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  • Giovedì 13 febbraio 2025

Come ci si veste a una sfilata

Raccontato da chi ci va: giornalisti, direttrici di riviste, fotografi e influencer

di Arianna Cavallo

Il pubblico alla sfilata di Dior Homme, Parigi, 24 gennaio 2025
(Lyvans Boolaky/Getty Images)
Il pubblico alla sfilata di Dior Homme, Parigi, 24 gennaio 2025 (Lyvans Boolaky/Getty Images)

«Vuoi vestirti come se stessi andando a una sfilata nel 2025? Vestiti come quando porti fuori il cane: mettiti un cappotto spiovente un po’ largo, un maglione nero e delle sneaker New Balance», consigliava a gennaio il critico di abbigliamento maschile del New York Times, Jacob Gallagher, dopo aver partecipato alle sfilate a Parigi. Intendeva dire che oggi va di moda una specie di “normcore di lusso”, un abbigliamento anonimo ma costoso, che è anche lo stile essenziale indossato alle sfilate da molti giornalisti.

Probabilmente se pensate al pubblico di una sfilata vi verranno in mente celebrità e influencer, pochi giornalisti famosi in abiti floreali o completi stravaganti, e personaggi appariscenti assembrati all’ingresso che provano a farsi notare e fotografare. Non è stato sempre così: fino a una ventina di anni fa le sfilate non erano trasmesse sui social ed erano riservate agli addetti ai lavori. Poi sono arrivati Internet e i primi blogger di moda, che hanno radicalmente cambiato la natura delle sfilate e anche il modo di vestire di chi ci va.

«Iniziai ad andare alle fashion week nel 2005» racconta al Post Scott Schuman, che in quell’anno aprì The Sartorialist, uno dei primi fashion blog statunitensi, e che ora è tra i più famosi street photographer di moda. Allora c’erano solo i buyer (chi compra i vestiti per venderli nei negozi), i giornalisti e gli stylist (chi decide i vestiti dei servizi di moda) che lavoravano o che volevano lavorare nelle riviste e che, dice Schuman, «si vestivano per mostrare il loro stile e quel che sapevano fare: era quello ad attirarmi».

Schuman fotografava le persone più interessanti alle sfilate e contribuì, insieme ad altri fotografi di strada come Tommy Ton, a lanciare più di una carriera nel mondo della moda. Lo racconta anche Angelo Flaccavento, forse il critico di moda italiano più stimato al mondo: «essere notato mi ha portato del lavoro giornalistico: non è che se mi vestivo bene sapevo scrivere bene, ma qualcuno si è avvicinato perché ha visto come mi vestivo».

Una foto Angelo Flaccavento realizzata da Scott Schuman nel 2015

Angelo Flaccavento fotografato da Scott Schuman nel 2015 (The Sartorialist)

Nel frattempo, dagli anni Dieci, le sfilate sono diventate uno spettacolo per tutti trasmesso su Internet, e le aziende le utilizzano per far parlare di sé e farsi conoscere. Per questo invitano celebrità o influencer proponendo loro di vestire abiti e accessori su cui puntano, che poi vengono fotografati e pubblicati sui social nella speranza di renderli desiderabili e riconoscibili al pubblico. Per esempio nel marzo del 2024 tutte le celebrità in prima fila alla sfilata del marchio francese Chloé – tra cui l’attrice Sienna Miller, la modella Georgia May Jagger e la modella Pat Cleveland – indossavano proprio per questo lo stesso modello di zeppa: l’operazione riuscì, di quella scarpa si parlò tantissimo.

Una foto di Sienna Miller, Kiernan Shipka, Georgia May Jagger, Jerry Hall, Pat Cleveland e Anna Cleveland con il stesso modello di zeppa alla prima sfilata di Chloé disegnata da Chemena Kamali, che ringrazia il pubblico, Parigi, 29 febbraio 2024

Sienna Miller, Kiernan Shipka, Georgia May Jagger, Jerry Hall, Pat Cleveland e Anna Cleveland con lo stesso modello di zeppa alla prima sfilata di Chloé disegnata da Chemena Kamali, che ringrazia il pubblico, Parigi, 29 febbraio 2024 (Stephane Cardinale – Corbis/Corbis via Getty Images)

La nota influencer Veronica Ferraro, che ha 1,4 milioni di follower su Instagram, viene invitata spesso alle sfilate dalle aziende, che le propongono di indossare qualcosa. Ha iniziato quindici anni fa e ora partecipa a circa 6-7 sfilate a stagione. Spiega che l’invito arriva sempre da aziende con cui ha già lavorato e che l’hanno vestita in altre occasioni e che è accompagnato dall’invio del lookbook (un catalogo che raccoglie i look di una collezione) da cui può scegliere cosa vorrebbe mettere, «anche se non sempre poi è disponibile», spiega.

Ovviamente non indossa un abito che sarà presentato durante la sfilata ma uno che è già stato presentato (le collezioni sfilano circa sei mesi prima di arrivare nei negozi): quindi alle prossime sfilate di Milano, che si terranno a fine febbraio, indosserà qualcosa della stagione in corso oppure della collezione primavera/estate 2025, presentata a settembre. Le taglie sono di campionario, cioè quelle indossate dalle modelle, la 38 o la 40, ed «entrarci sarà una bella sfida quest’anno che sono incinta», dice. Qualche giorno prima della sfilata si va a fare il fitting (cioè a provare l’abito e fare eventuali ritocchi) negli showroom dei marchi, «anche se a volte il vestito arriva a casa e si prova lì».

