Tutti i modi in cui l’Italia ha protetto la Libia
Sono ormai anni che le autorità italiane finanziano, legittimano e proteggono miliziani e funzionari: il caso Almasri insomma è solo l'ultimo in ordine di tempo

Il caso del rilascio immediato di Njeem Osama Elmasry, il capo della polizia giudiziaria libica noto anche come Almasri, arrestato il 19 gennaio a Torino su mandato della Corte penale internazionale e poi subito riportato in Libia dal governo italiano, è soltanto l’ultimo di una serie di operazioni politiche e diplomatiche con cui l’Italia ha legittimato e protetto i vari leader che hanno governato la Libia dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi, nel 2011. Sono state operazioni spesso al limite del diritto internazionale e assai controverse, perché negli ultimi 15 anni la Libia è stata guidata di fatto da milizie armate implicate in potenziali crimini di guerra, vari traffici illeciti, violazioni sistematiche dei diritti umani, e non da governi legittimi e riconosciuti in tutto il territorio nazionale.
Dalla caduta di Gheddafi i vari governi italiani che si sono succeduti hanno avuto rapporti con queste milizie essenzialmente per due ragioni: mantenere un canale preferenziale di accesso ai pozzi di petrolio e ai giacimenti di gas naturale della Libia, controllati di fatto dalle milizie, e affidare loro il compito di bloccare con la forza i migranti che ogni anno cercano di arrivare via mare in Italia.
Mantenere un rapporto con queste milizie ha significato soprattutto fornire loro soldi, legittimazione politica e protezione da eventuali inchieste giudiziarie internazionali: tutte «cortesie», come le definisce per esempio Luca Gambardella del Foglio, uno dei giornalisti che segue con più assiduità l’evoluzione dei rapporti fra Italia e Libia.
Una prima forma di «cortesia» ha riguardato lo stanziamento di fondi dell’Unione Europea per la Libia, molti dei quali approvati su pressione di diplomatici e funzionari italiani nelle sedi istituzionali europee. Dal 2015 al 2022 per esempio il cosiddetto Fondo fiduciario di emergenza dell’Unione Europea per l’Africa erogò 465 milioni di euro in progetti per la Libia, moltissimi dei quali riguardanti il contrasto alla migrazione.
È difficile capire che fine abbiano fatto questi soldi, una volta arrivati in Libia.
Un’inchiesta di Lorenzo Bagnoli e Fabio Papetti pubblicata nel 2022 su IrpiMedia riuscì a tracciare circa 20 milioni, meno della metà, della voce di spesa “Support to Integrated Border and Migration Management in Libya”, relativa al controllo dei confini e alla gestione dei migranti. «Le principali voci di spesa sono 8,3 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,4 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container», scrissero Bagnoli e Papetti.
In un rapporto del 2024 la Corte dei conti europea evidenziò il rischio che le attrezzature comprate coi soldi europei avrebbero potuto «essere utilizzate da soggetti diversi dai beneficiari previsti», e che le opache procedure di subappalto con cui erano stati gestiti i soldi potrebbero «aver potenzialmente avvantaggiato le organizzazioni criminali», cioè altre branche delle stesse milizie.
È del tutto possibile, poi, che la parte non tracciabile di questi fondi fosse semplicemente stata intascata dalle milizie per finanziare le proprie attività.

