Storia del nuovo cognome (e altri refusi)
«Si potrebbe dire che la mia vita si è svolta all’ombra di una sequela di inesattezze: prima l’errore di considerarmi soltanto “orfano”; poi scoprire di essere in realtà “postumo”; e infine ci furono le lapidi nel cimitero di Visciano. Fu quello il primo dei “refusi” che mi hanno accompagnato negli anni e forse mi hanno spinto a fare l’editore»

Sul finire degli anni Settanta, all’età di circa dieci anni, in un affollato e caotico ufficio dell’anagrafe di Napoli, sentii mia madre definirmi «orfano di padre» e, mentre abbassavo colpevole lo sguardo al cospetto dell’autoritario e sfumacchiante impiegato comunale, compresi che fino a quel momento, nel qualificarmi semplicemente come «orfano» (parola che faticavo a pronunciare perché portava dentro di sé un peso incalcolabile di assenze e tabù e domande non fatte e spiegazioni non ricevute) avevo perfino arrotondato per eccesso il mio pur compassionevole status. Quella particella appena ascoltata dalla mia genitrice vivente – «di padre», appunto – riduceva ipso facto del 50 per cento il numero delle perdite subite, lasciandomi sì vittima di una «disgrazia» ma prosciogliendomi dunque dalla oscarwildiana accusa di «sbadataggine» per aver perso entrambi i genitori.
Dovettero passare alcuni decenni da quella discesa agli inferi della burocrazia neoborbonica prima che, a una considerevole età, arrivassi infine a fare la scoperta di aver reiterato fino a quel momento, definendomi orfano, un’ulteriore inesattezza. Essendo nato infatti nell’agosto del 1970, sei mesi e mezzo dopo la morte di mio padre, io sono tecnicamente un figlio «postumo». E questo nessuno me lo aveva mai spiegato – né mia madre, né il travet tabagista. E neppure Oscar Wilde.
Per anni avevo sentito sciorinare a mio fratello Riccardo – invidiandogli la disinvoltura con cui non solo affrontava l’argomento ma addirittura ci faceva sopra dello spirito – la divertente storiella secondo cui è vero che non abbiamo avuto un papà ma in cambio abbiamo avuto in dote molti più nonni di chiunque altro conoscessimo.

Napoli, fine anni Sessanta: Riccardo, Dario e Diana Cassini
Avevo appreso – come sempre captando frammenti di discorsi, mettendo insieme indizi che servivano a sopperire a una chiara declinazione dell’albero genealogico – che i miei nonni paterni erano privi delle sostanze necessarie a mantenere i loro ben otto figli; e così, come pareva succedesse di frequente nelle famiglie contadine meridionali (due aggettivi che andavo appuntando sul mio taccuino mentale per poter collocare la mia famiglia in uno spazio, in un tempo, in una classe sociale, in una storia), mio padre Raffaele era stato adottato da un fratello del padre naturale, e dalla sua consorte, che da un giorno all’altro si erano quindi trasformati, come per magia, da zii in genitori aggiuntivi, in uno snodo di trama degna di un riassunto delle puntate precedenti di Beautiful. Ragion per cui mio padre ha avuto quattro genitori, e di conseguenza i Cassini della mia generazione hanno avuto in sorte addirittura sei tra nonni e nonne. Un do ut des relativo, almeno per me, giacché buona parte di questa masnada nonnesca era già sepolta nella cappella di famiglia prima che potessi farne la conoscenza.
Insomma, si potrebbe dire che la mia vita si è svolta all’ombra – o addirittura è stata frutto – di una sequela di inesattezze: prima l’errore di considerarmi soltanto «orfano»; poi, una volta conquistata la qualifica di «orfano di padre», scoprire di essere in realtà «postumo»; e infine il non ritrovarmi allineato alle norme che regolano le definizioni comuni di nuclei familiari, né quanto al numero dei genitori a disposizione, né nel numero dei nonni da cui discendevo. Il che sembra singolarmente pertinace da parte di quel destino che mi avrebbe portato a diventare editore, una categoria professionale per la quale l’errore, il refuso, è qualcosa da correggere con scrupolo.
