Per eleggere i giudici costituzionali mancanti ci vorrà ancora un bel po’
L'ennesimo rinvio ha a che fare con la sospensione dei lavori di Camera e Senato, le proteste per il caso Almasri e i ripensamenti di Forza Italia

Mercoledì la Camera e il Senato hanno sostanzialmente interrotto i loro lavori fino a martedì prossimo: tranne che per poche sedute di commissioni, tutto è stato rinviato di una settimana. È un fatto abbastanza irrituale e per certi versi eclatante, che ha origine dalle polemiche legate al caso della scarcerazione del militare libico Njeem Osama Almasri, e dall’atteggiamento opaco che il governo sta tenendo su questa faccenda. In particolare, a innescare la protesta delle opposizioni che ha poi di fatto portato al blocco dei lavori, è stata la decisione dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, di annullare la loro informativa: i due ministri erano attesi mercoledì pomeriggio prima alla Camera e poi al Senato per riferire sul caso di Almasri, e invece martedì sera hanno comunicato ai presidenti delle due camere che non ritenevano più opportuno farlo perché i fatti erano oggetto di un’indagine giudiziaria in cui erano stati coinvolti insieme alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
La sospensione dei lavori ha fatto sì che venisse rinviata di almeno quindici giorni anche la votazione per l’elezione dei quattro giudici mancati della Corte costituzionale, prevista per giovedì. I lavori del parlamento riprenderanno martedì 4 febbraio, ma il calendario del Senato prevede per i giorni seguenti solo poche riunioni delle commissioni (e molti senatori non saranno a Roma, proprio per la scarsa rilevanza degli appuntamenti). Si prolungherà così lo stallo già lunghissimo su questa votazione, che vede i partiti di maggioranza e di opposizione incapaci di indicare i nomi dei giudici costituzionali da oltre un anno.
Per certi versi però il blocco dei lavori parlamentari ha tolto un po’ dall’imbarazzo alcuni leader politici proprio sulla faccenda dei giudici costituzionali: il vicepremier Antonio Tajani, in particolare, era stato di nuovo indeciso sul nome da proporre in rappresentanza del suo partito, Forza Italia, in vista del voto previsto per giovedì. Il suo atteggiamento aveva irritato anche gli alleati di governo.
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Dal novembre del 2023 il parlamento deve eleggere, in seduta comune e con una ampia maggioranza, i giudici della Corte costituzionale per sostituire quelli il cui mandato è terminato. Allora era scaduto il mandato di Silvana Sciarra, e per oltre un anno i partiti non sono riusciti a trovare un accordo per indicare un sostituto. A dicembre, poi, sono decaduti anche Augusto Barbera, Giulio Prosperetti e Franco Modugno: il fatto che a quel punto i giudici da indicare fossero quattro sembrava dovesse rendere più facili le trattative, visto che i partiti potevano definire un accordo che andasse bene sia per la maggioranza sia per l’opposizione (accordo necessario proprio perché per l’elezione serve una maggioranza ampia). Ma finora non è stato così. Nel complesso sono state dunque tredici le votazioni risultate nulle: quella di giovedì sarebbe stata la quattordicesima, e anche quella con ogni probabilità si sarebbe risolta in un nulla di fatto.
Martedì, infatti, i dirigenti di Forza Italia avevano comunicato agli alleati di Lega e Fratelli d’Italia che il nome del loro candidato era cambiato di nuovo, per la quarta o quinta volta in poche settimane. Dopo aver scartato almeno quattro persone (un passaggio che aveva richiesto già del tempo), Tajani aveva infatti proposto Roberto Cassinelli, avvocato genovese ed ex parlamentare di Forza Italia. Poi però aveva cambiato di nuovo idea, per almeno la sesta volta: l’ultimo candidato proposto agli alleati è stato Gennaro Terracciano, avvocato napoletano 64enne, con una lunga esperienza da professore universitario di diritto amministrativo, che ora insegna all’Università del Foro Italico di Roma, dedicata allo studio delle scienze motorie. Il suo principale sostenitore, in Forza Italia, è Paolo Barelli, capogruppo alla Camera e presidente della Federazione italiana di Nuoto, molto inserito nelle questioni politiche e burocratiche del CONI, il Comitato olimpico nazionale.
