Hollywood si sta riposizionando su Trump
Studios e piattaforme, un tempo più favorevoli al Partito Democratico, stanno cercando di compiacere il presidente per evitare ritorsioni

Negli ultimi trent’anni Hollywood è stata sempre considerata generalmente vicina al Partito Democratico, e la grande maggioranza di attori e registi si è schierata contro le politiche di Donald Trump durante il suo primo mandato da presidente, tra il 2017 e il 2020. Dopo la sua rielezione, però, in molti stanno notando un riposizionamento radicale degli studi di produzione e distribuzione hollywoodiani, sia quelli tradizionali come Warner, Universal, Paramount e Disney, sia quelli attivi nel settore dello streaming come Amazon, Netflix e Apple. Le aziende del cinema statunitense hanno cominciato a dimostrare una forte volontà di collaborare con Trump, evidentemente preoccupate che possa punire i nemici politici, cosa che aveva promesso di fare in campagna elettorale.
Già a maggio, mesi prima delle elezioni, nessuno studio aveva fatto offerte per comprare The Apprentice, il film molto critico sull’inizio della carriera imprenditoriale di Donald Trump (nonostante la presenza di due attori di buon richiamo come Jeremy Strong e Sebastian Stan), una ritrosia molto inusuale. Trump aveva definito il film «diffamatorio» e aveva provato a impedirne l’uscita. Nei giorni dell’insediamento a gennaio, poi, Amazon si è avvicinata ulteriormente al presidente acquistando per una cifra fuori mercato e sulla carta (cioè quando non era stata ancora realizzata) una docuserie su Melania Trump, creata insieme alla stessa first lady. Era un progetto per il quale avevano fatto offerte anche Paramount e Disney, ma la cifra proposta da Amazon è sembrata a tutti i principali osservatori eccessivamente alta: 40 milioni di dollari per qualcosa per il quale solitamente se ne spendono circa un decimo.
I tre studios che hanno fatto offerte avevano tutti degli interessi nel compiacere il presidente. Jeff Bezos, proprietario di Amazon e del Washington Post, aveva già dimostrato di essere vicino a Trump impedendo al suo giornale di appoggiare apertamente Kamala Harris e finanziando la cerimonia di insediamento. Paramount sta diventando di proprietà di David Ellison, figlio di Larry Ellison, il quarto uomo più ricco del mondo e da sempre grande donatore per le campagne elettorali di Trump. Una persona quindi che non solo ha interesse a sostenere il presidente, ma che ha anche bisogno che la Federal Communications Commission, l’agenzia governativa che regola tv e radio, non ostacoli la finalizzazione dell’acquisizione dello studio. Disney infine ha già avuto diversi problemi con Trump, che resero più complicata l’acquisizione della 20th Century Fox durante il suo primo mandato. Ora ha già dimostrato di volerlo compiacere più che può, rinunciando alle sue politiche interne di inclusività e patteggiando una causa contro di lui che l’azienda aveva buone possibilità di vincere.
Le riprese della docuserie su Melania Trump sono state molto brevi e sono già terminate, segno che l’obiettivo della produzione non è scoprire qualche notizia nuova, ma semmai documentare e far parlare la diretta interessata in una serie di interviste. Lei e persone a lei vicine come Elon Musk, che sembra compaia nella serie. Fonti vicine alla produzione hanno lasciato intendere che si parlerà della Casa Bianca, del lavoro da first lady e della vita di Melania Trump, ma senza trattare la parte della sua vita precedente all’incontro con il marito. Inoltre, l’accesso alle zone e agli uffici del governo è stato tale da aver preoccupato il Secret Service, l’agenzia che si occupa della sicurezza del presidente e della first lady, secondo fonti di Puck.
Per girarlo peraltro è stato scelto Brett Ratner, regista americano noto per la serie Rush Hour che era stato di fatto “cancellato” ed escluso da Hollywood dopo numerose e circostanziate accuse di molestie sessuali raccontate inizialmente dal Los Angeles Times. L’ultimo film diretto da Ratner risaliva al 2015, ma ora sembra riabilitato e tornato a lavorare anche grazie ai suoi stretti rapporti con Trump e alcune persone a lui vicine.
Questo atteggiamento è opposto a quello che i grandi studios avevano tenuto dal 2016 a oggi. Negli anni del primo mandato di Trump e poi in quelli della presidenza Biden Netflix, per dirne una, aveva prodotto un film molto costoso con Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence e Meryl Streep intitolato Don’t Look Up, che prendeva in giro Trump e l’atteggiamento incompetente del suo staff. Era uscito un documentario di Michael Moore, Fahrenheit 11/9, riguardo alle conseguenze dell’elezione di Trump, e anche in film più commerciali come La notte del giudizio: Election Year o Civil War comparivano politici autoritari e deprecabili dalle evidenti somiglianze con Donald Trump. Erano state create serie TV che raccontavano scenari dittatoriali (Il complotto contro l’America, The Handmaid’s Tale) o con personaggi dalla mentalità trumpiana (Mrs. America), o che parlavano di cosa accade quando qualcuno stimola la parte intollerante della popolazione con la propaganda (The Boys). Questo generale atteggiamento di opposizione non sembra caratterizzare il secondo mandato.
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The Hollywood Reporter, in un articolo molto esplicito, ha confrontato le poche personalità statunitensi dello spettacolo che dopo l’elezione hanno commentato negativamente la vittoria di Trump (Mark Hamill e Billie Eilish) con le molte che invece otto anni fa si erano espresse con grande visibilità. Le più note erano state Jennifer Lawrence, che aveva invitato le persone a non farsi abbattere dalla vittoria di Trump ma a far sì che questo le infervorasse, Robert De Niro, che lo aveva definito «un vero razzista», e il regista Barry Jenkins che aveva commentato duramente le politiche di immigrazione trumpiane. Secondo l’Hollywood Reporter, «di colpo criticare il presidente era diventato accettabile e di moda. Ma quello che era sembrato come un cambio di rotta potrebbe essere stato solo un bagliore».
È opinione comune che dietro questo cambio di atteggiamento degli studios nei confronti di Trump ci sia la volontà dei grandi gruppi che li possiedono. Universal fa parte della società di telecomunicazioni Comcast; Warner è parte del gruppo Discovery; Columbia è di proprietà di Sony; Paramount ora è della stessa famiglia che possiede la società di software Oracle. Come successo per le grandi aziende tecnologiche statunitensi, che si sono riavvicinate a Trump subito dopo la sua elezione, anche quelle delle comunicazioni e dei mass media temono ritorsioni in caso di un atteggiamento troppo critico nei confronti del presidente.