Chi si ricorda di Shere Hite?
«“Il rapporto Hite”, il libro che la rese famosa, è un’inchiesta sulla sessualità femminile, lunga oltre cinquecento pagine e a cui partecipò un numero incredibile di donne. Tra le domande si trovano: “Hai orgasmi?”, “Che importanza ha la masturbazione?”, “Provi mai dolore?”. Fu un immediato successo, anche se fu oggetto di una vera persecuzione mediatica»

Qualche tempo fa, durante una conversazione, una ragazza un po’ più giovane di me mi ha detto che non sapeva cosa fare per essere vista dagli uomini che aveva attorno. «Lo trovo esasperante», ha aggiunto, riferendosi al fatto che si sentiva poco ascoltata e trattata come uno stereotipo, invece che come la persona che era. Sapeva di non essere la sola a cui questo accadeva, ma voleva trovare un modo per cambiare questa dinamica. Parlandone devo averle assicurato che quello che chiedeva era davvero il minimo sindacale, ma che purtroppo non c’era modo di farlo accadere pretendendolo; la soluzione, mi pareva, era provare a interrogare queste persone sulla visione che avevano di lei e viceversa.
Non era molto, mi rendevo conto, ma era un inizio. Poi ho aggiunto una frase che mi sembrava cadere a pennello: «L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione». È una citazione dal manifesto di Rivolta femminile, il gruppo femminista nato dall’incontro tra Carla Lonzi, Elvira Banotti e Carla Accardi, una frase che mi pareva una buona guida per la vicenda in questione, se non fosse stata scritta nel 1970. Il fatto che a cinquantacinque anni di distanza quelle parole suonassero come un monito ancora fin troppo valido faceva aleggiare un frustrante senso di eterno ritorno sulla nostra conversazione.
Costruiamo la nostra conoscenza e consapevolezza del mondo a partire da chi ci ha preceduto, con la convinzione o forse la speranza che il lavoro di chi è venuto prima abbia prodotto fondamenta nuove su cui continuare gli stessi e nuovi percorsi. Tuttavia più che un percorso lineare, la storia delle pratiche femministe assomiglia a un ciclo di inabissamenti a cui porre rimedio e di recuperi a cui consegnare la nostra fiducia.
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Gli ultimi anni hanno certamente mostrato il desiderio di queste riemersioni dal passato: oltre alla recente ripubblicazione proprio di Sputiamo su Hegel e degli altri lavori di Carla Lonzi, vengono in mente i volumi di Gabriella Parca e, prima, quelli di bell hooks e Susan Sontag, ma anche libri nuovi che si confrontano con le eredità dei movimenti femministi, tra cui Clandestine di Marta Stella o Fare femminismo di Giulia Siviero – opere accolte o riscoperte con calore e entusiasmo, segnale della volontà di ricongiungersi con una tradizione di lotta che per molte ragioni continua a sfuggire di mano, di recuperarne le storie perché possano essere tramandate e, infine, anche modi per ricordarsi che, a prescindere dalla frustrazione per il presente, passi in avanti sono stati fatti.
Se non ottimisti, c’è da essere fiduciosi. Anche se viene da pensare: quali obiettivi potrebbe oggi porsi la lotta femminista se non dovesse muoversi a un tempo in avanti e all’indietro, verso nuovi orizzonti, dovendo, però, continuamente mettere in salvo le conquiste ottenute, che siano diritti o saperi? Quante altre eredità e consapevolezze sono state silenziate e cancellate, quante rischiano di farlo?
Allora, a quella serie di nomi recuperati, vorrei aggiungere quello di Shere Hite, la sociologa femminista e autrice di best seller più famosa di tutte che, tuttavia, potreste non avere mai sentito nominare, soprattutto se, come me, avete meno di quarant’anni. Il suo Rapporto Hite, un’inchiesta sulla sessualità pubblicata nel 1976, infatti fece di lei un’icona del femminismo e un personaggio pubblico, e ancora oggi compare nell’elenco dei trenta libri più acquistati di sempre negli Stati Uniti: dalla sua pubblicazione, in tutto il mondo, si calcola che abbia venduto qualcosa come cinquanta milioni di copie.
