La pandemia ha cambiato le nostre abitudini?

Dopo 5 anni possiamo dire che l'ha fatto meno di quanto avevamo ipotizzato, ma ha lasciato comunque qualcosa

(AP Photo/Ashley Landis)
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Nella primavera del 2020, dopo settimane di lockdown, restrizioni e cautele dovute alla pandemia da coronavirus, il celebre virologo statunitense Anthony Fauci ipotizzò che il gesto di stringersi la mano per salutarsi sarebbe diventato «una cosa del passato». In quei mesi altri esperti, giornali e commentatori cominciarono a chiedersi quali abitudini e comportamenti quotidiani la pandemia avrebbe cambiato per sempre, e anche il Post ne elencò alcuni in un articolo intitolato 14 cose che forse non faremo più.

Allora sembrava difficile immaginare che saremmo tornati a salutarci baciandoci sulle guance, a stringerci gli uni agli altri in ascensore o in metropolitana, o soffiare le candeline su una torta che avrebbero mangiato tutti. Allo stesso tempo sembrava che alcune piccole accortezze acquisite per ridurre il rischio di contagi – da coronavirus, ma più in generale dalle malattie virali – si sarebbero mantenute. Non è facile fare un bilancio preciso, ma dopo cinque anni si può dire che la gran parte dei nostri comportamenti è tornata quella di prima, anche se ci sono effettivamente alcune abitudini, poche, che sono rimaste.

La cosa più importante a essere cambiata per sempre nelle vite di molti è probabilmente l’abitudine al lavoro da remoto e alle videochiamate. Negli anni lo smartworking è stato regolamentato in modi molto diversi nelle varie aziende, ma le riunioni in videochiamata si sono diffuse in maniera trasversale negli uffici e non solo. Moltissime conferenze, eventi e corsi che un tempo sarebbero stati organizzati solo per i presenti oggi prevedono anche la partecipazione da remoto. Nel 2021, quando il lockdown era finito da un pezzo, si cominciò addirittura a parlare di “affaticamento da Zoom”, l’applicazione che in quel periodo era diventata la più usata per le videochiamate, per gli effetti stressanti legati al fatto di doversi confrontare costantemente con la propria immagine e alla difficoltà di cogliere i segnali non verbali degli interlocutori.

Il menù digitale via qr code nei bar e nei ristoranti è un’altra pratica che si è molto diffusa durante la pandemia e che è decisamente rimasta, perché funziona bene e non è dispendiosa da mantenere. Introdotto per evitare di passarsi di mano i menù di carta in un periodo in cui sopravvalutavamo la resistenza del coronavirus sulle superfici, si è rivelato in effetti molto più comodo per i ristoratori, che possono evitare di stamparli, e aggiornarli facilmente ogni volta che vogliono.

Il qr code nei ristoranti si è diffuso e affermato al punto che tra esperti è nato un dibattito più o meno serio sulla necessità di tornare invece ai menù di carta, indubbiamente più eleganti. Tra gli argomenti a favore c’è che il qr code metterebbe in difficoltà le persone poco pratiche con lo smartphone o i turisti, che non sempre hanno la connessione a internet, e in generale che l’uso del telefono a tavola rovinerebbe l’atmosfera e la convivialità. Poche settimane fa sul Post il giornalista Antonio Stella criticava il qr code nei ristoranti definendolo «un motivo in più per smanettare con lo smartphone». Per quanto diffusi non si può dire comunque che i qr code abbiano sostituito definitivamente i menù, che continuano a esistere soprattutto nei ristoranti più raffinati.

Un’altra abitudine che non è sparita, o almeno non ancora, è l’uso quotidiano di gel igienizzanti per pulirsi le mani. Per quanto riguarda i dispenser di gel che ancora si trovano all’ingresso di certi negozi, in certi uffici e in certe scuole, la ragione – più che un vero cambiamento culturale – potrebbe essere che si stanno ancora smaltendo le molte scorte fatte durante i mesi della pandemia. Allo stesso tempo però le confezioni portatili di gel igienizzante continuano a vedersi: molte persone ne hanno ormai sempre una nello zaino o nella borsa, nel caso in cui dopo aver toccato qualcosa di potenzialmente sporco non abbiano un bagno o del sapone a disposizione.

