Dopo 4 anni gli stipendi medi sono tornati ad aumentare più del costo della vita

Ma il potere d’acquisto resta più basso di qualche anno fa, anche rispetto ad altri paesi europei

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Secondo gli ultimi dati Istat nel 2024 le retribuzioni orarie dei lavoratori dipendenti previste contrattualmente sono cresciute del 3,1 per cento rispetto all’anno precedente: gli aumenti sono stati superiori alla media nell’industria e nei servizi privati, dove le retribuzioni sono aumentate rispettivamente del 4,6 per cento e del 3,4; nel settore agricolo l’aumento è stato dell’1,3 per cento, mentre tra i dipendenti del settore pubblico gli stipendi sono rimasti mediamente uguali.

È una buona notizia, e la stessa Istat ha definito questa crescita «un primo sensibile miglioramento» dopo anni in cui l’aumento generale dei prezzi aveva sostanzialmente reso più povero chi aveva un reddito fisso. Il 2024 è stato infatti il primo anno dal 2020 in cui le retribuzioni medie sono tornate a crescere più del costo della vita: gli stipendi sono saliti del 3,1 per cento, mentre l’inflazione è stata in media dell’1 per cento. Significa che lo scorso anno i lavoratori in Italia hanno guadagnato potere d’acquisto, e che a dicembre potevano fare e comprare più cose di quanto potessero fare solo 12 mesi prima.

L’anno precedente era avvenuto il contrario: nel 2023 le retribuzioni erano aumentate sempre del 3,1 per cento, ma i prezzi erano generalmente cresciuti del 5,7 per cento, quasi del doppio. E lo stesso era avvenuto l’anno prima ancora, col risultato che in questi anni si è accumulata una consistente perdita del potere d’acquisto, ancora in buona parte da recuperare.

Secondo i dati Istat da gennaio del 2021 i prezzi sono aumentati complessivamente del 16,8 per cento, mentre le retribuzioni contrattuali dell’8,2 per cento, cioè meno della metà. Nonostante il recupero del 2024, il divario è dunque ancora molto ampio, in un contesto in cui gli stipendi italiani sono già bassi e tra quelli che crescono meno tra i paesi europei.

Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – l’OCSE – l’Italia è tra i paesi in cui la perdita di potere d’acquisto è stata più consistente, cioè dove gli stipendi sono riusciti a tenere meno il passo dell’aumento dei prezzi: rispetto al 2019 nel primo trimestre del 2024 le retribuzioni italiane erano ancora del 6,9 per cento più basse in termini reali, come si dice nel settore, cioè sulla base di cosa si poteva fare o comprare con gli stipendi. In Spagna erano più basse del 2,5 per cento, in Germania del 2 per cento, e in Francia la perdita si era addirittura azzerata.

Oltre agli arcinoti problemi strutturali dell’economia italiana che bloccano la crescita retributiva – come la bassa crescita economica, la scarsa innovazione manageriale, e una produttività ferma – ce n’è anche uno di natura contrattuale e sindacale. Gran parte degli aumenti di stipendio, come quelli registrati dall’Istat, passano infatti per i rinnovi dei cosiddetti contratti collettivi: sono quei contratti standard diffusissimi in tutta Europa e in Italia, negoziati a livello nazionale dai sindacati (le organizzazioni che rappresentano i lavoratori) e dalle associazioni datoriali (che rappresentano le aziende). Sono i contratti che stabiliscono per i vari settori le condizioni di base del rapporto di lavoro, come le retribuzioni minime, gli orari, le ferie, e via così.

Durano per un periodo prestabilito, solitamente un triennio, dopo il quale sindacati e associazioni datoriali devono rinegoziarne le condizioni: è proprio in queste occasioni che sono concessi generali aumenti di stipendio a tutti i dipendenti che sono sottoposti a questi contratti. Il rinnovo dei contratti collettivi è ancora la modalità principale con cui nei paesi europei gli stipendi crescono, oltre alle negoziazioni singole con il loro datore di lavoro.

In Italia il rinnovo dei contratti è spesso un problema e ci sono tantissimi ritardi: l’Istat segnala che nel 2024 il 50 per cento dei lavoratori aveva un contratto collettivo scaduto. La conseguenza è che tra una rinegoziazione e un’altra passano anche diversi anni, in cui gli stipendi restano fermi: una delle cause individuate dagli economisti è che i sindacati italiani non avrebbero lo stesso potere di quelli degli altri paesi per imporre rinnovi puntuali e nei tempi previsti.

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