Il mare si mangia le isole San Blas

«Qualche giorno dopo, in una baietta silenziosa avvistammo un coccodrillo, uno degli animali che per i kuna hanno influssi pericolosi. Gli altri sono lo squalo e la manta, la cui maledizione sarebbe la causa della scomparsa di Coco Bandero, la mia isola preferita a San Blas»

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La prima volta che sono capitata alle isole San Blas avevo solo una vaga idea di chi fossero i kuna, la popolazione che abita queste “terre d’acqua” da almeno due secoli e che lo scorso 21 febbraio ha festeggiato i 100 anni della “Revolución Tule”, la “Rivoluzione indigena”, durante la quale gli indios si ribellarono al governo di Panama ottenendo una sorta di autonomia. Tutto quello che sapevo di loro lo avevo letto nelle note striminzite della Lonely Planet Panama.

Ricordo bene quando a Cayos Holandéses, uno dei gruppetti di isole più belli di quest’arcipelago che comprende circa 365 isolette, 40 delle quali abitate, minacciate dall’innalzamento dei mari dovuto al cambiamento climatico, un ragazzo accostò la sua lunga piroga alla nostra barca e chiese di salire a bordo. Nonostante il caldo tropicale, tremava come una foglia e domandò gentilmente qualcosa di caldo da bere e una coperta. La piccola canoa affusolata e traboccante di aragoste che vendeva a 1 dollaro l’una (era il 2002) faceva intuire ore e ore a pescare sott’acqua, senza muta e senza attrezzatura. Rimasi incantata ad ascoltarlo e a guardare la sua imbarcazione così elegante che – poi ho scoperto – si chiama ulus.

Le ulus sono intagliate da un singolo tronco, alcune hanno anche le vele, o meglio vecchie lenzuola, bandiere cucite insieme, brandelli di dacron lasciati da qualche occidentale. I kuna – o guna, come sarebbe meglio scrivere perché nella loro lingua non esiste il suono “ch” – conoscono bene l’arte del riciclo e hanno forme di ecologia grazie alle quali sono riusciti a preservare il mare e le isole coralline molto meglio di quanto hanno fatto gli abitanti di altri luoghi simili. La maggior parte dei kuna vive nella comarca (“riserva”) più grande, il Guna Yala che corrisponde al territorio dell’arcipelago di San Blas, mentre il resto è sparso in alcuni piccoli villaggi della Colombia o piccole comunità alla città di Panama e a Colón. Per loro la terra è un luogo da rispettare. In lingua chibcha mare si dice muu che significa anche “nonna”, e le nonne qui sono molto rispettate. All’epoca mi avevano colpito i pozzi di acqua dissalata naturalmente. Al centro degli isolotti di sabbia vedevo buche profonde in cui, incredibilmente, si raccoglieva acqua dolce perché filtrata dalla sabbia. Con questa acqua, ovviamente non potabile, si possono lavare i vestiti e i piatti, cosa che molti turisti come noi privi di dissalatore a bordo usavano fare.

Non tutto era paradisiaco. Il buco nero più evidente è ancora oggi la gestione dei rifiuti che sostanzialmente non esiste e che negli ultimi decenni, per colpa del cambiamento climatico e dell’aumento di prodotti di consumo non biodegradabili, è diventato enorme. Fino a qualche decennio fa le popolazioni indigene di Panama, che rappresentano il 10% dell’intera nazione, producevano pochissimi rifiuti dato che per secoli e secoli avevano vissuto di pesca, banane, manioca e noci di cocco, mentre oggi utilizzano anche plastica e lattine, che purtroppo buttano in mare o bruciano.

Sono tornata tre volte nell’arcipelago di San Blas, sempre per lunghi periodi e sempre a bordo di una barca a vela, e ogni volta arrivarci è stato indimenticabile. Ci sono vari modi per raggiungere il Guna Yala, uno dei migliori è via mare. L’altro è via terra, dalla capitale di Panama, in un viaggio in jeep di circa tre ore attraverso la selva e poi con una lancia che ti porta a destinazione. Un tempo, quando ancora questa strada non era stata asfaltata, c’erano dei voli interni dalla capitale, con aerei a nove posti che per mia fortuna non ho mai preso. Per arrivare a San Blas, invece, il modo in assoluto migliore è dopo aver attraversato il canale di Panama, cosa che in quel lontano 2002 ho avuto l’immensa fortuna di fare su una barca chiamata Elmo’s Fire, assieme a un equipaggio composto da adulti e bambini.