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Antonio Tajani ospite al programma Porta a Porta (Cecilia Fabiano / LaPresse)
Questo ennesimo ripensamento ha indispettito un po’ i dirigenti di Fratelli d’Italia e, in misura minore, della Lega: la scelta di Forza Italia ha infatti ricadute su tutta la trattativa. Secondo l’intesa preliminare raggiunta con le opposizioni, dei quattro giudici da eleggere uno spetterebbe al partito di Giorgia Meloni (ed è stato individuato da tempo in Francesco Saverio Marini, attuale consigliere giuridico della presidente del Consiglio), uno al PD (Elly Schlein ha scelto il giurista Massimo Luciani), uno a Forza Italia e l’ultima dovrebbe essere una donna scelta tra profili istituzionali super partes, dunque non immediatamente riconducibile ad alcun partito. La scelta di quest’ultimo giudice però dipende anche dal resto dei candidati (se, per esempio, Forza Italia indicasse una donna, il profilo tecnico potrebbe anche essere quello di un uomo): insomma, le incertezze di Tajani stanno da tempo bloccando una trattativa già di per sé difficile.
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In ogni caso, stavolta a togliere Forza Italia dall’imbarazzo è stata proprio la sospensione dei lavori parlamentari decisa mercoledì mattina. La sera prima, dopo la notizia dell’indagine sui quattro membri del governo coinvolti nel caso di Almasri, il ministro per i Rapporti col parlamento aveva telefonato ai presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, per anticipare informalmente quel che di lì a poco avrebbero letto in una lettera a loro inviata dai ministri Nordio e Piantedosi: cioè il fatto che a causa dell’indagine non ritenevano opportuno andare in parlamento a riferire sulla faccenda.
Tutto ciò ha prodotto una evidente anomalia procedurale: il calendario dei lavori di Camera e Senato viene deciso dall’Ufficio di presidenza, cioè in sostanza concordato dai presidenti con i capigruppo. Su questo Camera e Senato hanno la massima autonomia anche rispetto al governo, almeno formalmente. In questo caso, invece, il governo ha deciso unilateralmente di modificare l’agenda delle camere, sottraendosi a un impegno già definito e dandone comunicazione in maniera abbastanza irrituale. E così, mercoledì mattina sia i deputati sia i senatori si sono ritrovati a iniziare la loro giornata in aula con un ordine del giorno di fatto annullato da una lettera privata e da alcune dichiarazioni alla stampa: ufficialmente il calendario prevedeva ancora l’informativa dei due ministri nel pomeriggio, ma i due ministri intanto si erano tirati indietro.
Da questa incertezza è scaturito un certo imbarazzo degli stessi esponenti della maggioranza, mentre le opposizioni ovviamente protestavano con toni molto accesi, denunciando le reticenze del governo sul caso Almasri, e la mancanza di trasparenza con cui Meloni e i suoi ministri hanno gestito finora la faccenda. Alcuni dirigenti di Fratelli d’Italia (il ministro Ciriani e il capogruppo al Senato Lucio Malan) hanno giustificato questa forzatura spiegando che non era mai successo prima che due ministri dovessero riferire in parlamento su un fatto per cui erano stati indagati proprio il giorno prima. Hanno sostenuto che sarebbe stato un precedente rischioso, e in effetti in parte è vero.
È vero, cioè, che la situazione di Nordio e Piantedosi è decisamente delicata e inconsueta, perché la spiegazione che avrebbero dato a deputati e senatori avrebbe potuto condizionare l’indagine in cui sono indagati per ipotesi di reato ministeriali. Non è vero, invece, che sarebbe stata la prima volta in cui un ministro avrebbe dovuto rendere conto in un’aula parlamentare di vicende su cui era in corso un’indagine a suo carico.
Solo per stare a due casi abbastanza recenti, nel marzo del 2017 Luca Lotti, ministro dello Sport del PD, riferì in Senato dei fatti connessi all’indagine Consip, la società che gestisce i grandi appalti della pubblica amministrazione, per cui era indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e da cui è stato assolto nel marzo del 2024. L’altro caso è ancora più recente, e riguarda proprio un membro del governo di Meloni: nell’aprile del 2024 Daniela Santanchè riferì alla Camera, da ministra del Turismo in carica, sulle questioni che riguardavano la gestione delle sue aziende, e su cui era – e tuttora è – in corso un’indagine per truffa aggravata ai danni dello Stato. Si trattava in entrambi i casi di comunicazioni fatte in occasione di una mozione di sfiducia individuale presentata dal Movimento 5 Stelle: in entrambi i casi, la mozione venne respinta e i ministri restarono al loro posto.
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