Quando nel 2020 Hite morì a seguito di una lunga malattia se ne parlò come una delle «pioniere del femminismo e una delle protagoniste della rivoluzione sessuale» e si parlò di come il suo libro ebbe «l’effetto di una bomba» nella società del tempo. Tuttavia, da tempo il suo nome era stato estromesso dal dibattito culturale. Io, come molte – ma forse non abbastanza! – persone della mia età, ho potuto scoprire della sua esistenza solo grazie al documentario del 2023 The Disappearance of Shere Hite, diretto da Nicole Newnham. Difficilmente, infatti, avrei potuto incontrare questo nome prima o altrove: pur pubblicato in Italia nel 1977 da Bompiani con la traduzione di Mariella Guzzoni e ristampato nel 2001, oggi del Rapporto Hite si trovano solo sparute copie su eBay o nelle biblioteche di studi di genere.
La stessa regista del documentario ha raccontato di averla scoperta per caso, trovando il volume nella libreria della madre, e che solo alla notizia della morte della sociologa aveva deciso di indagarne e ricostruirne la storia, dal lavoro accademico all’avvicinamento alla causa femminista, fino all’esplosione e poi implosione della sua carriera. Lo ha fatto in maniera egregia, cucendo insieme filmati di archivio, testimonianze delle persone che l’hanno circondata e brani tratti dai suoi libri e diari letti dall’attrice Dakota Johnson.
Ma come può un’inchiesta scandalizzare il pubblico, ridefinire il modo in cui si parla di sessualità femminile, diventare uno dei libri più venduti di sempre, trasformare la sua autrice da sconosciuta in celebrità televisiva, e poi sparire dai radar nel giro di una generazione insieme a chi l’ha scritta? Quella di Hite è la storia di una scomparsa, di un esilio autoimposto e di una rimozione volontaria, è un esempio di come funzionano i backlash mediatici, dell’oblio che può circondare una star degli studi femministi – e del tentativo di farla tornare a splendere.
Il rapporto Hite, il titolo che la rese famosa, è un’inchiesta sulla sessualità femminile, lunga oltre cinquecento pagine (nell’edizione italiana originale) e a cui parteciparono un numero incredibile di donne, più di tremila tra i quattordici e i settantotto anni. Disturbata dal sessismo della società in cui viveva e ispirata dalla pratica dell’autocoscienza come spazio di affermazione personale, Hite pensò che fosse importante raccontare pubblicamente quello che in privato molte donne provavano o confessavano. Lo fece intervistando ogni donna che si rendesse disponibile, chiedendole di rispondere a un lungo questionario sulle faccende del sesso, sugli orgasmi, sulla masturbazione, sui rapporti con i mariti o con le partner.
Tra le domande si trovano: «Hai orgasmi? In caso negativo, cosa pensi potrebbe contribuire ad averli?», «Per te è importante avere orgasmi?», «Descrivi cosa provi», «Che importanza ha la masturbazione?», «Ti piacciono i rapporti penetrativi?», «Provi mai dolore?», fino a «Se sei sposata, che effetto ha avuto il matrimonio sul sesso?», e così via per cinquantotto punti, nessuno dei quali veniva regolarmente trattato in pubblico. I questionari venivano stampati alla Come!Unity Press di New York, una tipografia in cui venivano prodotte fanzine anarchiche e LGBT, e venivano spesso ciclostilati dalla stessa Hite e poi inviati per posta, grazie a una rete di collaboratori, a 75mila donne, contattate attraverso i gruppi femministi e di autocoscienza statunitensi o tramite i bollettini delle chiese e delle università e annunci su riviste locali e nazionali.
