Sul caso dei giornalisti spiati illecitamente il governo ha chiarito solo in parte
Il sottosegretario Alfredo Mantovano ha escluso attività illecite da parte dei servizi segreti, ma non da parte di un corpo di polizia

Nelle ultime due settimane il governo italiano ha chiarito solo parzialmente – e tardivamente – la propria posizione sul caso dei giornalisti e degli attivisti spiati in modo illecito attraverso WhatsApp. Le persone spiate sono più o meno 90, ha fatto sapere WhatsApp stessa, 7 delle quali avevano un numero di telefono con un prefisso italiano. Il governo è centrale in questa storia perché l’attività di spionaggio è stata fatta dalla società israeliana di sistemi di spionaggio (spyware) Paragon Solutions, che come altre del settore lavora solo con clienti istituzionali e secondo quanto emerso in questi giorni in Italia ne aveva due in particolare: un’agenzia di intelligence, l’AISE (cioè il servizio segreto estero), e una forza di polizia non meglio identificata.
Entrambe dipendono più o meno direttamente dal governo: per questo molti hanno chiesto se quest’ultimo abbia avuto un ruolo nello spionaggio di attivisti e giornalisti, e se fosse a conoscenza di usi impropri dei sistemi di Paragon in possesso delle istituzioni. Le comunicazioni sul caso e i chiarimenti del governo sono stati scarsi e poco dettagliati. Soprattutto però finora hanno escluso solo che ci siano stati usi illeciti dei sistemi di Paragon da parte dell’intelligence, ma non che ci siano stati usi illeciti in assoluto.
Finora delle 7 persone spiate che usavano numeri di telefono italiani se ne conoscono due: il direttore del giornale online Fanpage, Francesco Cancellato, e l’attivista Luca Casarini, fondatore della ong Mediterranea Saving Humans impegnata nel soccorso dei migranti in mare. C’è poi un’altra persona coinvolta che ha a che fare con l’Italia, Husam El Gomati, attivista libico che vive in Svezia e che da anni si occupa di raccontare gli affari più o meno trasparenti tra il governo italiano e le autorità del suo paese d’origine.
Tutti e tre erano tra le persone che il 31 gennaio hanno ricevuto un messaggio da WhatsApp che li avvisava di aver subito un attacco hacker sul proprio telefono:
«Questo è un messaggio da parte di WhatsApp (…). A dicembre, WhatsApp ha interrotto le attività di una società di spyware che riteniamo abbia attaccato il tuo dispositivo. Le nostre indagini indicano che potresti aver ricevuto un file dannoso tramite WhatsApp e che lo spyware potrebbe aver comportato l’accesso ai tuoi dati, inclusi i messaggi salvati nel dispositivo».
Nelle ore successive erano emersi dettagli sulla vicenda soprattutto grazie al quotidiano britannico Guardian e a quello israeliano Haaretz. Lo spyware segnalato da WhatsApp era Graphite, che è appunto di proprietà di Paragon Solutions ed è un sistema di hackeraggio estremamente efficiente e avanzato, che riesce a infiltrarsi negli smartphone attraverso un semplice invio di un file (una foto, o un pdf) anche se questo non viene scaricato o aperto dall’utente che la riceve. A quel punto Graphite consente di accedere a tutti i dati del dispositivo hackerato, di farne grosso modo una copia e poi di continuare a spiarlo nel tempo. Oltre a quello italiano i clienti di Paragon sono altri governi occidentali (in tutto sono 37: quelli europei, quello statunitense e i loro alleati).
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Da quel che è stato possibile comprendere in questi giorni, la convinzione condivisa dai membri del governo e dai parlamentari che seguono la questione è che la forza di polizia italiana cliente di Paragon sia un corpo di polizia giudiziaria: quelli cioè a cui le procure possono affidare il compito di svolgere indagini (e dunque Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia penitenziaria). Ma su questo c’è ancora poca chiarezza. È certo invece che l’altro cliente sia l’AISE, per il quale però il governo ha smentito usi illeciti.
Che i servizi segreti o altre forze di polizia ricorrano a sistemi come Graphite – per lo più prodotti da società statunitensi, britanniche o israeliane – è abbastanza risaputo. In una certa misura è anche rassicurante per la popolazione, visto che queste attività di spionaggio dovrebbero essere condotte per prevenire e reprimere attività criminali, o comunque per acquisire informazioni riservate utili a garantire la sicurezza nazionale. L’Italia è stato però il primo e il più importante paese di cui sono emersi casi di uso illegittimo dello spyware, e questo ha generato le polemiche di questi giorni. Soprattutto, i due casi accertati riguardano due persone considerate invise al governo in carica, e questo ha contribuito ad alimentare sospetti e critiche.