Ferraro condivide le sue foto alla sfilata sui social segnalandole con l’hashtag #invitedby, oppure con #suppliedby se veste il look ma non alla sfilata; non è mai pagata per indossarlo, in quel caso lo indicherebbe con l’hastahg #adv (abbreviazione di advertising). Poi restituisce il vestito, che è sempre dato solo in prestito: «se c’è qualcosa di rotto lo segnalo prima, se lo rovino io lo mando in lavanderia prima di restituirlo».

Ferraro conferma l’idea un po’ rocambolesca che si ha delle Settimane della moda (quando numerosi marchi presentano le loro collezioni). Se ha una sfilata dietro l’altra si deve cambiare nel furgoncino che la trasporta, e una volta a New York ruppe la cerniera dell’abito che doveva indossare: glielo riparò in auto con ago e filo una responsabile del marchio, poi le diede «un cappotto da mettere sopra perché si vedeva che l’abito era mezzo aperto».

Ora i marchi invitano nel pubblico anche i modelli perché indossano tutto quello che gli si propone, non hanno un pubblico a cui rendere conto e stanno bene con tutto; però, dice Schuman, «così mi sembra di fotografare una campagna pubblicitaria».

«Capisci chi è li per lavoro dal modo in cui è vestito: noi della stampa siamo vestiti in maniera molto comoda», dice Francesco Martino, che scrive di moda maschile per GQ. Lui cerca di farlo in modo funzionale «ovviamente a partire dalla mia uniforme: silhouette oversized e colori scuri, se non total black», soprattutto perché in una stessa giornata può andare a svariate sfilate, presentazioni e magari a una cena senza ripassare da casa.

Anche Flaccavento si veste comodo perché passa le giornate in auto, alle sfilate e poi a scrivere, ma questo non significa essere sciatto: «non mi piace chi lavora nella moda ma fa finta di non curarsi e sta in jeans e felpa». Soprattutto vuole dare un’immagine di «austerità» vestendo qualcosa «tra l’uniforme e lo scudo per essere impenetrabile» e non far capire subito cosa pensa della collezione.

Per questo non indossa mai il marchio della sfilata che sta andando a vedere, nemmeno se si tratta del giapponese Issey Miyake, di cui è fatto quasi tutto il suo guardaroba. È una scelta che si fa anche per ragioni pratiche, per non doversi cambiare in continuazione, dice Martino. Lo conferma al Post anche Vanessa Friedman, giornalista di moda del New York Times: «mi vesto in modo semplice per fare il mio lavoro nel modo più efficace e per spostarmi in modo indipendente». Friedman spiega che i giornalisti del New York Times non devono seguire delle regole su come vestirsi a una sfilata a patto che «indossiamo i nostri vestiti e non accettiamo regali, come per esempio una borsa».

Capita che le aziende inviino regali ai giornalisti e che alcuni di loro li indossino per gentilezza o per mostrare la propria stima: lo si faceva soprattutto negli anni Ottanta o Novanta. Ora però sono soprattutto gli influencer e gli ospiti pagati alle sfilate a fare pubblicità ai marchi, vestendoli. La stampa è coinvolta raramente, come quando nel settembre del 2021 l’italiana Marni vestì oltre a modelle e modelli anche tutti i 500 ospiti della sfilata.

Ci sono anche giornalisti molto in vista, a partire dalla direttrice di Vogue America Anna Wintour, che scelgono apposta abiti di stilisti emergenti per promuoverli. Lo stesso fa Francesca Ragazzi, direttrice di Vogue Italia: «cerco di farmi ambasciatrice dei brand italiani per rappresentare la creatività e l’eterogeneità delle idee del nostro paese». Mescola spesso i «marchi più noti con qualche giovane emergente», le piace indossare un vestito elegante con un capospalla «più rilassato» e alle sneaker preferisce il tacco basso (i cosiddetti kitten heels, alti circa 3,5-5 centimetri): «è questione di abitudine, lo porto da sempre e non mi spaventa trascorrerci anche intere giornate».

Una foto della direttrice di Vogue Italia, Francesca Ragazzi, alla sfilata haute couture di Valentino a Parigi, 29 gennaio 2025.(Jacopo M. Raule/Getty Images for Valentino)

La direttrice di Vogue Italia, Francesca Ragazzi, alla sfilata haute couture di Valentino a Parigi, 29 gennaio 2025. (Jacopo M. Raule/Getty Images for Valentino)

Schuman – che per una sfilata si veste «come un qualsiasi giorno in cui vado a fotografare, al massimo con delle sneaker più interessanti» – preferisce promuoverli ritraendo le persone cool che indossano i loro abiti, anche se alle sfilate se ne trovano sempre meno perché, dice, sono diventate soprattutto dei grandi eventi: «non dico che ora sia peggio ma mi manca andare alle sfilate e incontrare altre persone che amano la moda e parlano di moda: adesso alle sfilate si parla d’altro».

Tag: sfilate