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Hite sapeva di muoversi da una posizione di svantaggio e di rottura da molto prima dell’inchiesta, da quando, ancora dottoranda di storia alla Columbia University, il suo professore, Jacques Barzun, si rifiutò di credere che potesse essere lei l’autrice della sua tesi di laurea. L’incredulità dell’uomo aveva a che fare con il fatto che Hite fosse una donna, una delle pochissime del dipartimento, e che fosse arrivata a New York dall’Università della Florida, considerata dal professore ben poco prestigiosa; un atteggiamento che Hite descrisse come «la mia prima esperienza di classismo». Tuttavia, consapevole della sua posizione minoritaria, Hite non ebbe paura di trovare compromessi o stratagemmi: in quegli anni, per vivere posava come modella per illustrazioni e riviste, anche erotiche. Riflettendo infatti su come potersi mantenere da sola a New York, aveva scritto sul suo diario: «Quali sono le mie alternative? Diventare una prostituta occasionale? Una segretaria? Sposarmi?», e si era risposta che «di tutte le forme di prostituzione – e ogni lavoro in questo sistema lo è – preferisco questo. Fare la modella mi dà la maggiore indipendenza con il minore coinvolgimento personale».
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Allo stesso modo, quando la casa editrice che avrebbe pubblicato il suo libro le concesse solo un piccolo anticipo, troppo basso per sostenere davvero il progetto, Hite lo compensò prendendo in prestito soldi da chiunque le fosse vicino. Quando i direttori editoriali di Knopf decisero una prima tiratura modesta, Hite e la sua cerchia di collaboratori lessero questa scelta come un tentativo intenzionale di soffocare l’impatto del libro, e in risposta decisero di tenere una conferenza stampa per pubblicizzarlo. L’intelligenza comunicativa di Hite e delle persone di cui si era circondata, della rete di femministe, attivisti e studiosi, riuscì ad aggirare la poca promozione editoriale e ne fece un libro di immediato successo. Nel giro di poco Hite diventò una celebrità, ospite regolare di tutti i talk show di punta della televisione: “l’effetto bomba” del libro derivava sia dal fascino di Hite, sia dal fatto che le donne che vi parteciparono raccontavano di sé stesse e della loro vita intima senza filtri – e tutti volevano sapere cosa dicessero.
Le donne intervistate da Hite, infatti, lamentavano la mancanza di informazioni sulla propria sessualità, si dimostravano insoddisfatte dei rapporti con i propri compagni, ma più consapevoli del proprio corpo e dei propri desideri di quanto la società concedesse loro. Le donne non hanno un “problema” col sesso, dichiarava Hite, il problema è piuttosto il sesso per come è pensato, cioè intorno al piacere maschile. Negli stessi anni, dall’altra parte dell’oceano, Carla Lonzi diceva più o meno la stessa cosa. The Hite Report (questo il titolo in inglese) rimase per mesi in cima alle classifiche, comprato, letto e discusso da milioni di americani e americane, fino a essere ribattezzato da Playboy “The Hate Report”, a dimostrazione di quanto si era dimostrato dirompente e, insieme, popolare. Hite era riuscita a rendere pubblico ciò che le donne pensavano e questo ne segnò il successo, in un’epoca in cui i rapporti tra gli uomini e le donne, tra gli individui e le loro convinzioni in fatto di sessualità, anatomia, piacere e desiderio venivano riscritti. Il suo nome, il suo volto, le sue ricerche divennero note a tutti.