In ogni caso, se questi vi sembrano già troppi errori, sappiate che siamo appena all’inizio.
Erano gli anni Settanta, e a casa mia non c’era tempo per insegnare le cose: eravamo quattro figli e un solo genitore, io non lo capivo, non sapevo farmi questi conti, io non avevo vissuto un evento traumatico, come i miei fratelli: per me la mancanza dell’altro genitore era una condizione naturale («cieco dalla nascita» ha sempre detto mia madre, rispetto a loro, che la vista l’avrebbero persa dopo aver posato lo sguardo su un mondo in cui nostro padre c’era). Tra le situazioni che si sono venute a creare in maniera spontanea (nessuno di noi quattro, per esempio, ha mai deciso di non volersi laureare: semplicemente, bisognava essere in grado di portare la pagnotta a casa subito dopo il liceo, rendersi indipendenti il prima possibile), c’era questo stato di fatto quotidiano per cui non c’era tempo di chiedere chiarimenti, di impuntarsi o anche solo soffermarsi sul voler indagare il perché delle cose. Mia mamma aveva sempre fretta, una fretta dovuta al tentativo di infilare – per praticità, per necessità, per sopravvivenza – quante più cose possibile in una sola giornata, in una sola ora, in un unico tragitto in macchina, nello stesso percorso tra la sala da pranzo e la cucina. Non ha mai risparmiato sui sorrisi, sulla dolcezza, sui gesti affettuosi. Ma spiegare non era qualcosa che sembrava avere il tempo di poter fare.
Questo non significa che mancassero la felicità, la condivisione, i momenti spensierati, le cene, le feste in maschera, i giochi di società, le prese in giro, le vacanze, le gite cantando Dalla e Battisti in coro nella Fiat 127: non ci è mai, si direbbe con una frase fatta, mancato nulla. Solo, non c’era tempo per le spiegazioni, o forse è a me che non è mai venuto in mente di chiederne. C’erano delle regole: la principale è che tutti noi avevamo dei compiti; ognuno, fin da piccolissimo, doveva dare il proprio contributo al ménage familiare. Se una compagna di scuola veniva a pranzo da noi, o un amico si tratteneva il fine settimana, era attraverso il filtro del suo punto di vista stupefatto o canzonatorio che per la prima volta ci rendevamo conto di come questa regola, che credevamo universale, non vigesse invece in tutte le case.
Apparecchiare o sparecchiare la tavola, cucinare, fare una puntata all’alimentari dove avevamo il conto o sistemare la spesa in frigo e nei pensili, lavare i sanitari, passare lo straccio sui pavimenti, portare il cane fuori, magari insieme alla spazzatura, spolverare i mobili, innaffiare le piante: ognuno di questi «servizietti» – suddivisi fra noi, in maniera equanime ed efficientissima, in base a un algoritmo che teneva scientificamente conto di età, propensione, attitudine sull’asse delle ordinate e, sulle ascisse, tempo da dedicare all’operazione in rapporto agli altri impegni di ciascuno – era un mattoncino della nostra educazione, il nostro tributo quotidiano alla cosa comune.
A volte anche il modo per concedere a nostra madre un minuto, non dico per fumare una sigaretta (che sarebbe stata comunque spenta dopo pochi tiri, giacché dedicarle il tempo necessario a consumarla tutta sarebbe stato un lusso inopportuno), ma per assolvere a un ulteriore compito e superare un altro ostacolo mentre qualcuno di noi era impegnato a raccogliere le foglie secche dai gerani del terrazzo, lucidare con la cromatina le posate d’argento o mettere in ordine la collezione di bottigline di liquore mignon sul ripiano del soggiorno. C’erano insomma regole esplicite come i «servizietti» e regole implicite come: meglio non fare troppe domande.
E così, tante cose non te le spiegava nessuno: dovevi capirle da te.
Una sera, prima di cena e dopo che, secondo gli usi, mia madre aveva immerso nella vasca me, Dario e la quantità di Big Jim necessaria non solo a renderci piacevole il rito del bagno ma a farlo durare il più a lungo possibile al fine di concederle un’effimera tregua utile a preparare la cena, mia madre mi trovò inginocchiato a terra e semisvestito, con la parte già pigiamata di me distesa sul letto, il braccio allungato e la faccia affondata nell’incavo del gomito, la voce rotta dal pianto.
