La chitarra usata da Lucio Corsi a Sanremo ha una gran storia
Fu prodotta da Wandrè, partigiano e liutaio emiliano i cui strumenti furono apprezzati in Italia e all'estero, fino a Bob Dylan e Frank Zappa
di Giuseppe Luca Scaffidi

Durante la finale del Festival di Sanremo il cantautore Lucio Corsi ha suonato una chitarra che è rimasta impressa per il suo design futuristico, le sue geometrie sinuose e i suoi contrasti di colore accesi e un po’ psichedelici. Era una Rock Oval, uno dei modelli che l’eclettico e creativo liutaio Antonio Vandrè Pioli, conosciuto con lo pseudonimo di Wandrè, realizzò tra il 1957 e il 1968, quando diventò uno dei più importanti e rispettati costruttori di strumenti musicali italiani.
La sua storia, cominciata tra i partigiani comunisti e proseguita con la fondazione della sua azienda a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, è tramandata oggi da un gruppo di persone che curano l’eredità culturale di Wandrè, che è ancora ricordato tra addetti ai lavori per il suo gusto e per la grande originalità delle sue scelte stilistiche e produttive, che gli permisero di realizzare chitarre apprezzate da musicisti di fama internazionale.
Pur avendola utilizzata a Sanremo, Corsi non è il proprietario di quella chitarra: l’ha avuta in prestito dai “Partigiani di Wandrè”, un collettivo di cultori della produzione di Pioli che, oltre ad avere acquisito una certa esperienza nel restauro di questi strumenti, svolge anche un ruolo di archivio e divulgazione che si articola in varie attività, come l’organizzazione di mostre, seminari e spettacoli teatrali. Tra loro c’è anche Marco Ballestri, che affianca alla professione di medico quella di storico della vita e delle opere di Wandrè, e che ha ricostruito in una sconfinata biografia scritta nell’arco di 14 anni.
«Conobbi Lucio [Corsi] un paio d’anni fa, durante un concerto dedicato a Ivan Graziani», racconta Ballestri. «Ama molto l’estetica glam ed è un appassionato di arte psichedelica, e quando scoprì le chitarre di Wandrè ne rimase entusiasta, dato che sono perfette per l’iconografia dei suoi video e dei suoi spettacoli». Quando Corsi ha chiesto di portarne in scena una a Sanremo, Ballestri e gli altri membri del collettivo «hanno accolto la proposta con grande entusiasmo», dato che si trattava «di un’occasione unica per mostrare questi strumenti a un pubblico enorme».

(Marco Alpozzi/LaPresse)
Una parte dell’attività dei “Partigiani di Wandrè” consiste proprio in questo: prestare gratuitamente delle chitarre ai musicisti che ne fanno richiesta. Tra le persone che negli ultimi anni hanno utilizzato gli strumenti messi a disposizione dal collettivo c’è anche Peter Holmstrom, chitarrista del gruppo di rock alternativo statunitense dei Dandy Warhols. Questo servizio è funzionale a un’opera di divulgazione che, dice Ballestri, serve a «tramandare il verbo di un artista prolifico e con una visione del mondo assolutamente irripetibile, di cui però si conoscono pochissime cose. Eppure ebbe una vita straordinaria, e fu apprezzato da musicisti di fama internazionale».
Per esempio, in una scena del documentario Don’t Look Back, Bob Dylan fissa estasiato una Wandrè in vendita in un negozio di strumenti musicali, definendola «incredibile». Anche Frank Zappa, uno dei musicisti più originali e fantasiosi della storia del rock, era notoriamente un appassionato di chitarre Wandrè, così come Ace Frehley, il chitarrista dei Kiss.
Per scrivere il suo libro, intitolato Wandrè. L’artista della chitarra elettrica, Ballestri ha dovuto svolgere un lavoro di documentazione piuttosto faticoso: la maggior parte delle informazioni è stata raccolta durante una serie di interviste a operai che lavorarono nella “fabbrica circolare”, l’azienda che Wandrè fondò negli anni Cinquanta a Cavriago, dove nacque il 6 giugno 1926: tra loro c’è anche il verniciatore Gianfranco Borghi, che lavorò con Wandrè per 11 anni e che oggi è un membro del collettivo che porta il suo nome.
Questi sforzi hanno permesso di approfondire molti aspetti dell’attività di Wandrè che fino a pochi anni fa erano sostanzialmente sconosciuti, come il suo passato da partigiano nelle Brigate Garibaldi, i riferimenti sociali, politici e culturali che ispirarono alcune sue scelte di design e materiali e la sua nota passione per le filosofie del lavoro, che lo indusse a ideare una sua particolare concezione di “catena di montaggio”.