All’epoca non mi resi conto della portata leggendaria di quel tratto di mare, che Donald Trump minaccia di voler riannettere agli Stati Uniti. Il passaggio ci era costato 500 dollari. Avevamo ammirato il complesso sistema delle chiuse, capolavoro di ingegneria realizzato nei primi anni del Novecento, con un ingegnere panamense che era salito a bordo per aiutare nelle manovre e controllare che tutto fosse fatto a regola d’arte. I bambini erano entusiasti e tutti avevamo fatto la doccia con l’acqua dolce del canale. L’ultima volta, nel 2015, arrivai a San Blas dalla Repubblica Dominicana, dopo una settimana di traversata in cui avevo dato il mio quasi inesistente contributo alla navigazione timonando nel turno di mezzogiorno e in quello delle sei del mattino. La settima mattina ero stata ripagata dalla fatica svegliandomi con il sole già alto di Cayo Limón.

Qualche giorno dopo, soli in una baietta molto silenziosa, avvistammo un coccodrillo che prendeva il sole tranquillo sulla riva sotto il cielo color grigio perla. Tutto attorno: sabbia immacolata, tronchi di palme che assomigliano a sculture, un dito d’acqua limpida e stelle marine in trasparenza. Il coccodrillo ci vide, noi che stavamo per tuffarci in mare, e placidamente ritornò da dove era venuto. Mia figlia Mila, che allora aveva cinque anni e stava leggendo Peter Pan, chiese: «Mamma, mamma questa è l’isola-che-non-c’è?».

Per i kuna le credenze sciamaniche sono una cosa seria e il coccodrillo è un animale che ha influssi pericolosi o miracolosi, a seconda dei casi. Tanti antropologi ed etnografi a partire da Claude Lévi-Strauss, ma anche Carlo Severi e Massimo Squillacciotti in Italia hanno studiato questa popolazione le cui origini sono tuttora dibattute. Nel libro Kuna Yala, tierra de mar. Ecología y territorio indígena en Panamá di Mònica Martínez Mauri ho letto che a San Blas quando è in arrivo un bambino si dice che lo porta il delfino. Se una cagna o una gatta sono incinte, si fa credere ai bambini che i cuccioli sono cetrioli di mare e che presto usciranno dall’acqua per vivere con gli umani. Ma anche molti malanni derivano dagli animali. In particolare, sono da temere, appunto, il coccodrillo, lo squalo e la manta, che per i kuna è la causa della scomparsa di Coco Bandero, il mio posto preferito a San Blas.

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Coco Bandero era un’isola non più grande di un campo da calcio, abitata da una sola famiglia comandata da Rosalinda, un’anziana signora india dallo sguardo al contempo minaccioso e accogliente. Come tutte le donne sposate, Rosalinda indossava abiti vistosi, un corpetto di stoffe colorate, braccialetti (wini) alle caviglie e un fazzoletto rosso e giallo in testa. Sulla riva più esposta di Coco Bandero c’erano montagnole di coralli dal colore rosa pallido. Scrivo «c’erano» perché l’isola, che negli ultimi tempi si era visibilmente rimpicciolita, oggi non esiste più proprio a causa, sostengono i kuna, della maledizione della manta.

Raccontano che Rosalinda, abile comunicatrice, fluente sia in spagnolo che in inglese, avesse aperto l’isola al turismo dei mochileros, ovvero gruppi di ragazzi e ragazze con lo zaino in spalla, in arrivo dalla terraferma in cerca di avventura, e cominciato ad arricchirsi troppo. Per far spazio ai turisti, lei e la sua famiglia avevano sradicato palme e barriere di coralli, scatenando la rabbia e l’invidia di alcuni kuna che, per punirla, avevano seppellito una manta sotto la sabbia di Coco Bandero. Oggi Rosalinda non c’è più, ha lasciato questo mondo, scomparsa insieme alla sua isola, ma nei miei ricordi si è fusa insieme al paesaggio: l’idea che quest’isola, a causa dell’innalzamento del livello del mare e dell’azione dell’uomo, sia stata risucchiata dall’oceano, è così doloroso che preferisco pensare che sia davvero stata colpa della manta.