Avvicinatasi con dolcezza e un accenno di spavento, mi chiese se stavo bene, se mio fratello mi avesse fatto qualche dispetto, cosa che succedeva con regolarità ma non in quel preciso istante, perché lui stava portando a termine in modo egregio il compito che a entrambi spettava ogni sera: preparare sulla sedia accanto al letto i vestiti per il giorno dopo, la divisa scolastica fatta di pantaloni di velluto blu a coste, camicia bianca, gilet o maglione blu a seconda della stagione, mocassini allineati millimetricamente sotto la sedia e il mucchiettino della biancheria intima sulla sommità degli altri capi piegati e stirati in perfetto ordine.
La frase che mia madre riuscì a interpretare, nella mia sillabazione cadenzata da lacrime e singhiozzi, è stampata a caratteri d’oro nel nostro lessico familiare, il quale da circa mezzo secolo traduce l’espressione comune «perdersi in un bicchiere d’acqua», e recita, testuale: «Sto piangendo! perché tu! non mi hai mai! insegnato! il piego delle mutande!» La veridicità dell’infamante accusa rivolta alla mia genitrice risultava incontrovertibilmente suffragata dalla differenza compositiva tra l’impeccabile pacchettino bianco dello slip di mio fratello ripiegato in tre e riposto immacolato alla sommità del suo militaresco cubo di rubik bicromatico della divisa pronta per la mattina successiva e l’inaccettabile scultura postmoderna che rendeva, al mio sguardo di bambino perfezionista, insopportabilmente imperfetto il mio corredo personale per l’indomani.
Quello fu il mio primo e ultimo urlo di Munch della Mancata Spiegazione. Non ne avrei mai più chieste, non ne avrei mai più ricevute. Mi fu chiaro allora che di nulla, dal modo di riporre gli slip al perché io non avessi un padre, avrei potuto chiedere conto; su nulla avrei trovato chi potesse istruirmi. In casa mia non c’era il tempo per insegnarle, le cose: bisognava apprendere dai gesti altrui, rubare dai più grandi espressioni, modi di dire e di fare, imitare movenze che sembravano giuste, o che – forse apprese mimeticamente a loro volta – per lo meno non sembravano aver prodotto conseguenze indesiderate, e potevano dunque essere replicate senza danno.
* * *
Tra le cose da non chiedere c’è la vicenda del rebranding familiare. Questa «storia del nuovo cognome» io stesso l’ho scoperta solo in adolescenza, dopo averne portato addosso con disinvoltura per almeno un paio di lustri uno che non era lo stesso che avevano indossato, nei loro primi anni di vita, i miei fratelli maggiori.
Nel 1967 la mia famiglia aveva infatti intrapreso un lungo e complesso iter burocratico per cambiare cognome. Oggi fa sorridere pensare che la parola «casino» potesse risultare sconveniente, o una parolaccia degna di scherzi telefonici o additamenti sghignazzanti. Eppure, al termine del boom economico, e a quasi dieci anni dal matrimonio dei miei, quando ormai il nucleo familiare aveva già accolto due nuovi arrivi e si preparava al terzo, i coniugi Casino – dall’alto di uno status fatto anche di cose materiali come: un appartamento al settimo piano nel quartiere residenziale del Vomero; una casa al mare affittata tutto l’anno nel Golfo di Gaeta, e precisamente a Marina di Minturno, appena ufficializzata per decreto come «frazione di particolare interesse turistico»; ben due automobili: una berlina elegante (Lancia Flavia) e una utilitaria (la Bianchina che mia mamma orgogliosamente conduceva in virtù di una delle prime patenti rilasciate a donne napoletane o forse italiane negli anni Sessanta); oltre che dall’avviata carriera nella professione medica di quello che il diritto di famiglia pre-riforma indicava ancora come il «capofamiglia» – decisero di affrontare il nuovo rutilante decennio alle porte con un nuovo rutilante cognome. Per farlo, dovettero convincere anche chiunque fosse imparentato e recasse quel gentilizio così poco gentile.