(Daniele Venturelli/Getty Images)
Per esempio, racconta Ballestri, la forma della Rock Oval era un omaggio «alla fantascienza», con cui Wandrè entrò in contatto grazie alla lettura dei primi romanzi che furono importati in Italia. In particolare, Wandrè aveva una certa fascinazione per i dischi volanti, degli oggetti che in quegli anni si erano radicati nell’immaginario collettivo per via della grande attenzione mediatica generata dall’incidente di Roswell del 1947: il design della Rock Oval omaggia proprio le linee di questi oggetti, riprendendo i modi in cui erano stati disegnati dalle persone che sostenevano di averli visti o nei fumetti di fantascienza.
Un altro modello famoso realizzato da Wandrè fu la Brigitte Bardot, il cui design eminentemente curvilineo era ispirato all’erotismo e alla celebrazione di uno stile di vita esuberante, disinvolto e libertino. Ballestri racconta che Wandrè la disegnò nel 1957, un anno dopo l’uscita del film E Dio creò la donna, lasciandosi ispirare da quella famosa scena di ballo in cui Bardot si muove come se fosse in trance.
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Anche se le chitarre portavano la sua firma, Wandrè non concepì mai la liuteria come un’attività individuale. «Adottava un’ottica collaborativa, e spesso coinvolgeva nella colorazione delle chitarre artisti e amici», come il pittore Lelio Lorenzani. Per ottenere dei motivi originali e irripetibili, utilizzava tecniche poco ortodosse e spesso molto giocose. Per esempio, Borghi ha raccontato che «una volta fece camminare una gallina sopra una vernice, per riportare le impronte delle zampe nel corpo della chitarra».

Una Wandrè Blue Jeans (Wikimedia Commons)
Un altro elemento distintivo, di cui Wandrè fu un precursore, fu la sua predilezione per i manici in alluminio, che «prima di lui venivano usati soprattutto per realizzare gli strumenti rivolti alle bande musicali degli eserciti, che dovevano durare nel tempo e resistere a periodi di forte umidità». Wandrè ebbe l’intuizione di usare questo materiale per «evitare i fenomeni di torsione e di flessione dei manici, realizzando in tal modo strumenti durevoli e resistenti all’usura».
Altre intuizioni «geniali» di Wandrè, aggiunge Ballestri, furono il ponte a corde sospese – ossia un ponte in cui le corde della chitarra sono tenute in sospensione da un sistema di asole, permettendo così di farle vibrare per più tempo – e la sua particolare versione del vibrato, realizzata sfruttando una molla da moto.
Secondo Ballestri, «le chitarre di Wandrè non hanno avuto lo sviluppo che meritavano per il loro costo di produzione, che per via dei materiali impiegati è estremamente alto». Inoltre, aggiunge, «mettere le mani su una chitarra del genere non è così immediato: serve una competenza molto specifica, altrimenti si rischia di fare danni». Mentre grandi produttori americani, come per esempio Fender, sono diventati dei colossi anche perché hanno costruito chitarre facilmente riparabili da chiunque, «Wandrè concepì la sua produzione in un modo del tutto differente, più artistico e meno destinato alla diffusione di massa. Lo si evince anche dalla terminologia che impiegava: non definiva le sue chitarre “strumenti”, ma “sculture sonore asservite alla musica”».
Un altro elemento che Ballestri ha approfondito nei suoi studi riguarda l’interesse di Wandrè per i metodi di organizzazione del lavoro, approfondito attraverso le testimonianze degli operai che collaborarono con lui e dalla lettura dei verbali delle riunioni di fabbrica, che «nella maggior parte dei casi erano densi e profondamente ispirativi».
Nella “fabbrica circolare” Wandrè definì una sua particolare concezione di catena di montaggio, che «manteneva i criteri di efficienza e produttività di dottrine come il fordismo e il taylorismo, ma ne eliminava gli aspetti che reputava più spregevoli, come l’alienazione degli operai, i rigidi orari di lavoro e la ripetizione meccanica dei compiti». Per svincolarsi da questo modello, Wandrè eliminò gli orari di lavoro, consentendo ai suoi dipendenti di andare in fabbrica all’ora che ritenevano più comoda, e scelse anche di condividere con loro una parte del capitale d’impresa. «Chi voleva poteva utilizzare le macchine e i materiali presenti in fabbrica per realizzare dei manufatti artigianali per conto proprio, per rivenderli o farne ciò che voleva».
Ballestri spiega che la fabbrica circolare fu costruita in maniera tale che chiunque potesse vedere il cielo in qualsiasi momento. «Wandrè sosteneva che il lavoro non è mai una condizione naturale per l’uomo, che non è nato per scambiare il suo tempo in cambio di un salario; lo considerava come una forma di costrizione, e attribuiva un significato simbolico alla possibilità di poter osservare il cielo in qualsiasi momento».
Inoltre, aggiunge, Wandrè organizzò corsi e attività extralavorative. I lavoratori erano stimolati a sviluppare una formazione artistica e culturale, imparare lingue, suonare strumenti musicali e specializzarsi in compiti che c’entravano poco o nulla con le competenze richieste in fabbrica, nell’ottica di «un pieno sviluppo delle potenzialità umane». Alla fine, questo approccio funzionò: «In undici anni non ci fu neppure uno sciopero», dice Ballestri.
Diversi musicisti italiani svilupparono una passione per le Wandrè, tra cui Adriano Celentano e Francesco Guccini, che nella prefazione del libro di Ballestri ha raccontato le emozioni che provò quando si trovò davanti a quella chitarra «dalla forma assurda, con dettagli acromegalici che facevano immaginare un qualcosa di futuribile non ancora ben immaginato».
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