Alcune ipotesi sul successo del padel
«La mia teoria della tracimazione indica che i trend che debordano in provincia diventano inarrestabili. Ma perché non è tracimato il ping-pong?»

C’è un modo empirico per misurare i fenomeni economici, la loro ascesa e il loro declino. Se osservassimo una via dello shopping in fast forward, vedremmo il negozio di videocassette trasformarsi in un internet point, poi in un Money Transfer, quindi in un negozio di svapo, e infine in una vetrina fucsia di cover per smartphone. A ogni cambio di gestione corrisponde uno sgretolamento del sistema commerciale retrostante, che lascia spazio a un trend successivo.
C’è un metodo peculiare e definitivo che però è osservabile solo dalla provincia, almeno da quella padana da dove scrivo. Possiamo chiamarlo “tracimazione”. La città produce di continuo trend commerciali, normalmente nel settore dell’intrattenimento, della moda e della ristorazione. Molti sono di breve durata, magari anche di successo, ma seguiti da un rapido riflusso – per esempio, i luoghi dedicati a poke, burger gourmet o bubble tea. Alcuni trend non avvicinano nemmeno il margine della diga: la pizza gourmet, il ramen e la pasta in bianco d’autore, per esempio, sono rimaste ferme, più o meno. Altri fenomeni invece rompono gli argini – da cui la tracimazione – e cominciano a inondare la provincia. Ci hanno inondato, in ordine sparso, il sushi, le yogurterie gelato, il kebab.
Da un po’ di tempo in qua, tutti i miei radar rivolti alla sociologia umana rilevano cose di padel. I parenti che si accordano per una partita prima del panettone natalizio, le notizie locali di inaugurazioni di campi, quel capannone lato statale dismesso della zona artigianale che all’improvviso si illumina di una grande insegna con la racchetta al neon visibile a un chilometro di distanza, con un’estetica a metà tra night club e bowling.
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La tua è diventata un’ossessione, insinuano gli amici. Forse perché sono rimasto l’unico a non giocarci? Potrebbe in effetti trattarsi del famigerato effetto Baader-Meinhof (o anche illusione di frequenza), che si verifica quando qualcosa che ci interessa inizia a comparirci ovunque, perché la nostra attenzione è inevitabilmente selettiva. E se invece fosse la conferma che il padel sta diventando davvero un fenomeno infestante – e che non ce ne libereremo mai più?
La mia teoria della tracimazione indica che i trend che debordano in provincia diventano inarrestabili e tendenzialmente rimangono in auge per lungo tempo. Quanto al padel, il test empirico più semplice è vedere chi ci gioca. Se non sono solo gli inquieti iperattivi che a ogni stagione passano dal crossfit allo spinning e poi al calisthenics, ma gente come il tuo vicino di casa, tua cognata, tuo nipote, tutte tranquille persone senza grilli ginnici per la testa, allora il trend è già quasi mainstream. E per uno sport come il padel, che si gioca in quattro, l’effetto network è questione essenziale. È come per il telefono, i social network o WhatsApp: per essere soddisfacente la rete deve essere sufficientemente diffusa. Il valore non è in te, è negli altri.
Nel padel il principale ostacolo è riuscire a trovare in fretta una coppia di avversari, o anche un tris di giocatori, se non hai un compagno o una compagna fissa. Allo stato dei fatti, perfino qui, nel luogo più remoto della Pianura Padana, il padel ha superato il paradosso dell’uovo e della gallina, tipico dei trend emergenti e delle startup: perché uno sport si diffonda veramente deve essere praticato da un numero sufficiente di persone, ma finché non c’è abbastanza gente coinvolta è difficile che nuovi giocatori inizino a giocare. Attualmente pare che in Italia giochi a padel più di un milione di persone, ci siano 3.625 strutture che ospitano campi e 10.000 campi entro il 2025. Ma il dato più interessante è un altro: già nel 2023 si poteva giocare a padel in 1.544 comuni italiani, il 50% dei comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti. La provincia è stata effettivamente conquistata, partendo per una volta non dalla solita trendsetter Milano ma da Roma, dalla Sicilia, dal Piemonte.