Era questo dunque il primo dei «refusi» che mi hanno accompagnato negli anni. C’era questo errore che non riuscivo a comprendere appieno ogni volta che, con la testa bassa e quindi con gli occhi, per così dire, al cielo, osservavo terrorizzato le iscrizioni sulle lapidi della cappella di famiglia al paese paterno («oggi andiamo a trovare papà» era il sintetico messaggio con cui mia madre ci annunciava di aver programmato una gita a Visciano): alcuni dei cognomi incisi erano «Verde», quello di mia madre; altri, tra cui quello sulla lapide di mio padre, erano – naturalmente – «Cassini»; e però compariva qua e là, come un elfo nel bosco, anche qualche «Casino».

Refusi nella cappella di famiglia nel cimitero di Visciano, in provincia di Napoli. Dall’alto: refuso sulla data di nascita di Raffaele Cassini (dicembre invece di febbraio); refuso sulla lapide di nonna Vincenza («di elevate virtù civile»); più quello che aveva tutta l’aria di essere un refuso, il cognome «Casino» invece di «Cassini» nel cognome del nonno Raffaele. (Archivio Cassini)
Tanto per complicare un po’ di più le cose, il padre adottivo di mio padre si chiamava anche lui Raffaele. Pertanto, in quelle mie osservazioni dal basso delle lapidi, vedevo uno accanto all’altro un Raffaele Cassini che sapevo essere mio padre, e un Raffaele Casino che sapevo essere mio nonno. Ora, in genere, almeno così mi pareva di aver capito da una sommaria indagine sul campo tra i miei compagni di classe, padri e nonni avevano nomi diversi e cognomi uguali; come mai nel mio caso succedeva il contrario?
Chissà se fu con sorpresa o rammarico, rassegnazione o entusiasmo che mio fratello Riccardo e mia sorella Diana, all’epoca del rebranding già abbastanza grandi da presentarsi (e firmarsi) per nome e cognome, si adattarono alla nuova realtà, facendosi aderire addosso il nuovo cognome come un vestito provato per la prima volta in un camerino; chissà se il cambio di cognome rese necessario – magari ad anno scolastico già avviato – un’inversione nell’ordine alfabetico nell’appello; e chissà che sensazione dava pronunciare un plurale invece di un singolare e una sibilante raddoppiata. (Mi riviene in mente solo adesso, nello scrivere «sibilante», quante risate abbiamo dovuto soffocare, sentendo mia madre calcare così tanto quella doppia esse, perché ci faceva pensare al Sir Biss del Robin Hood disneyano).
Sta di fatto che io, che sono l’unico della famiglia a essere nato già Cassini, ho avuto anche dei parenti che sono morti ancora Casino: e questo metteva un ulteriore ostacolo alla mia comprensione dell’albero genealogico e in generale potrei dire del mondo, scoperchiando dinanzi a me interi vasi di pandora di dubbi esistenziali sulla presunta correttezza dei testi scritti, perfino di quelli scritti a caratteri cubitali, che si presumono essere lapidari, ossia letteralmente «scolpiti nel marmo». Dubbi rispetto ai quali, ça va sans dire, non cercavo spiegazioni, provando ad arrivare a una soluzione come fosse uno dei «quesiti per i più piccoli» della Settimana Enigmistica.
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Le mie poche confuse certezze, anche linguistiche, venivano vieppiù minate dalla lapide attigua, sulla quale mia nonna, Vincenza Carraturo (cognome diverso, ma fin qui tutto bene), veniva definita «madre esemplare» e «adorabile impeccabile», un doppio aggettivo senza punteggiatura o congiunzioni, forse a causa del costo per lettera dell’opera del marmista, e lodata per le sue «elevate virtù civile»: una pindarica ma decisa concordanza al femminile plurale che per anni mi ha fatto dubitare delle mie conoscenze grammaticali. Da che ne abbiamo memoria, il refuso venne per anni mimetizzato grazie a un’abile mossa di mio zio Mario, che coprì le tre zampette della «E» per trasformarle in una «I», usando il frammento di un foglio gommato staccato dal margine di una marca da bollo. Solo molto tempo più tardi avrei scoperto che un refuso simile compare sull’iscrizione al Lincoln Memorial di Washington, dove nella frase «hope for the future» la «F» ha una zampetta di troppo e ancor oggi si può leggere «euture». Il refuso di Visciano, così, mi è sembrato addirittura potesse arrivare a imparentare Vincenza, la madre di mio padre, e Abraham, il padre della nazione americana.