Un gruppo di turisti con e senza mascherine, in galleria Vittorio Emanuele II a Milano, 8 novembre 2021 (ANS/DANIEL DAL ZENNARO)

Una cosa che è cambiata meno di quanto ci si aspettasse è il nostro rapporto con le mascherine. Prima della pandemia nei paesi occidentali era molto strano vedere persone andare sui mezzi pubblici, in ufficio o per strada con una mascherina in faccia. Era un’abitudine che molti riconducevano ai paesi asiatici, dove già prima della pandemia era invece consuetudine usarla per proteggere le altre persone dai propri malanni. In Giappone, per esempio, si cominciò a farlo ai tempi dell’influenza spagnola del 1918 e durante una seconda epidemia di influenza nel 1934, mentre in Cina e Corea del Sud in tempi più recenti con la SARS e la MERS, rispettivamente tra il 2002 e il 2003 e nel 2015.

Oggi anche in Italia e nei paesi europei non è più così strano vedere persone che la indossano, sui mezzi pubblici, negli uffici e in altri posti chiusi e affollati. Ma non è certamente diventata una consuetudine quando si ha febbre, tosse o raffreddore: a giudicare dai dati delle vendite, anzi, è probabile che la maggior parte delle persone non ne abbia più usata una dopo la fine dell’obbligo, nel 2022, se non quando ha dovuto frequentare luoghi in cui è obbligatoria, come ospedali e RSA.

La produzione italiana di mascherine ha cominciato a entrare in crisi esattamente in quel periodo: Roberto Vezzosi, il responsabile commerciale della CMM di Modena, che nel 2020 aveva convertito gran parte della sua produzione in quella di mascherine di tutti i tipi, aveva raccontato al Post come nel 2022 fosse «crollato tutto: nei primi quindici giorni di marzo 2022 siamo passati da una richiesta spasmodica al nulla. Non c’è stata una via di mezzo». In ospedale, dove fino ad aprile del 2023 le mascherine erano obbligatorie ovunque, dallo scorso luglio hanno smesso di esserlo anche nei reparti che ospitano pazienti fragili, anziani o immunodepressi.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e l’ex presidente del Consiglio europeo Charles Michel a Bruxelles nel dicembre del 2020 (Johanna Geron, Pool Photo via AP)

Tra le accortezze che cominciarono a circolare fin dai primi giorni, insieme alla raccomandazione di lavare spesso le mani e di non toccarsi la faccia, c’era quella di starnutire nell’incavo del gomito, sempre per tenere il più possibile le mani pulite. Non c’è modo di dire quanti lo facciano ancora, ma è una delle cose che vengono citate più spesso quando si chiede alle persone che abitudini abbiano mantenuto degli anni della pandemia. Al contrario, le abitudini di salutarsi col contatto dei gomiti o col pugno anziché con strette di mani e baci sulle guance sono del tutto scomparse.

In generale è indubbio che la pandemia abbia reso tutto il mondo un po’ più tecnologico, imponendo anche a persone anziane o poco pratiche con computer e smartphone di imparare a usarli per vari scopi. In Italia nel 2021 le persone con lo SPID (il Sistema Pubblico di Identità Digitale) sono più che raddoppiate rispetto al 2020, arrivando a 26,1 milioni e nel 2022 sono cresciute ancora molto, arrivando a 32,2 milioni. Le ricette mediche elettroniche, il cui utilizzo è stato esteso nelle prime settimane della pandemia, hanno sostituito sempre più spesso le ricette cartacee e dal 2025 i medici sono tenuti a garantirle sempre a tutti i pazienti. Molte più persone hanno inoltre cominciato a contemplare la possibilità di fare certi acquisti online, e se prima del 2020 era possibile farlo quasi solo sui grandi ecommerce, oggi anche molti negozi più piccoli offrono questa possibilità.