Per ora le case di comunità non stanno risolvendo i problemi della medicina territoriale
In molti dei poliambulatori creati dopo la pandemia manca personale, e non si sa bene nemmeno quanti siano attivi

Delle case di comunità già attive si parla spesso come di “scatole vuote”, prive di personale e poco conosciute in generale. Sono i poliambulatori pubblici pensati per rafforzare la medicina territoriale dopo la pandemia, per i quali sono stati stanziati due miliardi di euro del PNRR, il piano di riforme e progetti finanziato con fondi europei. In tutta Italia dovrebbero aprire, stando alle ultime informazioni confermate dal ministero della Salute, 1.416 case di comunità entro giugno del 2026.
Di frequente i giornali locali scrivono dell’inaugurazione di nuove case di comunità, che spesso in realtà sono semplici ristrutturazioni di spazi già esistenti. Tuttavia non è facile capire se quelle già operative stanno funzionando come dovrebbero: i report di monitoraggio a livello nazionale più aggiornati non sono disponibili, in molte regioni non c’è abbastanza personale per garantire le prestazioni previste, e in generale ci sono grosse differenze nel servizio tra le regioni che in passato avevano già sperimentato modelli di assistenza sanitaria territoriale simili e tutte le altre.
L’esigenza di rafforzare la sanità a livello territoriale, cioè la rete formata da medici di medicina generale, guardie mediche, ambulatori locali e RSA, era emersa durante la pandemia, quando fu evidente che a lungo era stata trascurata praticamente dappertutto. Le lacune di questa rete furono infatti una delle cause della risposta inadeguata alla prima ondata dei contagi da coronavirus: senza un riferimento intermedio tra i medici di medicina generale e gli ospedali, moltissime persone malate si erano rivolte al 118 e gli ospedali avevano avuto enormi difficoltà nell’assistenza di migliaia di pazienti, sia quelli malati di COVID-19 che tutti gli altri (i medici di medicina generale sono quelli che vengono anche chiamati medici di famiglia o di base).
Una delle gravi conseguenze di questa situazione fu che molte persone con malattie croniche non potevano essere seguite in modo adeguato e molte prestazioni essenziali vennero ritardate o bloccate, come gli screening, perché moltissimi medici e infermieri erano stati spostati nei reparti COVID-19. Queste difficoltà sono state riconosciute pochi giorni fa anche dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, che ha definito l’assistenza territoriale l’aspetto «forse più vulnerabile durante la pandemia».
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Per questa ragione circa la metà dei fondi (7 miliardi di euro su 15,6 miliardi totali) della missione sulla salute del PNRR è stata dedicata al rafforzamento della sanità territoriale. Al centro di questi investimenti ci sono proprio le case della comunità, strutture di prossimità che nelle intenzioni dovrebbero essere il luogo dove le persone possono andare per un’assistenza medica immediata e per accedere a diversi servizi di diagnostica e prevenzione senza rivolgersi al pronto soccorso. Nella pratica sono ambulatori piuttosto grandi in cui lavorano équipe multidisciplinari in grado di seguire anche i malati cronici: oltre a medici di medicina generale, infermieri e pediatri di libera scelta, è previsto che ci siano specialisti, psicologi e assistenti sociali. L’obiettivo dichiarato è infatti quello di avere una maggiore collaborazione tra l’assistenza sociale e quella sanitaria.
Nelle case di comunità si dovrebbero trovare anche i centri unici di prenotazione di visite e ricoveri (i Cup) e i servizi per l’attivazione delle cure a casa e della telemedicina, nonché – anche se sono facoltativi – i vaccini e i programmi di screening.
In base al decreto ministeriale 77 del 2022, che ne disciplina i criteri, le case di comunità si distinguono in due tipologie: “hub”, cioè quelle che erogano servizi di assistenza primaria, attività specialistiche e di diagnostica di base; e “spoke”, quelle che offrono soltanto servizi di assistenza primaria. Le due tipologie si differenziano anche per le ore in cui deve essere garantita la presenza di medici e infermieri: 24 ore su 24 per la prima e almeno 12 ore per la seconda, tutti i giorni. I piani prevedono che a regime ci sia una casa di comunità della tipologia “hub” ogni 40mila-50mila abitanti.