Sono, ormai da tempo, consapevole che siano state queste prime domande esistenziali, dettate dall’aver posato lo sguardo su parole che trovavo sbagliate, a farmi dedicare poi gran parte della mia vita alle parole scritte in nero su un fondo bianco, alla continua ricerca di un refuso da correggere, di una miglioria da apportare a un testo scritto da altri. Questi dubbi e riflessioni, che in altri frangenti o in altre persone sarebbero stati solo uno svago momentaneo, per me devono essere diventati una ragione vitale, forse perché si svolgevano in momenti così carichi di emotività. Ero un bambino di pochi anni e dovevo abituarmi all’idea che «andare a trovare papà» significava in realtà fare un lungo tragitto in macchina per restare appena alcuni minuti in piedi, a disagio in una stanzetta umida e fredda, a osservare una lastra di marmo. Laddove un padre avrebbe azionato una macchinetta radiocomandata o lanciato un pallone, il mio mi lanciava solo un pugno di parole incongruenti e piene di errori.
Nella visita al cimitero di Visciano che Dario, Diana, Riccardo e io abbiamo fatto di recente per accompagnare mamma a ricongiungersi, finalmente, al termine di cinquantaquattro anni di reciproca attesa, a papà, c’è stato un ulteriore incontro con un refuso. Durante la nostra prolungata assenza dalla cappella di famiglia, un qualche accidente che non siamo riusciti a ricordare (un terremoto? un allagamento? la semplice incuria?), aveva provocato la caduta e la rottura della lapide della tomba di papà. Il quale quindi si era per così dire appena rimesso in ghingheri, proprio come un fidanzatino emozionato pronto a incontrare di nuovo la sua amata: il marmo di un bianco immacolato, il nero delle scritte ben marcato perché di conio recente. Sarebbe stato tutto perfetto, salvo che la sua nuova data di nascita è stata sbagliata: è comparso un «1» di troppo e così adesso invece che a febbraio risulta nato a dicembre. Ho chiesto al marmista, già che deve incidere la lapide di mia madre, di correggere l’errore su quella di mio padre.
Non che importi più, ora che sono entrambi altrove – nell’eternità o nel nulla, a seconda dei punti di vista, ma certamente insieme – nel giorno in cui papà compie i suoi primi cento anni. Io che sono il suo marmista-correttore di bozze ho fatto in modo che potessero festeggiare il centenario nel giorno giusto. Che, detto per inciso, è oggi: 19 febbraio 2025.

Napoli, 1967. Alla vigilia del cambio di cognome, la famiglia Casino al completo. In senso orario: Lucia, Raffaele con in braccio Dario, Riccardo, Diana (Marco, che ha scritto questo articolo, arriverà nel 1970, direttamente col cognome nuovo di zecca) (Archivio Cassini)
Post scriptum. Nell’epopea familiare, l’aneddoto della visita all’anagrafe termina così: mia madre, subito dopo avermi definito «orfano di padre», detta all’impiegato le mie generalità scandendo: Marco Cassini, di fu Raffaele Cassini e di Lucia Verde Cassssssssini, aggiungendo che suo marito Raffaele Cassssssini (di fu Raffaele Casino), era nato anche lui Raffaele Casino come il padre, defunto come Raffaele Casino e questo come Raffaele Casssssssini, ossia colui il quale lei aveva sposato come Raffaele Casino, diventando prima la signora Lucia Casino, e infine la vedova Cassssssssini. Al che l’impiegato comunale getta sulla scrivania il nostro fascicolo, concludendo esasperato: «Signora, me lo lasci dire: questo è proprio un casino!»
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