In un suo studio molto famoso su un parto difficile, Lévi-Strauss aveva parlato dell’“efficacia simbolica” della cultura kuna: il loro non è solo un rapporto strettissimo con la natura, né tanto meno un pensiero semplice, ma un immaginario complesso e articolato, fondato sul simbolismo che ancora oggi sopravvive sulle “molas”, i preziosi quadrotti di cotone colorato e ricamato con la tecnica della sovrapposizione che campeggiano sui corpetti degli abiti femminili. Si tratta per lo più disegni geometrici ma anche animali: scimmie, pappagalli, uccelli tropicali, tartarughe, ovviamente pesci di ogni sorta (ma ne ho viste anche con Topolino). “Mola” significa semplicemente “abito” e mentre noi turisti le mettiamo in cornice o le trasformiamo in cuscini, per i kuna sono un modo di raccontare la storia del popolo, le sue tradizioni e le sue leggende.

Coco Bandero non è l’unica isola ad avere avuto un triste destino. Il 29 maggio del 2024 è stato ufficialmente effettuato, con una decina di anni di ritardo rispetto alle previsioni, il trasferimento dei primi kuna dall’isola di Gardi Sugdub (“Isola del granchio”) verso la terraferma, nel nuovo insediamento di Isber Yala o Nueva Cartì, a 15 minuti di barca. La notizia che un’isola, abitata da 1.300 persone e grande come cinque campi da calcio, verrà a poco a poco svuotata per via del cambiamento climatico ha fatto il giro del mondo. L’agenzia Reuters ha scritto: «Se gli isolani abbandoneranno le loro case come previsto, l’esodo sarà uno dei primi attribuiti all’innalzamento del livello dei mari e al riscaldamento globale».

In una conferenza stampa tenuta prima dell’abbandono, il “sahila” (capo) della comunità indigena, Josè Deivis, ha parlato di “giorno di festa” e ringraziato le autorità. Gli abitanti di Gardi Sugdub andranno a vivere sulla terraferma in un’urbanizzazione conosciuta come la “barriada”, un villaggio di casette tutte uguali, di circa 40 metri quadrati l’una, in mezzo al nulla. Non ci sono mai stata, ma al primo impatto, dalle foto, sembra un posto terrificante. Sono già 300 le persone che hanno scelto di lasciare Gardi ed è difficile capire con che spirito abbiano scelto di partire, perché non erano obbligati ad andarsene. Anche se arrivarono sull’isola due secoli fa scappando dalla selva colombiana per evitare i maltrattamenti dei conquistadores, i kuna vivono a contatto strettissimo con l’oceano e pescano a mani nude, ma forse erano contenti di non vivere più ammassati in un villaggio che si allagava con sempre maggior frequenza per le piogge torrenziali, ricoprendosi di un mix mefitico di fango e plastica ed escrementi, ma anche su un’isola che diventava sempre più piccola dove c’era sempre meno spazio vitale e la scuola era chiusa.

Ripenso ai ragazzi cresciuti sull’acqua, costretti a lasciare le isole per andare a vivere in casette anonime. Come Luis, un amico di nostra figlia, che era alto come lei a 5 anni anche se di anni ne aveva 10, perché i kuna sono molto bassi di statura. Veniva a trovarci da solo con la sua piroga come fosse una bicicletta e noi ripagavamo ogni visita offrendogli dei biscotti americani alle gocce di cioccolato che lui adorava. Un giorno lo andammo a trovare al villaggio, e lui era orgoglioso di mostrarci dove abitava anche se i villaggi kuna, che all’epoca erano molto più vivibili e meno sovraffollati di ora, non erano proprio un paradiso terrestre.

Secondo lo Smithsonian Tropical Research Institute, che ha sede proprio a Panama, «quasi tutte le isole saranno abbandonate entro la fine di questo secolo» e alcune isole già si allagano ogni mese durante l’alta marea. Anche stando alle previsioni più ottimistiche dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), secondo i dati del ministero dell’Ambiente di Panama, entro il 2050 questo tratto di Mar dei Caraibi crescerà di 0,27 metri. Ma se i media dell’intero pianeta hanno pubblicato servizi dai toni tragicamente altisonanti (“Rising seas force Panama Indigenous families to leave island homes”), i kuna la raccontano un po’ diversamente. La narrativa ufficiale sul trasferimento della comunità di Gardi Sugdub si è concentrata sul cambiamento climatico e sull’innalzamento del livello del mare, ma per gli abitanti il vero problema sono la sovrappopolazione e la mancanza di interventi da parte del governo.

