Le due famiglie da cui dipendono le sorti delle banche italiane
I Del Vecchio e i Caltagirone sono coinvolti nelle più importanti operazioni di questi mesi, e hanno un obiettivo in comune

Che si parli di Unicredit che vuole comprare Banco BPM, o di MPS che vuole acquisire Mediobanca, o anche dell’accordo di collaborazione tra una banca francese e la grande compagnia italiana di assicurazioni Generali, gli equilibri del sistema finanziario italiano sembrano sempre legati agli stessi due nomi: il gruppo Delfin – la holding sotto cui ricadono gli interessi della famiglia Del Vecchio, quella di EssilorLuxottica – e il gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone, uno dei più importanti e ricchi imprenditori italiani, che ha interessi non solo nel settore finanziario italiano, ma anche nelle costruzioni, nell’editoria e molto altro.
I Del Vecchio e i Caltagirone hanno partecipazioni in quasi tutte le società che in questi mesi hanno movimentato quello che i giornali chiamano il “risiko bancario”, cioè l’intreccio di acquisizioni e fusioni tra banche che spesso dipendono l’una dall’altra, tanto che sono interlocutori impossibili da ignorare per qualsiasi banca italiana voglia comprarne un’altra. Le due famiglie hanno costruito con perizia questo complicato schema di partecipazioni, in modo parallelo ma anche in sinergia, avendo un obiettivo in mente e soprattutto in comune: il controllo di fatto di Generali, uno dei cosiddetti “fiori all’occhiello” della finanza italiana. Questo controllo, molto spesso, ha portato le due famiglie a collaborare nelle più importanti operazioni societarie recenti.
È successo per esempio nelle ultime settimane, quando entrambe si sono opposte con forza all’operazione tra Generali e la società francese di investimento Natixis, che rischierebbe di ridurre la loro influenza sull’azienda e di rendere inutili tutte le manovre societarie degli ultimi anni: manovre che peraltro nelle ultime settimane hanno iniziato a dare qualche risultato, anche grazie a una certa collaborazione del governo di Giorgia Meloni e del coinvolgimento inaspettato di MPS (quella che un tempo si chiamava Monte dei Paschi di Siena), storica banca italiana disastrata che ha finito per avere un ruolo di primo piano in questa storia (ma ci torniamo).
Pur condividendo partecipazioni e interessi, le famiglie Del Vecchio e Caltagirone hanno comunque una storia industriale e finanziaria molto diversa.
Delfin è una holding, cioè una società che possiede a sua volta altre società, di proprietà dei Del Vecchio, storica famiglia industriale italiana. Il capostipite è Leonardo Del Vecchio, che all’inizio degli anni Sessanta fondò vicino a Belluno, in Veneto, l’azienda di montature per occhiali Luxottica. Negli anni la società riuscì a diventare la principale fornitrice al mondo delle montature di gran parte dei marchi, ed è oggi una grande multinazionale: dal 2017 si chiama EssilorLuxottica, dopo la fusione con una grossa azienda francese, ed è quotata in borsa a Parigi. Il successo nel settore degli occhiali ha arricchito la famiglia, il cui patrimonio è stato fatto rientrare tutto sotto Delfin, società con sede in Lussemburgo. Del Vecchio – morto nel 2022 a 87 anni – ne era il presidente, e negli ultimi decenni della sua vita con le disponibilità finanziarie della holding si era dedicato a grosse operazioni finanziarie, di “alta finanza”, come si dice.
Delfin oggi non solo vale all’incirca 46 miliardi di euro, ma grazie alle sue partecipazioni scelte oculatamente è tra gli interlocutori più potenti nelle grandi trattative societarie: oltre alla quota in EssilorLuxottica, che vale da sola più di 30 miliardi, ha anche il 10 per cento di Generali, il 10 per cento di MPS, il 20 per cento di Mediobanca, e una piccola partecipazione in Unicredit. Ha anche una cospicua partecipazione in Covivio, importante società immobiliare. Dalla morte di Del Vecchio il presidente di Delfin è il manager Francesco Milleri, che dal 2018 è anche amministratore delegato di EssilorLuxottica. Delfin è andata per il 25 per cento alla moglie di Del Vecchio, Nicoletta Zampillo, e il restante 75 per cento è stato diviso in quote uguali tra i sei figli: a causa di divergenze tra gli eredi la successione non si è ancora del tutto completata.