Qualcuno dà il merito all’influencer marketing – non è mai assente nei fenomeni contemporanei – di un folto gruppo di calciatori famosi in veste di ambasciatori nonché fondatori di alcuni club primigeni. Mainstream crea mainstream: e non si bada a nomi nel padel. Nel gruppo di calciatori padelisti c’è Zambrotta, considerato il paziente zero, e poi Totti, Signori, Ibrahimović, e non manca nemmeno la solita madrina calcistica, Diletta Leotta.
La scintilla definitiva, sostengono altri, è stata il Covid. La chiusura di palestre e piscine ha reindirizzato molte persone verso uno sport in cui si poteva socializzare rimanendo a distanza maggiore del regolamentare metro e mezzo.
Tuttavia, io credo che non sia solo questo.
Nemmeno il Covid può spiegare le ragioni per cui nel 2025 il padel è ancora in crescita.
Secondo me la causa finale della conquista sta nel raggiungimento del “product market fit” tanto agognato dalle startup. Sostiene Marc Andreessen, uno dei principali venture capitalist statunitensi, che «product market fit significa essere in un buon mercato con il prodotto che può soddisfare quel mercato».
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E quindi la domanda di spazi e orari istiga l’offerta che viene soddisfatta con nuovi campi ricavati a relativo basso costo in capannoni abbandonati o vuoti. Il padel è in questo perfettamente complementare alla crisi di molti distretti industriali, e il campo di dimensioni inferiori a quello del tennis è “più produttivo” in termini di ricavi per metro quadro – e infine la tariffa oraria viene suddivisa per quattro persone, diventando più accessibile. Specularmente, l’ampia offerta di campi attrae la domanda: nel padel è spesso più facile trovare un campo libero che nel tennis (almeno per esperienza personale). Il mercato cresce, il prodotto si adatta.
Il confronto con il tennis ci aiuta a fare luce su questa storia di successo. Da mediocre giocatore di tennis quale sono, la mia prima tentazione è stata quella di irridere i parvenu del padel, citando la frase di Nicola Pietrangeli citata in ogni articolo sul padel: «Il padel è il trionfo delle pippe. Anche gli scarsi si divertono e uno che gioca male a padel si diverte molto di più di uno che gioca male a tennis». È qui il caso di introdurre il concetto di “costo sommerso”, che in economia è una spesa già sostenuta e non recuperabile, capace di influenzare decisioni future in modo irrazionale. Il bias del costo sommerso porta, cioè, a perseverare in scelte svantaggiose per non “sprecare“ l’investimento già fatto, anziché valutare razionalmente alternative migliori. Ecco, quella che io considero una svalutazione improvvisa del mio “costo sommerso” di fatica e tempo investito nel tennis, per il padelista è una rivendicazione di lotta di classe: non ho fisico, astuzia tattica, non ho la statura per il basket, non ho tempo per allenamenti massacranti, eppure posso giocare, ho il diritto di divertirmi. Chi sei tu per giudicare?
La riflessione fondamentale deve ruotare, credo, attorno al concetto di sport adatto alla contemporaneità. Fateci caso: oggi prosperano due tipi opposti di sport. Ci sono sport “ad alta barriera tecnica all’ingresso” come il tennis, appunto, ma anche il calcio (ma non il calcetto), e perfino il basket (ma non la versione tre contro tre). Sono sport che al loro apice diventano non solo professionali, ma vere e proprie fandom con milioni di persone adoranti che sostengono un modello di business elitario, in cui i campioni vincono tutto. La verità è che giocare part-time a questi sport – e oggi abbiamo così tanti interessi, distrazioni e stimoli che non può che essere così – è sempre meno divertente.
Chi è disposto a faticare in un campo da calcio che sembra infinito per toccare la palla dieci volte in trenta minuti? E poi, quanti campi da calcio potrai mai edificare? Ognuno corrisponde a quasi un ettaro di terra. Come può l’investimento essere sostenibile? Il vantaggio degli sport “ad alta barriera” è che sono fantastici da guardare. Puro intrattenimento. Vendono i diritti in TV. Attirano gli sponsor. Strapagano i giocatori. Uno su cento milioni diventa Ronaldo, gli altri no, e siccome la statistica è contro di noi, preferiamo accendere il telecomando.