Luca Casarini, attivista della ong Mediterranea Saving Humans, durante un evento in Vaticano, il 29 settembre 2023 (Domenico Stinellis/AP Photo)
Luca Casarini, 57enne veneziano, in passato è stato tra i principali animatori dei movimenti di protesta no global e portavoce delle “Tute Bianche”. Dal 2018 è uno dei dirigenti della ong Mediterranea Saving Humans, e per questa sua attività è stato indagato dalla procura di Agrigento nel 2019, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Negli ultimi anni anche altre procure, per lo più siciliane, hanno condotto indagini finora senza grossi esiti in cui la tesi è più o meno la stessa: che alcuni dei dirigenti delle ong attive nel Mediterraneo non si limitino a soccorrere le persone su barche alla deriva, ma che si mettano in vario modo d’accordo con gli scafisti per organizzare dei trasbordi in luoghi e in giorni convenuti, e che quindi favoriscano l’immigrazione clandestina. È parso subito verosimile, dunque, che nel tentativo di contrastare in modo deciso l’immigrazione illegale, l’intelligence italiana possa aver ritenuto giustificata un’intrusione nello smartphone di Casarini.
È però decisamente meno comprensibile – anche in una visione del tutto lasca dei limiti dell’azione dei servizi segreti – il motivo per cui possa essere stato spiato Francesco Cancellato. La legge 124 del 2007, quella che disciplina l’operato dell’intelligence, impedisce che le attività di spionaggio considerabili come reati (come appunto le intercettazioni o l’hackeraggio dei dispositivi) possano essere condotte ai danni dei giornalisti. In mancanza di chiarimenti che spieghino questa evidente anomalia, il sospetto che è stato avanzato in modo più o meno esplicito (compreso dalla stessa Fanpage) è che semmai quella contro Cancellato possa essere una sorta di ritorsione: Cancellato dirige infatti una testata che negli ultimi anni ha condotto in più occasioni inchieste su Fratelli d’Italia e sulla sua organizzazione giovanile, con giornalisti che agivano sotto falsa identità infiltrandosi nel partito e nelle sue associazioni collegate.
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Il governo è rimasto a lungo in silenzio, limitandosi a diffondere una nota stampa piuttosto scarna il 5 febbraio, nella quale escludeva che l’intelligence avesse spiato dei giornalisti e spiegava che, in seguito a un’indagine avviata dall’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN), era emerso che i numeri di telefono spiati erano 7 e che la loro identità non era stata resa nota.
Martedì 11 febbraio il direttore dell’AISE Giovanni Caravelli è stato ascoltato dal COPASIR, il comitato parlamentare che si occupa della sicurezza nazionale e dell’operato dei servizi segreti. Nelle oltre due ore di audizione, che come sempre in questi casi sono coperte da segreto, ha fornito spiegazioni che un po’ tutti i membri del comitato, anche quelli di opposizione, definiscono nel complesso sufficienti a chiarire che da parte dell’AISE non ci sia stato alcun uso improprio di Paragon.

Il sottosegretario Mantovano, i ministri Luca Ciriani e Matteo Piantedosi alla Camera per il Question time del 12 febbraio 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Mercoledì poi il governo ha risposto a due interrogazioni parlamentari poste dal PD e dal M5S alla Camera sul caso. Oltre a ribadire quel che già era stato scritto nella nota stampa del 5 febbraio, il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani ha fornito un nuovo elemento significativo: ha detto che non era stato rescisso alcun contratto tra Paragon e l’intelligence italiana, e perciò «tutti i sistemi sono stati e sono pienamente operativi contro chi attenta agli interessi e alla sicurezza della nazione».
È un chiarimento importante, che smentisce la notizia riportata invece dal Guardian e da Haaretz per cui Paragon avrebbe interrotto ogni rapporto con l’Italia come reazione alla violazione dei termini contrattuali previsti, in base ai quali Graphite non può essere utilizzato contro giornalisti e attivisti politici. Alcuni esponenti di Fratelli d’Italia spiegano informalmente che il governo si è dovuto prendere del tempo per chiarire la vicenda proprio per la necessità di accertarsi che il contratto dei servizi segreti con Paragon fosse ancora attivo (il contratto ha una durata pluriennale ma prevede cicliche comunicazioni tra azienda e governi per confermare il rapporto, secondo procedure secretate).
Al tempo stesso, però, questo chiarimento è solo parziale: ha escluso con nettezza che l’intelligence abbia fatto un uso illecito di Graphite, ma non ha parlato di altri possibili usi illeciti e dell’altro cliente di Paragon in Italia, la forza di polizia non identificata. Lo stesso vale per la eventuale rescissione dei contratti: quelli con l’intelligence sono ancora validi, ma l’altro? Su questo non c’è stata ancora chiarezza da parte del governo.