Francesco Milleri, a sinistra, e Leonardo Del Vecchio, a destra, nel 2018 (ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)
Anche la holding Caltagirone è un affare familiare. È stata fondata da Francesco Caltagirone, 81 anni, un imprenditore edile che portò avanti con successo l’attività di famiglia. Si occupava di edilizia nella sua città di origine, Roma, dove tra gli anni Sessanta e Settanta costruì tantissimo, tanto che in una rara intervista, data nel 2016 al Sole 24 Ore per i cinquant’anni delle sue attività, disse: «oggi un romano su tredici vive in una casa costruita dal nostro gruppo».
Fece crescere l’azienda, portandola ad acquisire negli anni Ottanta il grande gruppo delle costruzioni Vianini, e qualche anno dopo la Cementir, storico cementificio pubblico che rientrò nella grande tornata di privatizzazioni dei primi anni Novanta. Poco dopo Caltagirone comprò diversi giornali – tra cui il quotidiano romano il Messaggero, quello napoletano il Mattino e quello veneziano il Gazzettino – che poi raggruppò sotto la Caltagirone Editore, quotata alla borsa di Milano dal 2000: sui suoi giornali sono talvolta evidenti conflitti di interessi con gli affari di famiglia. È stato anche azionista del gruppo editoriale RCS, che controlla il Corriere della Sera.
Oggi ha una partecipazione in MPS, ed è azionista anche di Mediobanca e Generali. Francesco Gaetano Caltagirone è uno degli uomini più ricchi d’Italia, ed è considerato tra gli imprenditori più potenti del paese. I figli – Francesco, Alessandro e Azzurra – fanno parte dei consigli di amministrazione delle diverse società del gruppo.

Francesco Gaetano Caltagirone con Matteo Salvini, a giugno del 2024 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Caltagirone e Delfin da tempo sono legate da partecipazioni comuni in diverse società italiane: come ha calcolato il Sole 24 Ore, hanno complessivamente più di 14 miliardi di euro in società comuni o collegate. Sono accomunate dall’essere imprese familiari, ma anche dal fatto che entrambe sono passate dall’ambiente dell’industria a quello degli affari e della finanza. Hanno però una dimensione molto diversa: Delfin è assai più grande della Caltagirone, anche grazie al suo orientamento più internazionale; Caltagirone è un imprenditore più legato al territorio italiano e alla politica romana, anche in forza del suo business principale, cioè l’immobiliare.
In parte proprio il settore immobiliare è stato il primo punto di contatto per i due gruppi: gli affari in quest’ambito – che per Caltagirone rappresentano l’essenza del gruppo, mentre per Delfin solo una parte, per mezzo della partecipata Covivio – li hanno fatti arrivare entrambi ad acquisire una posizione importante tra i soci di Generali e ad ambire al suo controllo.
Le compagnie assicurative hanno di solito un enorme patrimonio immobiliare, la cui rendita fa parte proprio del loro modello di business, cioè del modo in cui fanno affari e accumulano ricchezza: Generali ne gestisce uno da oltre 30 miliardi di euro. Le assicurazioni, proprio perché si occupano di altro, hanno una gestione tendenzialmente molto prudente e cautelativa dei loro immobili, una gestione che appare solitamente infruttuosa a chi invece di immobili si occupa per mestiere. Per questo motivo le compagnie assicurative si trovano a essere spesso oggetto di interesse per gli immobiliaristi (che ambiscono a gestire un patrimonio così grande, ma seguendo le loro intuizioni e competenze).
Generali ha poi l’ulteriore punto di forza di essere la società assicurativa più importante in Italia e la terza in Europa. È considerata storicamente tra le società più prestigiose della finanza italiana, il cui valore delle azioni è più che raddoppiato negli ultimi due anni e mezzo, con un andamento molto migliore delle due principali concorrenti europee. In breve, è anche un investimento sicuro, stabile, e promettente.

Il grattacielo di Generali a Milano, in zona CityLife (LaPresse)
Dagli anni Duemila le due famiglie iniziarono a costruirsi una posizione stabile in Generali. Insieme sono arrivate ad avere circa il 17 per cento dell’azienda, tramite il 9,9 per cento di Delfin, partecipazione che vale circa 4,5 miliardi di euro, e il 7 di Caltagirone, poco più di 3 miliardi. Insieme superano la partecipazione del primo azionista di Generali, cioè Mediobanca che ne detiene il 13 per cento: proprio Mediobanca è l’altra protagonista di questo incrocio di interessi.
