“The Brutalist” sembra un colossal anche se non lo è
Il film in cui Adrien Brody interpreta un architetto ebreo ungherese emigrato negli Stati Uniti è tra i principali candidati agli Oscar

Nonostante le grandi ambizioni e nonostante provenga da un grande studio cinematografico, la Universal, The Brutalist non è un colossal. Non è costato quanto solitamente costano i film della Universal, anzi, proprio per il suo budget contenuto ci sono voluti quattro anni per completarlo (la pandemia e gli scioperi di sceneggiatori e attori non hanno aiutato). È un film indipendente girato con le ambizioni di quelli dei grandi studios, con attori che di solito lavorano per i grandi studios (Adrien Brody, Felicity Jones e Guy Pearce), e riesce a sembrare un film imponente, uno di quelli da 50 o 100 milioni di dollari, anche se ne è costati soltanto 10. È stato presentato a Venezia, è piaciuto alla critica, ha dieci nomination agli Oscar ed esce nei cinema italiani oggi.
È anche un film che sembra raccontare una storia vera, ma non è così. L’architetto ebreo ungherese protagonista, László Tóth, è un personaggio inventato che unisce caratteristiche e stili di altri noti architetti come Paul Rudolph, Ludwig Mies van der Rohe, László Moholy-Nagy e Marcel Breuer. In una sequenza molto discussa e apprezzata fin dalla presentazione al Festival di Venezia, Tóth, sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, arriva a New York dopo la Seconda guerra mondiale a bordo di una nave carica di immigrati. La prima cosa che vede, nella calca, è la Statua della Libertà a testa in giù (immagine presente anche nella locandina).
Da lì, The Brutalist racconta la sua vita in America: dagli stenti iniziali, al primo lavoro come operaio e, contemporaneamente, architetto per un ricco magnate. Quella prima opera lo fa notare e gli consente di ricominciare a esercitare come architetto, con un progetto ambizioso, che proverà a realizzare tra vari problemi.
A dirigere il film è stato Brady Corbet, un regista relativamente nuovo del cinema americano. Questo è il suo terzo lungometraggio, dopo l’esordio molto impressionante e promettente di L’infanzia di un capo e la conferma di Vox Lux (con Natalie Portman). In precedenza Corbet aveva avuto una carriera da attore non troppo fortunata, che per il momento sembra aver abbandonato.
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Come alcuni altri grandi registi del cinema americano contemporaneo (Quentin Tarantino, Christopher Nolan, Paul Thomas Anderson), anche Corbet è appassionato della pellicola e dei grandissimi formati. The Brutalist è un film sugli anni ’40 e ’50 americani, girato con uno dei formati utilizzati all’epoca, il VistaVision, e successivamente trasferito in 70mm. Ha una fotografia, dei colori e, volutamente, uno stile molto d’epoca e di grande impatto. È fatto per sembrare un colossal intimo, che racconta la vita di una persona sola che rappresenta temi molto più ampi.
La storia viene raccontata con un ritmo non necessariamente rapido, ma molto coinvolgente, nel quale è facile immergersi anche per via della lunga durata (tre ore e trentacinque minuti). A enfatizzare questa idea di grande epopea da godere con calma contribuisce la presenza di un intervallo, un elemento che era molto comune in Italia fino a qualche decennio fa, ma pressoché assente nel resto del mondo, specialmente in America. In The Brutalist, invece, l’intervallo è previsto sulla pellicola stessa. Ci sono circa 15 minuti di pausa con un cartello e un conto alla rovescia, durante i quali le luci si accendono, permettendo al pubblico di alzarsi e poi tornare ai propri posti. È anche un modo per dividere il film in due parti, ognuna con un proprio titolo.
The Brutalist ha le ambizioni dei grandi racconti americani, cioè delle storie che attraverso le vicende di singole persone vogliono dire qualcosa sulle evoluzioni o sul carattere di un paese intero. Ma i temi del film sono anche altri, dall’Olocausto alle conseguenze dei traumi personali sulle persone, fino all’influenza della memoria personale e collettiva nelle azioni dei singoli. Sono questioni che Corbet aveva già messo nei film precedenti: L’infanzia di un capo racconta la difficile infanzia di un futuro dittatore immaginario, mentre Vox Lux l’adolescenza e un trauma specifico che si riflette nella vita adulta di una grandissima pop star.
Come in quei due film precedenti, anche in The Brutalist molto del lavoro è affidato agli attori (cosa che non stupisce avendo Corbet un passato da attore) e in particolare ad Adrien Brody, che è appositamente enigmatico fino a un grande svelamento nel finale.
La critica è stata generalmente favorevole al film fin dalla presentazione a Venezia, dove The Brutalist ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia uscendo con l’aura del vero vincitore. Emanuele Sacchi, nella sua recensione su MYmovies, ha analizzato una delle parti più appassionanti del film: il rapporto che il protagonista instaura con il magnate americano suo committente. Secondo Sacchi la loro relazione rappresenta il rapporto tra Europa e Stati Uniti: «I primi ribadiscono con fierezza il proprio primato economico e di potere e la capacità di ricavare un plusvalore da ogni cosa, ma lottano contro un atavico complesso di inferiorità culturale verso la vecchia Europa (e in particolare quella giudaica e mitteleuropea, che farà fiorire tutte le arti statunitensi, a partire dal cinema)». Mauro Donzelli, invece, su Comingsoon ha notato l’attenzione che il film dedica alla parte visiva: «È davvero enorme la cura formale e lo studio pieno di passione per gli spazi, la loro sistemazione nel mondo e su un grande schermo».
Sul New Yorker, invece, Richard Brody ha criticato il film definendolo un’opera ambiziosa che affronta temi ed eventi significativi, usandoli come fossero “materiali di lusso” di un edificio (ossia l’Olocausto, la xenofobia americana, i tormenti di un genio creativo). Per Brody però quest’ambizione è solo dichiarata e mai veramente sviluppata. Facendo riferimento al finale del film, in cui viene svelato un dettaglio che consente al pubblico di riconsiderare l’intera storia sotto una nuova luce, scrive: «The Brutalist è un film domino, in cui l’ultimo pezzo è messo per primo e ogni cosa che verrebbe prima è sistemata di conseguenza. Lo svelamento finale è molto intenso e commovente, ma anche vago e, benché filosoficamente coinvolgente, risulta forzato».
The Brutalist è uno dei principali contendenti all’Oscar e proprio per questa ragione negli ultimi giorni è stato coinvolto in una polemica tesa a sminuirne il valore. A partire da una conversazione su Reddit e da un articolo della testata Feature First, alcune dichiarazioni del montatore del film sono state usate per spargere l’idea che intere sequenze siano state realizzate con l’intelligenza artificiale. Questa operazione, che riguarda effettivamente alcuni dialoghi in ungherese, ma pochi, e alcune immagini degli edifici progettati dal protagonista, è stata però ingigantita in una serie di attacchi sui social che potrebbero costare al film diversi voti agli Oscar. La pubblicazione di articoli denigratori o il tentativo di infangare la reputazione dei concorrenti in gara per l’Oscar è una pratica comune, e alcuni degli account che hanno ricondiviso quell’articolo appartengono a sostenitori di Timothée Chalamet, in competizione con Adrien Brody per il premio al miglior attore protagonista.