Quanto pesa un disco d’oro
«Dal 1955 a oggi la discografia non ha mai smesso di premiarsi con dischi di vari metalli preziosi, ma con Internet tutto è cambiato. Un artista che ne ha vinto uno è molto popolare, ma pochi sanno quanto popolare. Si potrebbe perfino affermare che nessuno al mondo lo sa di preciso»

Da appassionato di lungo corso del Festival di Sanremo non posso che gioire del fatto che negli ultimi anni la selezione di artisti si avvicini al novero di artisti e generi che in Italia si ascoltano anche al di fuori della cosiddetta kermesse. Certo, questo ha comportato un cambiamento nell’identità del festival: a molti artisti, la cui musica viene magari riprodotta da milioni di smartphone e trasmessa da centinaia di stazioni radiofoniche, il pubblico televisivo non è così abituato. Forse è anche per questo se sempre più spesso, al momento delle presentazioni, chi conduce elenca i risultati che quell’artista ha raggiunto in termini di vendite: questo cantante ha vinto «quattro dischi d’oro» o «due dischi di platino», l’ultimo singolo è stato ascoltato «tot milioni di volte su Spotify», il tour estivo di questa band è andato tutto esaurito. Pur facendo parte di un pubblico non televisivo, quando sento snocciolare questi dati provo una bizzarra sensazione di ubriachezza. Fa strano sentire nomi che conosciamo per due featuring nelle canzoni di qualcun altro vantare decine di dischi d’oro.
Ci chiediamo molto di rado cosa significhino questi numeri in termini di economia reale, quale sia il loro vero significato. Nel contesto del Festival, in fondo, è un peccato veniale: i dati vengono usati per convincere il pubblico che l’artista in questione è famoso e vale la pena ascoltarlo. È molto più importante notare che il presupposto è che i concetti utilizzati per raggiungere questo scopo, basilari nei conteggi della musica, siano alla portata di tutti. Un artista che ha vinto un disco d’oro è molto popolare, ma pochi sanno davvero quanto popolare. Si potrebbe perfino affermare che nessuno al mondo lo sappia di preciso.
Quella del ‘disco d’oro’ è una storia lunga più di ottant’anni. Nel 1941 Glenn Miller and His Orchestra pubblicarono un singolo jazz intitolato Chattanooga Choo Choo, che rimase in testa alla classifica Billboard per nove settimane di fila e arrivò a vendere (per l’epoca una cifra mostruosa) un milione e duecentomila copie. Il brano aveva una valenza particolare per la società statunitense, che all’epoca era da poco entrata nella Seconda guerra mondiale: Chattanooga Choo Choo (che oggi è un vero e proprio standard) era diventata una celebrazione della leggerezza, «un piccolo momento di gioia in un’epoca oscura».
Per celebrare quel successo RCA Victor, l’etichetta che l’aveva fatto uscire attraverso una sussidiaria, conferì a Miller un premio inventato: un disco dipinto d’oro. La versione contemporanea del ‘gold record’ nacque invece alla fine degli anni Cinquanta, nel momento in cui la neonata RIAA (Recording Industry Association of America) introdusse un premio per i dischi (singoli ed LP) che arrivavano a valere un milione di dollari in vendite al dettaglio. Passarono quasi vent’anni e al disco d’oro venne affiancato il disco di platino. A quei tempi la certificazione non era più sui fatturati, ma sulle unità vendute: 500mila copie di un album o un milione di copie di un singolo valevano un oro, il doppio per un platino. A un certo punto – era la fine degli anni Novanta – arrivò anche il disco di diamante, per i dischi che vendevano più di dieci milioni di copie.
Nei decenni successivi, come si ama raccontare tra analisti di settore, il mercato discografico è andato incontro alla sua distruzione totale. Internet ha fatto calare le vendite fino a un vero e proprio crollo, che nelle previsioni di quasi tutti avrebbe dovuto portarsi via la discografia così come la conoscevamo, cosa che per certi versi ha fatto davvero. Era facile prevedere che sarebbe stata sostituita da una sua versione alternativa e ugualmente profittevole, ma i fanatici di musica tendono più di altri ad aspettarsi il collasso irreversibile del sistema, e alcuni di noi sono ancora seduti ad attendere con pazienza che succeda.