In un articolo uscito su Tv Indígena nel giugno 2024 si legge: «Il governo panamense ha utilizzato l’argomento del cambiamento climatico per giustificare l’esodo, approfittando dell’attenzione globale su questo tema. Tuttavia, leader ed esperti della comunità hanno sottolineato che la vera ragione dietro il trasferimento è la mancanza di spazio e le condizioni di vita insostenibili sull’isola». Un leader della comunità ha commentato così: «Non è che non ci preoccupiamo del cambiamento climatico, ma lo interpretiamo da altre prospettive. La nostra connessione con la natura è molto diversa».

Sebbene la “barriada” sia stata dichiaratamente progettata per preservare alcune tradizioni culturali dei kuna, c’è chi critica l’adeguatezza culturale delle nuove case, che hanno uno schema urbano convenzionale. Anche l’approvvigionamento di acqua potabile e la gestione delle acque reflue sono già questioni critiche. Secondo alcune opinioni che ho raccolto, il governo di Panama, che è molto corrotto, starebbe usando con i kuna la stessa tecnica sperimentata dagli USA con i nativi americani: si tenta di relegarli in un territorio più limitato dandogli sussidi che magari spendono in birre, in modo da svuotare il paradiso corallino di San Blas dei suoi abitanti e sfruttarlo a livello turistico. Si tenta di fare, cioè, quello che gli indios hanno sempre cercato di non fare: aprirlo al turismo di massa.

Per un’amica, che ha fatto per lunghi periodi la comandante di una barca a vela da queste parti, il Congresso Generale dei Kuna, l’organo che amministra la riserva, è lo specchio della corruzione del governo di Panama: «Invece di risolvere i problemi delle isole, prendono i soldi delle sovvenzioni per comprare lance e automobili. Il risultato è che i ragazzi non hanno più la scuola e per andarci devono pagare una tassa ogni giorno e prendere prima la lancia e poi una navetta. Ovvio che il trasferimento diventi la cosa più facile».

Continua la comandante: «È vero che i kuna generalmente faticano a credere al cambiamento climatico, ma conoscono bene i fenomeni meteo estremi che lo scorso autunno hanno creato molti incidenti. Tanti pescatori sono stati ritrovati alla deriva, uno addirittura in Colombia… Qui le cose sono cambiate troppo in fretta. L’accelerazione delle comunicazioni, che ha cambiato la vita a noi occidentali, sui kuna ha avuto un effetto ancora più sconvolgente. Mi ricordo la mia prima volta nell’arcipelago, quando non funzionavano i cellulari. Seguii dei bambini che mi volevano mostrare qualcosa e urlavano “Foto! Foto!”. In realtà avevano trovato dei frammenti di specchio di una barca andata a scogli: quindici anni fa era arrivato prima il concetto di fotografia dello specchio».

Non penso che tornerò mai a San Blas, o forse sì, ma tornare a volte è un errore, un po’ come rileggere un libro amato e non ritrovare nulla di quello che ti aveva entusiasmato. Di solito però sei tu a essere cambiata, non il libro. Di certo l’iperturismo, magari per “colpa” di qualche influencer pieno di follower, arriverà anche in questo arcipelago incantato, se non è già arrivato. Forse è vero che noi “occidentali moderni”, come ha scritto forse troppo cinicamente lo scrittore Lawrence Osborne, «ci trasciniamo intorno al globo con paradossalmente meno interesse per le culture di tanti ufficiali coloniali di centocinquant’anni fa». Il paradosso del viaggiare è proprio questo e i kuna lo sanno bene: da un lato il turismo distrugge, dall’altro aprirsi alle altre culture è una ricchezza inestimabile. E dunque ogni volta che saprò di un’isola che sparisce mangiata dall’oceano e dal mare che sale, penserò alla leggenda della manta seppellita nella sabbia: in fondo questa storia ha molto di vero, dice che l’emergenza climatica è anche una punizione per lo sfruttamento sconsiderato della terra e del mare.

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Valentina Pigmei
Valentina Pigmei

Giornalista e consulente editoriale, ha lavorato come editor per alcune case editrici. Ha scritto per le pagine culturali di numerose testate italiane. Collabora tra gli altri con Internazionale, Lucy - Sulla cultura, Cartography e Sirene. Vive in Umbria, a Gubbio, dove ha fondato l’associazione La Città delle Donne.

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