Sul polo opposto ci sono gli sport “con la barriera all’ingresso a livello zero” che sono stati creati per far giocare le masse all’interno di un’economia di mercato. Il loro scopo non è quasi mai vincere, anche se i giocatori fingono che lo sia per mantenere un livello agonistico accettabile e raccontare a sé stessi che si sta praticando un vero sport. Altre caratteristiche: devono stare in poco spazio, comportare al massimo uno spostamento di qualche chilometro in auto per poter essere praticati comodamente dopo il lavoro, e l’attrezzatura deve essere accessibile per costo e complessità logistica. Ultimo requisito: non devono essere individuali, ma in team, meglio se piccoli, per ragioni organizzative, di incastro di agende e campi (la coppia è in effetti il numero perfetto).
Le logiche dei marketplace digitali hanno infiltrato lo sport: servono format facili, rapidi e condivisibili. Non importa che i neo-sport come il padel siano inguardabili da bordo campo, l’importante è che siano divertenti da giocare, perché più divertenti sono, più le persone giocano, e più giocano più il neo-sport di massa produce fatturato e indotto, contribuendo agli affitti dei capannoni e generando tutta una filiera di istruttori, academy, retreat, giornali specializzati online, influencer, produttori di racchette, palline e accessori e perfino gente che si offre per fare piani marketing per «far impennare gli iscritti al tuo centro padel».
Il punto è definire quello che intendiamo oggi per “divertente”. Il neo-sport in sé e per sé è infatti solo una parte del divertimento. Come molti prodotti di consumo, la sua funzione primaria è indiretta. Abbiamo la necessità impellente di non annoiarci e, dopo il Covid, l’interfaccia più attraente è diventata la faccia di altri esseri umani (ma solo se selezionati). Questo è il vero valore aggiunto del prodotto padel. L’attività fisica è un effetto collaterale innocuo. L’importante è che tutto accada senza soffrire psicologicamente della propria imperizia, non essere bullizzati dal duro noviziato di uno sport vero, una cosa che quasi nessuno è più disposto a sopportare.
Mi sembrava che tutto combaciasse, poi mi è venuto in mente: perché il padel e non il ping-pong? In fondo, serve ancora meno spazio, il costo è quasi zero e anche il tennistavolo si può giocare senza chimere di perfezione stilistica. Mi sono arrovellato un po’ e alla fine mi sono dato questa risposta: perché il neo-non-sport deve far credere al praticante di essere un atleta vero, sennò l’incantesimo si spezza. Lo sport deve essere certificato e il padel è a norma di legge uno sport: ci sono campionati, tornei, sta nella stessa federazione del tennis, a due gradi di separazione da Sinner. La verità è che per divertirci veramente è necessaria anche l’illusione di fare sport.
Questa nuova generazione di sport di intrattenimento danneggia tutti gli sport che stanno nel mezzo: sport sfortunati con barriere all’ingresso elevate per persone comuni e anche poco spettacolari, di cui ci si ricorda solo alle olimpiadi. Sport che, non a caso, sono stati tutti o quasi inventati in un’epoca pre-libero mercato. Oggi chi si inventerebbe la lotta greco-romana? Meglio le MMA, Mixed Martial Arts, che sono molto più spettacolari da guardare in TV, con quei salti e le giravolte. E il decathlon? Ormai è più che altro il nome di una famosa catena sportiva. Tanto vale praticare l’Hyrox, una disciplina che mette assieme pesi, salti e corsa. Almeno ci sono un sacco di gadget degli sponsor alla fine del percorso e una community in tribuna che ti incita come fossi davvero in finale alle Olimpiadi. E il lancio del martello? (E perché si chiama così, visto che non è un vero martello, che invece sarebbe divertente, credo).
La teoria mi sembrava inattaccabile, ma poi ho incontrato un’amica. «Ma tu perché giochi a padel?», le ho chiesto. «Perché mentre gioco posso parlare, e non devo urlare come nel tennis», mi ha risposto. E se il padel, invece di un ennesimo costrutto di marketing, fosse invece la nuova bocciofila, capace di cementare comunità in dissolvimento?
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