Quel pericolo per molti versi è scongiurato: dieci anni dopo l’11 luglio 2001, giorno della chiusura di Napster, l’aspettativa di vendere un milione di copie fisiche di un album era diventata un’illusione. Il futuro della musica, però, stava già bussando alla porta, e infatti i top player di quell’epoca continuano a essere top player: le grandi multinazionali della musica continuano a esistere e ad annunciare crescite continue di fatturati e rotazioni. Nel lungo e doloroso processo di transizione tra i due mondi, l’industria ha fatto tutto quello che era in suo potere per continuare a certificare il successo degli artisti più in voga. In altre parole, la discografia non ha mai smesso di premiarsi con dischi d’oro e di platino, ma per farlo ha dovuto ridefinirne il significato. La definizione ‘disco d’oro’ suggerisce un valore assoluto, è una sorta di gold standard del successo musicale, ma all’atto pratico significa una cosa molto diversa a seconda di dove siamo e di quando ce lo stiamo chiedendo.
– Leggi anche: Napster cambiò tutto
Proviamo ad adottare un’altra prospettiva: Thriller di Michael Jackson è il disco più venduto di tutti i tempi, e ci si potrebbe chiedere se possa mai uscire un disco capace di superarlo in assoluto. Viene da pensare di sì, seguendo l’antico adagio secondo cui i record esistono per essere battuti. Ma se è vero che un giorno qualcuno riuscirà a superare i 2,45 metri di Javier Sotomayor sul salto in alto, è anche vero che quel record è facile da misurare: metti un’asta a 2 metri e 45 e un atleta ci deve saltar sopra senza farla cadere. Con la musica è molto più complesso, anche perché – ricordiamolo – il mercato discografico si estende per un periodo pari allo 0,2% circa della storia della musica in questo pianeta. Nondimeno, la musica ha un costante bisogno di impalmare e celebrare i propri campioni e per farlo deve azzardare paragoni tra un’epoca e l’altra. Thriller è uscito in un momento specifico, e probabilmente irripetibile, del mercato discografico. Quanto avrebbe venduto oggi? E in che modo il successo odierno di Taylor Swift può essere paragonato al successo di Madonna nella seconda metà degli anni Ottanta? Esiste la possibilità di misurare l’estensione di questo successo dal punto di vista delle vendite di dischi o biglietti di concerti?
Domande difficili e forse anche pericolose, anche perché i dischi d’oro e di platino sono premi che vengono dati all’industria da enti che sono emanazioni dell’industria. Il disco d’oro è un tentativo di riduzione in scala universale di numeri imparagonabili. È impossibile, in termini assoluti, comparare il successo di album come All Eyez On Me di Tupac (USA, 1996) e Noi, loro, gli altri di Marracash (Italia, 2021): sono entrambi dischi rap, ma sono stati stampati in epoche molto differenti, in mercati di dimensioni molto differenti, per un pubblico differente. Eppure sappiamo che i quasi sei milioni di copie vendute da Tupac negli Stati Uniti hanno fruttato cinque dischi di platino, mentre le oltre 300mila vendute da Marracash in Italia ne hanno fruttati sei. Se non mettiamo limiti all’immaginazione si potrebbe riscrivere una storia alternativa della musica, sulla base di quali dischi abbiano preso quante certificazioni in quali anni.
È evidente che per ragionare in questi termini dobbiamo fidarci delle certificazioni. Ma possiamo farlo? Possiamo sapere come si arriva a calcolare cosa corrisponda oggi a un disco di platino? Chi è deputato a farlo? L’ultima domanda ha una risposta facile: l’industria stessa, da sempre. Il come è decisamente più complesso e, quindi, più affascinante: se ripercorriamo all’indietro la storia, ci accorgiamo che il macrocosmo delle certificazioni ha subito, nell’ultimo ventennio, una miriade di modifiche metodologiche. Nel dicembre del 2024, per esempio, FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana, l’organo ufficiale di diffusione dei dati di vendita e distribuzione della musica in Italia, raccolti a loro volta da GfK) ha annunciato che la soglia di sbarramento per la certificazione dei singoli sul mercato italiano è stata raddoppiata: dal 2025 i parametri di certificazione saranno di 100mila unità vendute per i dischi d’oro e 200mila per il platino, quando fino a dicembre queste cifre erano di rispettivamente 50 e 100mila.