Sebbene siano due soci distinti, le quote di Caltagirone e Delfin sono spesso considerate insieme: i due soci hanno interessi coincidenti e sono legati da tempo da una visione comune della società, tanto che avevano stretto anche un cosiddetto patto di sindacato, cioè un accordo per votare in modo concordato su certe questioni. Negli ultimi anni si sono sempre mossi insieme in opposizione al resto dei soci e alla dirigenza, ed è da tempo che cercano di ostacolare Philippe Donnet, l’amministratore delegato di Generali. Caltagirone è stato oltretutto membro del consiglio di amministrazione dal 2007 e vicepresidente dal 2010: si dimise da entrambe le cariche nel 2022 in forte disaccordo con Donnet.
L’ultimo motivo di discordia è l’accordo di collaborazione tra la divisione investimenti di Generali e la società francese Natixis: i due soci la criticano per dubbi sostanziali sulla sua economicità – dubbi per la verità condivisi da molti osservatori – ma soprattutto perché l’ingresso di un grande socio straniero ridurrebbe la loro influenza complessiva sull’azienda. Dall’annuncio dell’operazione i giornali del gruppo Caltagirone hanno pubblicato articoli critici e analisi catastrofiche sul destino degli investimenti dei risparmiatori italiani, senza però dichiarare mai il conflitto di interessi.
La loro opposizione finora non ha avuto risultati concreti su Donnet, che è riuscito a rimanere a capo dell’azienda grazie ai buoni risultati economici raggiunti negli ultimi anni, ottenendo il favore del resto dei soci e soprattutto di Mediobanca.

La sede di Mediobanca in piazzetta Cuccia, in centro a Milano (MASSIMO VIEGI / LAPRESSE)
Mediobanca ha una stabile partecipazione in Generali da tempo: è del resto una banca storica, al centro di gran parte del capitalismo italiano e delle grandi e controverse operazioni societarie del Novecento, da cui sono dipesi molti interessi della classe imprenditoriale e politica. Non è una classica banca commerciale, che apre conti correnti o concede mutui. È principalmente una banca di investimento, specializzata cioè nella gestione dei patrimoni e nelle grandi operazioni societarie tra aziende. Come Generali nel comparto assicurativo, Mediobanca è considerata tra le banche più prestigiose in Italia, sia per il ruolo “politico” che ha avuto negli anni che per il suo valore economico.
Per la sua centralità nell’economia italiana è stata dunque un punto di arrivo inevitabile per gli interessi di Delfin e Caltagirone. Nel 2019 Delfin iniziò a comprarne azioni, fino a detenerne il 20 per cento: nel 2020 tentò anche di fare una cosiddetta “scalata”, cioè di comprarla o di ottenere una quota maggioritaria. Non ci riuscì, perché fu di fatto bloccata dalla Banca Centrale Europea, la quale – semplificando molto – impose alcuni requisiti tecnici che Delfin non poteva soddisfare. Caltagirone entrò tra i soci nel 2021, e ora ne detiene il 5 per cento. Insieme arrivano dunque al 25, e fin da subito fu chiaro che il loro obiettivo non era tanto il controllo di Mediobanca, quanto quello di Generali: come detto, Mediobanca ne ha il 13 per cento, che unito al 17 di Delfin e Caltagirone permetterebbe di indirizzare concretamente la gestione di Generali.
Anche in questo caso però non sono riusciti a influenzare più di tanto la gestione di Mediobanca, e come conseguenza non sono riusciti neppure ad arrivare al controllo sostanziale di Generali tramite la partecipazione indiretta.

Piazza Salimbeni, a Siena, dove si trova la sede centrale di MPS (Riccardo Sanesi/LaPresse)
Tutto questo negli scorsi mesi ha avuto però una svolta potenzialmente decisiva con l’ingresso di un altro soggetto in questa storia: MPS, storica banca italiana che, reduce da un dissesto durato più di dieci anni, dal 2023 è tornata a essere profittevole dopo un dispendioso e travagliato intervento di salvataggio da parte dello Stato, che ha finito per diventarne primo azionista nel 2017.
