I vent’anni di YouTube, portati bene
Nonostante gli enormi cambiamenti nella fruizione online di video brevi e lunghi, oggi la piattaforma di Google rimane per certi versi imbattibile

Circolano diverse versioni su come nacque YouTube. Quello che è certo è che fu fondato il 14 febbraio del 2005, vent’anni fa, da tre ex dipendenti di PayPal: Steve Chen, Chad Hurley e Jawed Karim. Secondo Hurley e Chen, l’idea per il sito venne loro dopo aver avuto grandi difficoltà a caricare online dei video che avevano girato durante una cena. Karim invece raccontò che la sua frustrazione derivava dall’impossibilità di trovare online video di eventi come lo tsunami nell’oceano Indiano del 2004 o lo spettacolo dell’intervallo del Super Bowl.
In ogni caso la piattaforma ebbe un enorme successo da subito e nel corso di questi vent’anni, nonostante il web e la cultura digitale siano cambiati profondamente, a causa soprattutto della diffusione dei social media e dei dispositivi mobili, YouTube non è mai rimasto indietro. Oggi è il secondo social network per numero di utenti mensili attivi (dopo Facebook), il secondo motore di ricerca online (dopo lo stesso Google) e, nel mercato statunitense, il servizio di streaming più utilizzato via smart TV, superando Netflix.
Oggi, ogni giorno, vengono viste in media un miliardo di ore di contenuti di YouTube dalla tv, il cui pubblico è diventato più grande di quello da dispositivi mobili. Il fenomeno potrebbe essere stato favorito anche dal successo dei video lunghi nella piattaforma. Infatti, nonostante la trasformazione nella fruizione di video portata dai contenuti brevi e verticali di TikTok (a cui ha risposto con gli Shorts), YouTube è riuscito a crescere di popolarità – anche tra i più giovani – anche grazie ai suoi contenuti più lunghi, quelli dai trenta minuti in su.
Il successo televisivo di YouTube è forse l’elemento più sorprendente dell’ultimo periodo, e rappresenta il futuro stesso del servizio, come ha dichiarato il CEO dell’azienda Neal Mohan. A partire dalla fine degli anni Dieci, le cosiddette “guerre dello streaming” hanno spinto aziende tecnologiche e televisive a lanciare servizi on demand simili a Netflix (come Prime Video, Peacock e NOW) e investire ogni anno miliardi di dollari in contenuti originali. È opinione comune che Netflix abbia vinto la sfida contro i grandi network televisivi, ma anche YouTube ne è uscito molto bene, continuando a puntare sui contenuti prodotti da utenti indipendenti, più che sulla produzione di contenuti propri come hanno fatto gli altri, con grossi costi e rischi.
Negli scorsi anni, inoltre, YouTube è riuscito a rispondere anche all’ascesa di un altro medium, quello dei podcast, che pur nascendo come contenuti da ascoltare, a partire dalla pandemia si sono diffusi sempre più anche in formato video. A favorire l’ascesa dei “video-podcast” è stata la possibilità di condividerne gli estratti su Instagram e TikTok ma anche quella di pubblicarli integralmente su YouTube. Il peso culturale e politico della piattaforma è diventato evidente nell’ultima campagna elettorale statunitense, dominata dai podcast – e quindi anche da YouTube.
Ma l’arrivo e la fortuna dei podcast su YouTube non sono casuali: il sito fu infatti la prima grande piattaforma a dotarsi di un piano per la monetizzazione delle pubblicità (il Partner Program), con cui gli utenti potevano guadagnare dalle pubblicità inserite nei loro video. Secondo questi accordi, al creatore del video andava il 55% degli introiti prodotti dal contenuto, e a YouTube il resto: un patto che è tuttora alla base della cosiddetta creator economy e rimane tra i più redditizi del settore (specie se paragonato a quelli di TikTok o Instagram).
Nel documento con cui l’azienda ha celebrato i suoi primi vent’anni, si parla anche del nuovo peso imprenditoriale dei creator. Secondo Mohan «gli youtuber stanno diventando le startup di Hollywood»: il riferimento è a personaggi come Jimmy Donaldson, in arte MrBeast, lo youtuber con più iscritti sulla piattaforma, che da anni si è imposto sul web ottenendo miliardi di views. Alla base del successo di MrBeast c’è l’investimento di milioni di dollari per i video, con produzioni degne di programmi televisivi. Donaldson ha investito nella costruzione di grandi studi televisivi, per quanto con risultati non sempre soddisfacenti, e lo stesso hanno fatto altri youtuber come Alan Chikin Chow (che ha da poco costruito il suo studio vicino a Los Angeles), e Kinigra Deon, a conferma delle ambizioni televisive di YouTube.