– Leggi anche: Quante copie vendono i libri
Com’è ovvio, in un mondo dove l’acquisto di dischi fisici e il download di mp3 da un portale di musica coprono una minuscola frazione del valore totale del mercato della musica, serve un fattore di conversione che trasformi il numero di volte in cui un pezzo è stato riprodotto in streaming in “acquisti”. Semplificando di molto un calcolo che in realtà ha molte variabili, e potete consultare sul sito di FIMI, la formula è: il “numero di copie vendute di un disco” corrisponde al numero di ascolti premium di una certa traccia in streaming, diviso per 180. In sostanza, nel 2025 sarà “d’oro” ogni singolo ascoltato più di 18 milioni di volte in streaming. Il tasso di conversione per certificare gli album è uguale ma diviso ulteriormente per 10, e applicando un cap sugli ascolti del “singolo”: la traccia più ascoltata del disco è conteggiata per un massimo del 70% della somma degli streaming delle altre tracce.
È facile prevedere che l’innalzamento dei tassi di conversione avrà ripercussioni sul morale di qualcuno che lavora nel settore. Riccardo Scirè, autore e musicista che lavora con diversi musicisti importanti (Sangiovanni, Paola & Chiara, Elettra Lamborghini e molti altri), mi dice:
«“Tuta Gold” di Mahmood l’anno scorso ha preso cinque dischi di platino; col nuovo conteggio ne avrebbe presi soltanto due. Secondo me sono pochi, visto che parliamo del singolo di maggior successo in assoluto in Italia l’anno scorso. Ma comunque nel 2025 l’equivalente di “Tuta Gold” prenderà due dischi di platino, mentre rimarranno a bocca asciutta molti artisti più piccoli. Sono artisti che fino a poco tempo fa, se si lavorava bene, potevano arrivare a prendere un disco d’oro, e questo avrebbe convinto le etichette a investirci ulteriormente e permettere loro di crescere. Da qui in poi è molto probabile che le cose cambino, e non in meglio».
Il che porta a pensare che se da una parte l’industria musicale è a conoscenza dei meccanismi che portano a una certificazione, dall’altra è suscettibile al fascino di quelle stesse certificazioni, nei termini di uffici stampa e addetti alla promozione.
Diametralmente opposta la posizione di Enzo Mazza, CEO di FIMI e rappresentante dell’industria discografica in questo campo:
«L’innalzamento delle soglie è stato necessario. Il disco d’oro e di platino devono essere premi ai campioni dell’industria, e devono tener conto dell’andamento generale del mercato. Le soglie di certificazione non sono assolute, si sono sempre mosse sulla base di come si muoveva il mercato. Due anni fa per esempio avevamo alzato il tasso di conversione, e per un anno le certificazioni sono state coerenti nel numero. Ma già dall’anno successivo siamo dovuti intervenire perché le certificazioni sono diventate troppe».
Se mettiamo a confronto i numeri puri, disponibili nei rapporti FIMI-GfK pubblicati ogni inizio d’anno, saltano fuori tante curiosità: nel 2024, tra singoli ed album, sono state date 1749 certificazioni, contro le 1181 del 2023 e le 594 del 2022. Le abitudini dei consumatori di musica cambiano a rotta di collo, c’è un unico dato davvero importante: il numero di canzoni ascoltate in streaming sulle piattaforme aumenta ogni anno in maniera così significativa (intorno al 30% annuo, a quanto pare) da non poter fissare un rapporto fisso tra numero di streaming e copie vendute (e quindi tra numero di streaming e dischi d’oro). Anche superando questo scoglio insuperabile, però, è difficile dire quale debba essere il totale ‘giusto’ di dischi d’oro o platino in un anno in Italia. Il conteggio è arbitrario, quindi non si può stabilire davvero chi abbia ragione o torto.