La cosiddetta Guardia costiera libica sbarca un gruppo di migranti a Khoms, 1 ottobre 2019 (AP Photo/Hazem Ahmed)
Il finanziamento delle milizie inquadrate nella cosiddetta Guardia costiera libica ha avuto implicazioni anche internazionali. Fra 2017 e 2018 prima il governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni poi quello sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte si impegnarono molto affinché l’Organizzazione marittima internazionale (IMO), l’organo dell’ONU che governa la navigazione marittima internazionale, riconoscesse al governo libico sostenuto da gran parte della comunità internazionale, cioè quello di Tripoli, la competenza su una zona SAR.
Le zone SAR sono tratti di mare in cui gli stati costieri competenti si impegnano a mantenere attivo un servizio di ricerca e salvataggio (in inglese search and rescue, abbreviato in SAR). Gestire una zona SAR riconosciuta a livello internazionale è un passaggio simbolicamente importante, per uno stato. Al contempo è molto impegnativo anche per gli stati stabili e con una Guardia costiera inquadrata nelle forze armate regolari. Figurarsi per uno stato fallito e in cui a fare le veci della Guardia costiera sono le milizie armate che governano il suo territorio.
– Leggi anche: I soccorsi dei migranti in mare, spiegati bene
Durante il percorso di riconoscimento della zona SAR della Libia fu l’IMO stessa, attraverso un suo portavoce, a spiegare che l’Italia e la Commissione Europea stavano «sostenendo degli sforzi di capacity-building per stabilire dei servizi SAR in Libia». Nei primi mesi di attività inoltre il centro di comando della zona SAR libica fu posizionato in una nave della marina militare italiana ormeggiata nel porto di Tripoli. Senza l’appoggio diplomatico e logistico dell’Italia, insomma, la Libia non avrebbe mai ottenuto una zona SAR e il riconoscimento internazionale collegato.
Sia la fornitura delle attrezzature sia l’istituzione della SAR libica peraltro avvennero grazie a un memorandum fra Italia e Libia stipulato nel 2017 fra il governo di Gentiloni e quello di Tripoli, allora guidato da Fayez al Serraj. L’accordo si rinnova automaticamente ogni tre anni e nessuno dei governi italiani che hanno succeduto il primo governo Conte ha ritenuto di chiedere delle modifiche: né il secondo governo Conte (sostenuto dal PD e dal M5S), né il governo di Mario Draghi né quello attuale guidato da Giorgia Meloni.
Sappiamo ormai da anni che le milizie che compongono la cosiddetta Guardia costiera libica sono in combutta con i trafficanti di esseri umani e che le intercettazioni al largo delle coste libiche avvengono con metodi violenti e che mettono a rischio la vita dei migranti. Le violenze della cosiddetta Guardia costiera libica sono note da tempo grazie a inchieste giornalistiche, testimonianze di ong che soccorrono i migranti in mare e rapporti di organizzazioni internazionali. Nessun governo italiano ha mai condannato apertamente l’operato della cosiddetta Guardia costiera libica.

Fayez al Serraj (a sinistra) durante un incontro con Paolo Gentiloni, nel 2017 (ANSA / ITALIAN STATE POLICE PRESS OFFICE)
Il memorandum, inoltre, prevedeva di favorire la nascita di «uno Stato civile e democratico» in Libia. Nel 2018 l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte provò per mesi a organizzare una conferenza sul futuro della Libia. Alla fine fu organizzata a Palermo a novembre. In città arrivarono sia al Serraj sia il capo del governo che controllava e controlla tuttora l’est della Libia, il generale Khalifa Haftar, che si fecero fotografare mentre si stringevano la mano, insieme allo stesso Conte. La conferenza però non ebbe nessuna conseguenza concreta.

Giuseppe Conte stringe la mano al generale Khalifa Haftar e al primo ministro libico del governo di accordo nazionale Fayez al Serraj. Palermo, 13 novembre 2018 (EPA/CHIGI PALACE/FILIPPO ATTILI)
Haftar poi, nonostante la sua condizione di leader ribelle rispetto allo stato libico riconosciuto da gran parte della comunità internazionale, si è incontrato spesso coi presidenti del Consiglio italiano, e lo stesso hanno fatto i funzionari e miliziani vicini a lui: anche dalle coste orientali della Libia, cioè quelle controllate da Haftar, partono ogni anno migliaia di migranti, e in diversi momenti in cui il flusso di migranti da Bengasi, Tobruk, Bardia e altri porti dell’est è aumentato ci si è chiesti se fosse in corso una specie di trattativa fra Haftar e il governo italiano.
Non è chiaro se Haftar abbia mai ottenuto qualcosa di tangibile dal governo italiano, se non una certa legittimazione politica.

Meloni durante un incontro con Haftar a Bengasi, 7 maggio 2024 (EPA/FILIPPO ATTILI)
I buoni rapporti del governo italiano con Haftar si sono estesi anche a suo figlio Saddam Haftar, capo della milizia Tariq Ben Zayed nonché uno degli uomini più potenti della Libia orientale assieme al padre. Nell’estate del 2024 Saddam Haftar venne brevemente in Italia e durante un controllo fu trattenuto per circa un’ora all’aeroporto di Napoli: poi però fu rilasciato e tornò in Libia senza problemi.
Nel 2022 Amnesty International pubblicò un rapporto che accusava la sua milizia di avere commesso per anni «crimini di guerra e altri crimini di diritto internazionale contro migliaia di presunti o reali critici e oppositori».
Secondo informazioni raccolte dal Foglio per evitare incidenti simili a fine gennaio il capo del servizio segreto italiano per l’estero (AISE), Giovanni Caravelli, sarebbe andato a Tripoli per informare i funzionari e miliziani libici per cui la Corte penale internazionale ha emanato un mandato d’arresto. In teoria sono informazioni riservate ai paesi membri della Corte, quindi inaccessibili per la Libia.
Martedì durante un’audizione al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) Caravelli ha confermato di essere stato in Libia a fine gennaio ma ha smentito di avere diffuso informazioni sui funzionari e miliziani libici ricercati dalla Corte penale internazionale.