Uno studio di un medico dentro la casa di comunità di via Rugabella a Milano, luglio 2022 (LaPresse)
In Lombardia la prima casa di comunità era stata inaugurata alla fine di dicembre del 2021, a Milano. Negli anni hanno aperto molte altre case di comunità in tutta Italia (anche se i lavori sono ancora molto indietro, come dimostra un’analisi recente degli ultimi dati disponibili del PNRR realizzata dalla CGIL). Ogni sei mesi l’AGENAS, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, elabora un rapporto che monitora lo stato dei lavori e l’effettivo funzionamento delle case di comunità già attive, e lo consegna al ministero della Salute. L’ultimo reso pubblico, però, è del 2023.
Lo scorso settembre il Sole 24 Ore aveva pubblicato i dati relativi al primo semestre del 2024, che era riuscito a ottenere da sue fonti. Secondo quei dati, ormai però superati, a giugno del 2024 risultavano attive 413 case di comunità in 11 regioni. Il problema maggiore allora era il numero basso dei medici: in 120 case di comunità non c’erano medici, in 137 mancavano i pediatri. Solo in 175 case di comunità la presenza dei medici era prevista tra le 50 e le 60 ore a settimana.
L’AGENAS fa sapere che è in corso l’elaborazione del report sul secondo semestre del 2024, e il ministero della Salute dice di non escludere che questa volta possa essere messo a disposizione di tutti.
La carenza dei medici nelle case di comunità emerge anche in un riepilogo presentato di recente in consiglio regionale in Lombardia, e che il Post ha letto. A fine dicembre risultavano attive 130 case di comunità, di cui 13 provvisorie, su circa 190 previste. Di queste solo 38 rispettano il requisito dell’apertura 24 ore su 24 per sette giorni, mentre in 109 c’è un’équipe multidisciplinare. Solo nel 28 per cento dei casi c’è un medico 24 ore su 24 e solo nel 16 per cento delle strutture è garantita la presenza di un infermiere per 12 ore al giorno.
Con l’eccezione dei servizi dedicati alla salute mentale, presenti in meno della metà delle 130 case di comunità attive (e che però non sono obbligatori ma solo raccomandati), gli altri servizi risultano attivi nella maggior parte delle strutture (le percentuali sono sopra il 70 per cento). Sono solo sette però finora le case di comunità in cui i servizi rispettano tutti i requisiti necessari.

La casa di comunità Doria Ricordi a Milano, 21 agosto 2023 (Alessandro Bremec/LaPresse)
Sempre sulla Lombardia, a novembre anche la Corte dei conti – l’organo che vigila sulle spese pubbliche – aveva evidenziato criticità simili. Nella relazione veniva sottolineata in particolare la difficoltà a trovare medici di medicina generale e pediatri disponibili a lavorare nelle case di comunità, un problema ricordato dallo stesso presidente regionale Attilio Fontana pochi giorni fa. Nel testo tra le altre cose si osserva che c’è una forte disomogeneità negli ingressi settimanali delle singole case di comunità: in alcune risultano del tutto assenti, in altre sono più di 5.600.
Fiorenzo Corti, medico di base e vicesegretario della FIMMG a Milano (Federazione italiana medici medicina generale), dice che oggi i medici di medicina generale nelle case di comunità «si contano sulle dita di una mano» (è un’iperbole, ma dà l’idea di quanto pochi siano sui circa 3.800 attivi in tutta la regione). Dice che i medici di medicina generale non si oppongono al lavoro nelle strutture in sé, ma non è ancora abbastanza chiaro cosa debbano fare, cioè come debbano essere suddivise le attività tra gli ambulatori esterni e le case di comunità. Secondo Corti, chi sta già nelle case di comunità oggi lavora infatti essenzialmente come in qualsiasi altro ambulatorio esterno: «I medici hanno lì il loro studio invece che altrove. Non c’è ancora la logica multidisciplinare nella presa in carico del paziente». Inoltre, sostiene Corti, per ora la telemedicina è perlopiù assente dalle case di comunità e gli unici posti in cui la si usa già per l’assistenza domiciliare sono le farmacie.