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YouTube si impose fin da subito come servizio veloce e gratuito per l’archiviazione e la condivisione di video, che oggi è parte dell’offerta di tutti i social media. Prima di YouTube caricare un video su un sito web era un’operazione lunga e dispendiosa, che prevedeva spese aggiuntive sia per i server – dove venivano conservati i contenuti –, sia per la banda, ovvero il traffico dei dati dal server al dispositivo dell’utente.
Il primo video fu caricato nell’aprile del 2005 e mostra Karim davanti alla gabbia degli elefanti allo zoo di San Diego. La breve durata della registrazione (19 secondi) era in linea con i limiti imposti dalla tecnologia dell’epoca, a causa dei quali YouTube accettava solo file sotto i 100 megabyte e i trenta secondi di durata. Ciò nonostante, era un’opportunità nuova per l’epoca, e la crescita del sito fu sin da subito notevole e continua: il primo video a raggiungere il milione di visualizzazioni, una pubblicità della Nike con Ronaldinho, arrivò solo a novembre di quell’anno e a luglio del 2006 il sito raggiunse una media di cento milioni di visualizzazioni al giorno. Secondo i dati citati dal Daily Telegraph, nel 2007, la larghezza di banda occupata dal traffico legato a YouTube era pari a quella dell’intera rete internet nel 2000.
Il servizio attirò subito le attenzioni di Google, che nel gennaio del 2005 aveva presentato un servizio simile, Google Video, ma meno funzionale. In uno scambio di mail tra dipendenti di Google (rivelato nel corso di un procedimento giudiziario nel 2020), Jeff Huber, che all’epoca si occupava di raccolta pubblicitaria per l’azienda, notò come la startup stesse «sviluppando funzionalità interessanti molto più velocemente di noi», anche se probabilmente non aveva un’infrastruttura e un piano per monetizzare il servizio. «Quelli ce li abbiamo noi», scrisse Huber.
Inizialmente Google valutò di acquisire YouTube per 50 milioni di dollari ma, quando l’accordo fu finalizzato, nell’ottobre del 2006, finì per pagare 1,65 miliardi. La notizia dell’acquisizione lasciò molti commentatori sorpresi, a causa dei molti problemi legali di YouTube legati al diritto d’autore dei video caricati sul sito. Una delle cause principali contro YouTube arrivò l’anno successivo, quando l’azienda fu denunciata dalla multinazionale di media Viacom, che la accusò di violazione «massiccia e sfacciata» della proprietà intellettuale. Fu una lunga battaglia legale che si concluse con una vittoria di YouTube e un accordo extragiudiziale tra le due aziende.
YouTube ha avuto il suo principale periodo di crisi nel 2016: quello che viene ricordato come adpocalypse, dalla crasi tra “advertisement”, pubblicità, e “apocalypse”, apocalisse. In quel periodo YouTube si trovò a dover gestire la fuga di alcuni grossi inserzionisti, come Amazon e Coca-Cola, che non apprezzavano il fatto che il suo algoritmo potesse far finire le loro pubblicità anche su video con contenuti estremisti o controversi, che in quel periodo avevano cominciato a circolare più frequentemente sulla piattaforma.
YouTube introdusse una nuova serie di regole per identificare i contenuti più in linea con le esigenze degli inserzionisti («advertiser-friendly content»), che finì però per colpire tutti quei video che parlavano di argomenti in qualche modo sensibili, perché legati a temi politici, sociali o, per esempio, ai diritti della comunità LGBTQ+. Con le nuove regole, infatti, YouTube teneva di fatto lontani gli inserzionisti da alcuni tipi di video riducendo di molto e senza spiegazioni i guadagni di una parte dei creator, che si definirono “demonetizzati” e sollevarono grosse polemiche contro la piattaforma.
Il rapporto tra inserzionisti pubblicitari e YouTube passò per altri momenti di crisi simili: le adpocalypse furono in tutto quattro, tra il 2016 e il 2019, e furono spesso causate da scandali legati a grandi canali. Nel 2017 aziende come Adidas, HP e Deutsche Bank interruppero gli investimenti pubblicitari quando furono scoperti i video violenti e disturbanti pubblicati da Toy Freaks, un noto canale dedicato ai bambini. Questi scandali furono determinanti nel favorire una migliore gestione di questo tipo di contenuti, prima con YouTube Kids, dedicato a un pubblico under-13, che oggi propone una maggiore attenzione e selezione dei contenuti, e poi con le funzioni di controllo dell’applicazione per i genitori.