Pochi anni dopo Shere Hite si impegnò a produrre un’analoga inchiesta sull’altra parte della popolazione: The Hite Report on Male Sexuality, scritto tra il 1976 e il 1981, utilizza lo stesso modello di indagine, fatto di questionari a risposte aperte. Hite intervistò settemila uomini tra i tredici e i novantasette anni, ma l’accoglienza del pubblico si dimostrò diversa, fredda, se non apertamente ostile. I talk show dell’epoca mostrano Hite circondata da uomini, tra cui l’attore e cantante David Hasselhoff, che ridacchiano imbarazzati quando parlano di sesso per farsi improvvisamente seri nell’assicurare che nessuno degli uomini che conoscono, inclusi loro stessi, prova la stessa pressione rispetto alla performance sessuale o disconnessione dalle proprie emozioni, che invece emergono nettamente dalla nuova inchiesta.
Il quadro tracciato da Hite è a tratti di pura malinconia: ci sono padri assenti, matrimoni basati più sulla ragione che sull’amore, ideali di virilità impossibili da soddisfare, difficoltà a condividere le proprie emozioni. Eppure il suo libro fu rifiutato dal dibattito pubblico e non accese discussioni sul come ripensare la mascolinità, anche se questa era la richiesta di molti degli uomini intervistati. Hite aveva teso una mano verso di loro, ma l’occasione di parlare tra maschi delle norme di genere come se ne parla di solito nell’autocoscienza femminile fu rifiutata con sdegno e persino rabbia.
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Non fu la prima né l’ultima volta che si tentò questa impresa: con le dovute proporzioni e i dovuti aggiustamenti culturali, economici e sociali, gli uomini avevano lamentato il peso degli ideali maschili già nel 1965 nei Sultani di Gabriella Parca e lo avrebbero fatto di nuovo nel 2004 in La volontà di cambiare di bell hooks, che parla di «patriarcato psicologico» che rende gli uomini «emotivamente storpi». Questo ciclo di recuperi e inabissamenti, di messe in discussione e rimozioni, danneggia tutti, che si sia pronti a parlarne o meno.
Qualche anno dopo, nel 1987, Shire Hite pubblica un’altra inchiesta sull’amore e le relazioni dal punto di vista delle donne. È in questa occasione che il backlash mediatico peggiora: i talk show, i giornalisti e i commentatori si alleano per dire che il suo è un tentativo di rendere gli uomini inutili, che le sue ricerche non sono valide a livello statistico o che i dati sono raccolti male, perché è impossibile che dopo cinque anni di matrimonio il 70 percento delle donne abbia relazioni extraconiugali – pare che, esattamente come nei Sultani, gli uomini siano convinti di essere i soli a tradire con le mogli altrui.
Hite viene attaccata continuamente, da tutte le parti. Il contesto culturale in cui opera è cambiato: sono gli anni della presidenza di Ronald Reagan, del ritorno ai valori conservatori per cui i maschi sono virili e il femminismo è una forma di odio. Addio alla voglia di rinnovamento dei decenni precedenti, ora l’America è attraversata dalle polemiche su Clarence Thomas, il giudice nero della Corte Suprema, dai timori sull’abrogazione del diritto all’aborto e dai comizi dei fondamentalisti cristiani contro la parità dei diritti per i cittadini a dispetto del sesso. Vi ricorda qualcosa?
Se ci troviamo in un panorama simile, prima che ci prenda la depressione dell’eterno ritorno, ricordiamoci che almeno gli strumenti di comprensione li abbiamo, sono una nostra eredità.
Il lavoro di Shere Hite è stato oggetto di una vera e propria persecuzione mediatica (per chi vedrà il documentario, i filmati d’epoca parlano da soli): ricevette minacce di morte, lettere e chiamate minatorie, finché non si trasferì in Europa con il marito, il pianista tedesco Friedrich Höricke. Nel 1995 Hite rinunciò anche al suo passaporto americano perché, come aveva scritto una volta nel suo diario, «ogni volta che ti fanno sentire impotente, aggressiva e stronza, vattene immediatamente e fai qualcosa che ti fa stare bene». Lasciò la sua casa di New York da un giorno all’altro, senza neppure avvisare gli amici; dietro, però, ha lasciato le sue indagini e il suo pensiero. È tempo di rifarlo nostro.
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