Da allora, su continua sollecitazione delle autorità europee, i governi che si sono succeduti hanno cercato di trovare un compratore, senza riuscirci. Il governo attuale ha iniziato da tempo una graduale dismissione della sua partecipazione, vendendo azioni in varie tranche a diversi azionisti, dunque senza impegnarsi nella ricerca (più complicata) di un unico acquirente: tra i soggetti che le hanno comprate ci sono proprio i gruppi Delfin e Caltagirone, entrati nel capitale a novembre.
Il primo azionista di MPS è ancora il ministero dell’Economia, con l’11,7 per cento delle azioni. Delfin è il secondo, con una quota del 9,8 per cento aumentata proprio di recente, seguito da Caltagirone con il 5,03 per cento (ottenuto a novembre). La lettura condivisa da osservatori e media sul loro recente coinvolgimento da parte del governo fu che Delfin e Caltagirone avrebbero garantito stabilità e presenza italiana nella delicata fase di uscita dello Stato dall’azionariato di MPS: sui giornali sono stati definiti il «nocciolo duro» che avrebbe assicurato l’italianità della storica banca senese sul mercato. Il governo poi punta anche a fare in modo che intorno a MPS si crei quello che viene chiamato il “terzo polo” bancario, cioè una terza grande banca in grado di intaccare l’attuale duopolio del mercato, composto da Intesa Sanpaolo e Unicredit, le prime due banche italiane per dimensione e valore.
Due mesi e mezzo dopo, cioè a fine gennaio, MPS ha annunciato un’offerta pubblica di scambio – cioè una delle modalità con cui si compra una banca – per acquisire Mediobanca. Si è reso così più evidente il motivo del coinvolgimento da parte del governo di Delfin e Caltagirone nell’azionariato di MPS, che più probabilmente ha poco a che vedere con ragioni economiche, ma risponde a logiche politiche e di potere: da una parte il governo riuscirebbe a creare l’auspicato terzo polo bancario, riducendo allo stesso tempo il suo coinvolgimento nella gestione di MPS, e Delfin e Caltagirone potrebbero esercitare finalmente un controllo maggiore in Mediobanca e infine su Generali.
Se l’operazione tra MPS e Mediobanca andasse a buon fine, con gli attuali assetti Delfin diventerebbe primo azionista della nuova banca, con circa il 16 per cento, Caltagirone il secondo, con l’8, e il governo il terzo, con il 5: complessivamente si troverebbero cioè al 30 per cento della banca che possiede un pezzo di Generali.
Non è detto che l’operazione riuscirà, e per ora le prospettive non sono buone. Dall’annuncio dell’offerta le azioni di MPS hanno perso oltre l’8 per cento del loro valore, segno che non c’è un grande entusiasmo degli investitori per l’operazione e che è probabile che gli azionisti di Mediobanca non saranno favorevoli ad aderire all’offerta. Dal punto di vista industriale l’operazione ha poi suscitato una certa perplessità, perché unirebbe due banche molto diverse, una commerciale, MPS, e una di investimento, Mediobanca: fonderebbe cioè due banche complementari, ma con la possibilità che si perda la specializzazione di entrambe. Lo stesso consiglio di amministrazione di Mediobanca ha definito l’operazione fin da subito come ostile, cioè non concordata. In un comunicato stampa ha aggiunto che l’unione di per sé ha poco senso economico, e che è motivata esclusivamente dagli interessi dei Del Vecchio e di Caltagirone.
Per arrivare a questo risultato le due famiglie hanno costruito nel tempo una rete di partecipazioni in altre importanti società, e oggi hanno un ruolo anche nel resto del “risiko bancario” cosiddetto. Un esempio è l’offerta di Unicredit per comprare Banco BPM: Delfin e Caltagirone hanno un’influenza anche in questo caso, avendo rispettivamente una piccola quota in Unicredit e una piccola quota in Banco BPM.
Il governo peraltro criticò apertamente e in modo strumentale l’offerta di Unicredit: allora considerava Banco BPM una possibile acquirente per MPS e candidata per un “terzo polo”, operazione che sarebbe saltata sul nascere se l’offerta di Unicredit fosse andata a buon fine. Infine, per completare un intreccio già complicato, Caltagirone è anche azionista di Anima, importante società di investimento italiana che Banco BPM sta cercando di comprare. Banco BPM e Anima hanno entrambe una piccola quota di MPS.
– Leggi anche: Che cos’è questo “risiko bancario”