Da questi “assoluti”, se così li vogliamo chiamare, si origina una galassia di analisi e teorie che si muovono su un piano accidentato. Le analisi culturali del pop sembrano sempre meno legate ai principi estetici e sempre più alle performance di artisti e album, che però vengono misurate in base a numeri forniti da enti specializzati e messi in mano ad analisti che spesso non sanno bene cosa questi numeri significhino. Il 15 ottobre 2024 il Music Consumption Report di Billboard ha rivelato, per esempio, i dati di vendita (raccolti da Luminate) dei formati fisici nei primi tre trimestri dell’anno negli Stati Uniti. Risultato: 23 milioni di dischi in vinile contro i 33 dell’anno precedente, ovvero 10 milioni di unità e 30 punti percentuali in meno: l’ordine di grandezza di un’apocalisse. Poche ore dopo, su molte riviste di musica ed economia, erano online articoli sulla clamorosa disfatta del mercato dei vinili. Ci sono rimasti fino al giorno successivo, quando Billboard ha pubblicato una smentita o meglio, una nota metodologica, per spiegare le ragioni del decremento: non c’era stata alcuna flessione, ma per l’anno 2024 era solo entrato in vigore un nuovo sistema di elaborazione dei dati di vendita. Fino a quel momento erano stati una proiezione ricavata dai dati forniti da un numero molto limitato di punti vendita ‘strategici’, dal 2024 sono raccolti in maniera più capillare e diffusa.
Certo, si può ipotizzare che il nuovo sistema di conteggio sia più preciso, ma le due misurazioni danno risultati così diversi da rendere impossibile un’analisi attendibile sull’andamento del mercato, anche perché quelli dei vinili sono numeri troppo piccoli per essere rappresentativi (gli statunitensi sono 340 milioni: ipotizzando che un appassionato porti a casa una decina di dischi l’anno, i dati Luminate dicono solo che meno di un americano su cento acquista dischi in vinile).
Il passato prossimo della musica è costellato di incidenti di questo tipo. Il 10 marzo 2017, per esempio, nella top 20 della UK Singles Chart c’erano ben sedici canzoni di ÷, il nuovo album di Ed Sheeran. La giornalista musicale Laura Snapes scrisse sul Guardian un articolo molto letto e condiviso, in cui chiedeva di «aggiustare le classifiche» perché il risultato di Ed Sheeran era la dimostrazione di quanto funzionassero male. Sia chiaro: sono eventi importantissimi, e non solo perché testimoniano quanto poco ci si possa affidare ai dati. Nell’ambiente della musica è percezione comune che l’andamento di un album dipenda sempre di più dalla capacità di attirare tutta l’attenzione possibile nella prima settimana di uscita. La classifica dei singoli del Regno Unito dimostrava, cioè, che l’uscita di un disco come ÷ di un artista popolare come Ed Sheeran aveva occupato l’immaginario con così tanta forza da sopprimere in culla e rendere invisibili decine di altri progetti anche molto grossi.
È per questa ragione che negli ultimi anni sembra essere in corso una sorta di guerra promozionale tra popstar, nel disperato tentativo di accaparrarsi la massima visibilità possibile e massimizzare le performance di un disco nei giorni dell’uscita. Oggi, per esempio, molti dischi “pop” sono assemblati come mostri di Frankenstein, mostri formati da tracce prodotte da team produttivi diversi, con il featuring di decine di vocalist a disco: il risultato è spesso una qualità musicale molto più alta rispetto alle produzioni di venti o trenta anni fa, ma quasi sempre indistinguibile in termini di personalità dalle opere dei principali concorrenti.
Per affrontare un mondo così complicato e agguerrito forse è inevitabile affidarsi a strumenti che misurino l’impatto della musica sul pubblico, la distribuzione degli ascolti o l’influenza sulle abitudini dei consumatori. In un mondo nel quale Thriller era entrato nella casa di decine di milioni di persone non c’era davvero bisogno di sapere quanti dischi di platino avesse ottenuto; da un certo punto di vista sapere quanti platini ha ottenuto un artista mai sentito nominare che sta per esibirsi a Sanremo è molto più utile. Ci fidiamo. Facciamo bene? Non so.