’Academy, in modo che i votanti vedessero il titolo del film in programmazione e i cartelloni del cinema ogni volta che andavano alla sede dell’Academy per le proiezioni organizzate dagli altri. Inoltre per emergere sulla stampa (all’epoca unico metodo per farsi notare) si puntò moltissimo sul fatto che poteva essere l’ultima interpretazione della grande attrice Geraldine Page, come poi effettivamente fu.
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Alla fine Il bacio della donna ragno fu candidato ai premi per la miglior regia, il miglior attore e la miglior sceneggiatura non originale, mentre In viaggio verso Bountiful per la miglior attrice e la miglior sceneggiatura non originale. William Hurt e Geraldine Page vinsero: era la prima volta che capitava ad attori che avevano recitato in film indipendenti.

William Hurt e Geraldine Page con gli Oscar vinti nel 1986 (Bettman/GettyImages)
Fu l’inizio di un lento cambiamento che diede fiducia a molti altri distributori e produttori, tra cui Harvey Weinstein, che fin dai primi anni di vita della sua società, la Miramax, puntò molto su campagne Oscar aggressive e costose. Weinstein, che vent’anni dopo sarebbe stato accusato di stupro e molestie da molte attrici diventando il bersaglio principale del movimento MeToo, era un indipendente che, con il suo approccio strategico e spesso spietato (non disdegnava di mettere in giro voci per screditare gli avversari), ha contribuito a cambiare la percezione del cinema indipendente. Tra i molti film prodotti o distribuiti dalla Miramax ci sono alcuni dei film indipendenti più importanti di quegli anni come Pulp Fiction e Clerks, il primo dei quali fu portato da Weinstein a vincere l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
Dopo quasi un decennio di lotte, statuette vinte e film stranieri distribuiti e portati al successo, Weinstein riuscì a essere il primo indipendente a vincere l’Oscar per il miglior film con Shakespeare in Love nel 1999. Proprio quella vittoria fu il segno che tutto stava cambiando definitivamente, perché arrivò per un film che oggi non consideriamo memorabile e che anche all’epoca non era visto come il migliore della sua annata. Candidato quell’anno c’era anche un film importante di un grande studio di produzione, cioè Salvate il soldato Ryan.

Harvey Weinstein, Gwyneth Paltrow e gli altri vincitori del premio Oscar per il miglior film a Shakespeare in Love nel 1999 (Bob Riha, Jr./Getty Images)
Negli anni successivi questo fenomeno si sarebbe ripetuto parecchie volte. Sempre la Miramax di Weinstein portò alla vittoria Chicago nel 2003 e Non è un paese per vecchi nel 2008, mentre nel 2010 The Hurt Locker, un piccolo film di guerra anticonvenzionale, vinse contro il film più costoso dei suoi anni, cioè Avatar.
A un certo punto anche gli studios hanno cominciato a far competere film distribuiti da sezioni più piccole delle loro società, come la Searchlight di Disney, che quest’anno ha portato alla serata A Complete Unknown, o la Focus Features che è parte di Universal. Non era però solo una questione di buone campagne Oscar. Mentre i film indipendenti diventavano produzioni che potevano interessare a un grande pubblico, infatti, i grandi studios diventavano sempre meno interessati a quel genere di film con cui competevano agli Oscar, tipo Il silenzio degli innocenti, Forrest Gump o Voglia di tenerezza.
A partire dagli anni Duemila, gli studios hanno cominciato sempre di più a produrre film grandissimi: grandi spettacoli, grandi budget e grandi promozioni. Film quasi sempre pensati per sfruttare una proprietà intellettuale (cioè un titolo, un nome o un marchio già molto noti) provando a imitare Il Signore degli Anelli, che ottenne risultati eccezionali e anche un bel po’ di Oscar.
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Molte di queste proprietà intellettuali venivano dal mondo dei fumetti e dei supereroi, ma non solo. Dietro questa strategia c’era la crescente difficoltà del cinema di farsi notare in un ecosistema mediatico in cui i videogiochi e poi sempre di più internet erano in competizione per conquistare l’attenzione di potenziali spettatori. Il vantaggio di lavorare su una proprietà intellettuale è che spesso ha già una sua base di fan, oppure è in grado di stimolare attenzione già un anno prima dell’uscita del film, quando non c’è niente se non il titolo che, essendo noto, basta per iniziare il tipo di campagna pubblicitaria che alla lunga trasforma l’uscita di un film in un evento.
Questi film però non sono di interesse per i votanti dell’Academy, che sono un gruppo molto ampio (prima erano 5-6.000 circa, oggi sono 10.000) formato da tutti quelli che sono stati candidati a un Oscar o sono stati invitati per meriti speciali. Queste persone tendono a guardare con snobismo quel tipo di produzioni, che infatti raramente vengono candidate a un premio se non per le categorie tecniche. A quelle preferiscono le produzioni drammatiche o con un grande impegno sociale, trovandole nel cinema indipendente.
Alla cerimonia del 2016 Brooklyn (film della Searchlight), Room (della A24) e Il caso Spotlight (dell’ancor più piccola Open Road) ricevettero tutti insieme 13 nomination, con l’ultimo di questi che alla fine fu il vincitore dell’Oscar per il miglior film. Quell’anno gli studios erano in gara con Il ponte delle spie, The Revenant (entrambi della 20th Century Fox) e La grande scommessa (Universal). Finirono a vincere il maggior numero di Oscar importanti ma non quello più importante. L’anno dopo sarebbe successo lo stesso con Moonlight, un film ancora più piccolo e meno noto, che vinse l’Oscar per il miglior film battendo La La Land.
Inevitabilmente il fatto che i film di maggiore incasso dell’annata non siano più presenti alla cerimonia degli Oscar e non vengano candidati se non marginalmente ha cambiato anche il successo e la popolarità della serata. Prima era una trasmissione televisiva molto seguita, oggi molto poco. Il calo di ascolti è stato costante e direttamente proporzionale al calo di notorietà dei film in gara. Nel 2020 si toccò un apice: a vincere fu Nomadland, la produzione dall’incasso minore che abbia mai vinto il premio per il miglior film, tra quelle distribuite al cinema.
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I film da Oscar oggi passano quasi sempre per uno dei grandi festival internazionali. Anora ha vinto la Palma d’oro a Cannes e anche Emilia Pérez era in concorso a Cannes, mentre The Brutalist lo era a Venezia, Conclave è stato presentato a Toronto e A Real Pain al Sundance.
L’Academy vorrebbe rimediare ma non è facile, perché le candidature non sono pilotabili: i 10.000 votanti sono le stesse persone che, secondo criteri e con modalità diverse, decidono quali film vengono candidati in ogni categoria, e l’Academy, nonostante organizzi la premiazione e produca la serata in cui questi vengono consegnati, non ha potere.
L’unica modifica è stata fatta per la categoria miglior film: non ha più cinque nomination come le altre ma dieci, in modo che possano rientrarci anche film più popolari. Fu deciso nel 2009 dopo le molte proteste da parte di spettatori e fan per il fatto che nell’edizione appena passata film amatissimi e considerati di gran valore come Il cavaliere oscuro e WALL•E non erano stati candidati a miglior film. La decisione comunque non ha cambiato molto. Due anni fa Top Gun: Maverick fu candidato al premio per il miglior film ma non ebbe mai una vera possibilità di vincere e lo stesso è capitato quest’anno con un film di grande incasso come Dune: Parte due. La vittoria di grossi film degli studios, come quella dell’anno scorso di Oppenheimer, è considerata sempre più un’eccezione.