Non ha aiutato a chiarire nemmeno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il più stretto collaboratore di Giorgia Meloni, che ha la delega ai servizi segreti e mercoledì era alla Camera insieme a Ciriani. L’autorità politica più titolata a rispondere sul caso Paragon era proprio Mantovano, ma i regolamenti parlamentari prevedono che a rispondere al Question time possano essere solo i ministri. Subito dopo l’intervento di Ciriani, però, Mantovano si è fermato a rispondere alle domande dei cronisti fuori dall’aula della Camera, facendo una sorta di punto stampa un po’ irrituale.
Mantovano ha detto tra l’altro che «se c’è stato un uso improprio, che certamente non va riferito a Paragon che si limita a fornire il software, è materia di autorità giudiziaria, perché sono stati commessi dei reati. E attendiamo questo tipo di esiti». Insomma: non ha escluso che ci siano stati usi illeciti. Poi ha detto di poter garantire che gli usi illeciti non riguardano le agenzie di intelligence, su cui il governo avrebbe fatto un accertamento. Sulla possibilità di usi illeciti da parte di un corpo di polizia invece ha detto: «non appartiene a noi fare questo tipo di accertamenti», ma «compete all’autorità giudiziaria».
L’impressione è che Mantovano si sia limitato a rivendicare la correttezza dell’operato delle agenzie. Questo però esclude eventuali possibili responsabilità del governo solo fino a un certo punto. Se a usare Graphite contro giornalisti o attivisti politici fossero stati organi di polizia giudiziaria, anche questi risponderebbero più o meno direttamente a dei ministri in carica. La Polizia di Stato dipende infatti dal ministero dell’Interno, la Polizia penitenziaria da quello della Giustizia, i Carabinieri da quello della Difesa e la Guardia di Finanza da quello dell’Economia: anche se lavorano sotto indicazione dei magistrati inquirenti, questi corpi hanno comunque una dipendenza dal governo, che risponde evidentemente di loro eventuali condotte illecite.

Il direttore dell’AISE Giovanni Caravelli, a sinistra, e il presidente del COPASIR Lorenzo Guerini, l’11 febbraio 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
È probabile che nelle prossime settimane se ne sappia di più. Dopo aver ascoltato Caravelli, il COPASIR, presieduto dal deputato del PD Lorenzo Guerini, nei prossimi giorni ascolterà anche Bruno Valensise, il direttore del servizio segreto interno (AISI). Poi probabilmente ascolterà anche i dirigenti degli altri corpi di polizia potenzialmente interessati dalla faccenda. Nel frattempo andranno avanti anche altre indagini.
Dopo essere stato per due volte contattato dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che gli ha offerto supporto, il 10 febbraio scorso Casarini ha preferito sporgere denuncia alla procura generale di Palermo. Del suo cellulare è stata fatta una copia forense: cioè la copia di tutti i dati che vi erano contenuti, e questo potrà consentire di scoprire quando e – più difficilmente – da chi è stata fatta l’intrusione. Nel frattempo ha cambiato telefono visto che, come gli ha segnalato WhatsApp, «anche un ripristino alle impostazioni di fabbrica potrebbe non essere in grado di rimuovere lo spyware». Cancellato, che invece non è stato contattato da alcun organismo istituzionale, ha fatto denuncia giovedì pomeriggio rivolgendosi alla Polizia Postale di Napoli.
La stessa WhatsApp ha anche dato un altro suggerimento: «Se sei un giornalista o un membro della società civile, potresti voler contattare i ricercatori del Citizen Lab dell’Università di Toronto». Sia Casarini sia Cancellato lo hanno fatto, fornendo una copia dei dati dei loro dispositivi al laboratorio di ricerca dell’università canadese, specializzato nell’indagare le compromissioni delle libertà fondamentali connessi all’uso delle tecnologie avanzate. Entrambi attendono risposte definitive dal Citizen Lab, che ha finora solo riferito di aver fatto delle «scoperte interessanti» analizzando i dati dei loro telefoni. Anche Paragon si è messa a disposizione dei giornalisti e degli attivisti spiati per eventuali verifiche e controlli.
Il caso degli utilizzi abusivi di Graphite riscontrato da WhatsApp a dicembre è comunque piuttosto clamoroso anche perché Paragon aveva sempre rivendicato una relativa trasparenza dell’uso dei suoi software, in contrapposizione a quella che è una delle sue principali concorrenti nel settore, e cioè NSO, anche lei israeliana e nota per il suo software Pegasus, che ha funzionalità e potenzialità analoghe a Graphite. In passato erano stati evidenziati, sempre col contributo di Citizen Lab, usi illeciti di Pegasus per spiare attivisti in campo umanitario.