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Ci sono poi delle differenze tra le diverse regioni che sono date dalla situazione di partenza di ciascuna. In alcune infatti esisteva da anni un modello di assistenza territoriale che ha molte somiglianze con quella che il governo intende realizzare con il PNRR in modo omogeneo in tutta Italia. In altre invece è tutto da costruire. In Emilia-Romagna, Toscana e Piemonte, per esempio, ci sono le “case delle salute”, cioè presidi dove si offrono già vari servizi di assistenza sanitaria primaria e per la gestione delle patologie croniche. Più di un quarto delle circa 500 case della salute aperte in tutta Italia è in Emilia-Romagna, dove l’idea è infatti integrare i servizi e il modello organizzativo in modo tale da renderle case di comunità, in aggiunta a quelle che saranno costruite con i soldi del PNRR.
Per Giulia Grossi, medica di medicina generale nella casa di comunità di Coriano, in provincia di Rimini, quello delle case della salute è un modello che funziona. A Coriano, racconta, oltre a lei lavorano nella struttura altri 4 medici di medicina generale (tutti liberi professionisti in convenzione con il Servizio sanitario nazionale), un pediatra, infermieri aziendali per l’assistenza domiciliare, i prelievi e la gestione dei pazienti cronici. I vari specialisti, come il cardiologo o lo pneumologo, si alternano durante la settimana. «Funziona perché l’assistenza sanitaria territoriale qui è molto capillare, non si limita alle case di comunità. Noi facciamo ore anche in ambulatori fuori per garantire un appoggio più vicino ai residenti più anziani e fragili», dice.
In Toscana la situazione è simile, racconta Niccolò Biancalani, medico di medicina generale a Prato e segretario regionale della FIMMG. Lì le case della salute esistono da più di dieci anni, sono un’ottantina e ci lavorano oltre 500 medici di medicina generale su circa 2.500 totali nella regione. Biancalani dice che di fatto le case della salute possono essere considerate antesignane delle case di comunità, perché all’interno lavorano già medici di medicina generale (in settimana fino alle 19), infermieri e specialisti che si prendono cura anche dei pazienti cronici con piani di assistenza individuale. In molte strutture vengono già effettuati esami di diagnostica di primo livello, come ecografie ed elettrocardiogrammi.
In Piemonte invece i medici di medicina generale stanno molto insistendo per far sì che vengano attuate alcune forme di assistenza sanitaria territoriale che in teoria sono già previste, ma per cui mancano gli accordi regionali. Roberto Venesia, medico a Torino e segretario regionale della FIMMG, spiega che per consolidare l’organizzazione che avranno le case di comunità a pieno regime sarebbe già utile rendere del tutto operative le aggregazioni funzionali territoriali (AFT): sono reti che con circa 20 medici di base per 20mila pazienti assicurano un’assistenza dalle 8 alle 20 tutti i giorni. In alcune province della Calabria, come quella di Cosenza, le AFT sono già attive e secondo Rosalbino Cerra, medico di base, potrebbero facilmente collocare la propria sede all’interno delle future case di comunità calabresi. Al momento però, dice sempre Cerra, è aperta solo quella di Palmi. I lavori per le altre sono ancora molto indietro.
Da diversi mesi, inoltre, sia la Toscana che l’Emilia-Romagna hanno iniziato a sperimentare all’interno delle case della salute anche dei presidi di pronto intervento per gestire i casi più lievi, come piccole ferite, sintomi influenzali e disturbi ginecologici. Il presidente della SIMEU (Società Italiana di Medicina d’Emergenza-Urgenza) Alessandro Riccardi ha però detto che occorre chiarire velocemente cosa possono fare le case di comunità su questo tipo di casi per evitare che le persone non sappiano più qual è il luogo giusto dove andare in caso di un’emergenza.
Questa incertezza era stata evidenziata anche nell’ultimo Rapporto civico sulla salute della onlus Cittadinanzattiva, pubblicato a ottobre, secondo cui le persone lamentavano la difficoltà di trovare informazioni sui servizi offerti e sulle modalità d’accesso alle case di comunità. Diversi intervistati hanno inoltre contestato il fatto che le strutture operative non lo sono ancora a pieno regime, se ci sono, e che in molti posti non ci sono affatto.