Come Yotam Ottolenghi ci è entrato in cucina
Lo chef israeliano è da anni tra i più influenti al mondo grazie ai suoi piatti e agli ingredienti tipicamente mediterranei, resi popolari con i ricettari e Instagram
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Oggi a Ginevra ha aperto il primo ristorante fuori dal Regno Unito del famoso chef israeliano Yotam Ottolenghi: è all’interno del Mandarin Hotel della città e ha un menù ispirato a quello del Rovi di Londra, il suo ristorante specializzato in fermentazioni.
La nuova apertura è solo l’ultimo successo di Ottolenghi, che contrariamente ad altri chef non deve la sua notorietà a sfuriate in programmi tv e a cene dal costo esorbitante, ma a un modo di fare affabile e a una cucina goduriosa e molto riconoscibile, di ispirazione mediterranea e mediorientale, a base di verdure, con tanti ingredienti, sapori intensi e ricette non troppo difficili da riprodurre. Lui le condivide incessantemente: sui social, in una rubrica settimanale sul Guardian e in una mensile sul New York Times, in una newsletter e in 9 ricettari, alcuni pubblicati in Italia.
Oggi è molto frequente imbattersi in video-ricette su Instagram o TikTok ispirate in qualche modo ai suoi insegnamenti, e se vi trovate davanti a un’insalata di zucca arrostita con tahina e nocciole, o di broccoli con aglio, limone e chicchi di melograno o ancora di barbabietole, arance, foglie di menta e yogurt, è merito suo.
«In un piccolo bistrot raramente non è esposto un ricettario di Ottolenghi, che è diventato uno degli standard di riferimento per chi cucina verdure, anzi è diventato sempre più un’entità e non una singola persona», spiega Sara Porro, la persona di riferimento della cucina ottolenghiana in Italia: ha fondato un canale dedicato con 2.500 iscritti su Telegram, organizza le cene di beneficenza dei Cuochi ma buoni con menu a tema, e weekend in cui si cucinano i suoi piatti; ha anche tradotto il suo ultimo ricettario, Comfort.
Porro spiega che la cucina di Ottolenghi è nota per aver cambiato il modo di considerare gli ortaggi, che «non sono più un contorno o la parte sgrassante e un po’ punitiva» del pasto ma la componente centrale: Ottolenghi stesso ha detto di voler «celebrare gli ortaggi o i legumi senza farli sembrare carne, o un complemento alla carne, ma esaltandoli per quel che sono». Per questo sono cucinati con abbondanza d’olio e considerati una portata a sé, come si fa, in fondo, nella cucina levantina e mediterranea.
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(Andrew Scrivani/The New York Times)
Questo approccio ha favorito la popolarità di Ottolenghi un po’ perché quando iniziò, nei primi anni Duemila, sempre più persone evitavano di mangiare carne per ragioni etiche o salutistiche ed erano in cerca di piatti vegetariani gustosi, un po’ perché si rivolgeva a un pubblico, quello londinese, meno abituato a mettere le verdure al centro ma aperto alle novità.
Ottolenghi infatti aprì la sua prima omonima gastronomia, un deli come si dice là, a Notting Hill nel 2002, a 33 anni. Era arrivato a Londra per studiare pasticceria francese alla scuola Le Cordon Bleu nel 1997, dopo aver vissuto in altre città e immaginato altre carriere. Nato nel 1968 a Gerusalemme Ovest in una famiglia ebraica – la madre di origine tedesca e il padre italiana, da bambino passò molte estati in Toscana –, si era trasferito a Tel Aviv, dove aveva lavorato nel quotidiano Haaretz – «se non avessi fatto lo chef sarei diventato giornalista», ha detto – e poi si era trasferito con il suo compagno ad Amsterdam perché sentiva che Israele stava diventando un posto «molto chiuso». Qui, mentre studiava per un master in letteratura, aveva deciso che la cucina sarebbe stata la sua strada.
A Londra iniziò come pasticcere in ristoranti e catene, ma i ritmi e l’ambiente non gli piacevano e si licenziò. Un giorno notò la gastronomia Baker & Spice, entrò e si trovò davanti un bancone con insalate mediorientali, capresi, polli arrosto, che si apriva su un giardino luminoso; uno chef della sua stessa età uscì dalla cucina e si presentò: «sono Sami, vengo da Tel Aviv». Così nacque l’amicizia e il rapporto lavorativo tra Ottolenghi e Sami Tamimi, uno chef palestinese di Gerusalemme Est, cacciato dalla famiglia perché gay, che si era trasferito a Londra per lavorare da Baker & Spice. Ottolenghi ottenne un posto come pasticcere e, quando nel 2002 se ne andò per aprire il suo primo deli, convinse Tamimi a seguirlo.

Sami Tamimi e Yotam Ottolenghi cucinano insieme a Londra nel 2012 (AP Photo/Lefteris Pitarakis)
Qualche anno dopo gli offrì di diventare suo socio e nel 2012 scrissero insieme Jerusalem, un ricettario di piatti arabi e israeliani, che presentava il cibo come un ponte tra le due culture. Il marchio Ottolenghi l’hanno creato insieme: Tamimi con il minuzioso lavoro in cucina e Ottolenghi sperimentando, scrivendo e raccontando i piatti. Nonostante questo, Tamimi ha spiegato al New Yorker che «l’investimento era suo, io non avevo soldi da investire, lui rischiò tutto quello che aveva. Qualche anno dopo diventai socio ma nonostante i ricettari che facciamo insieme, nonostante la nostra amicizia, io lavoro per Yotam: lui è il mio capo».
Nel 2006 il Guardian propose a Ottolenghi di curare la rubrica di ricette The New Vegetarian, lui pensò di rifiutare perché non era vegetariano e non aveva lasciato un «paese “senza molluschi e maiale” per cucinare a gente che avrebbe mangiato solo piante», ha detto al New Yorker; ma poi cambiò idea. La sua prima ricetta era un’insalata che definì «ottima per accompagnare la carne del barbecue»: ricevette molte critiche e dovette eliminare qualsiasi riferimento alla carne fino al 2010, quando subentrò un nuovo responsabile che gli diede il via libera su tutto. Sulla spinta della rubrica, nel 2008 pubblicò il suo primo libro, Cookbook, e due anni dopo Plenty, un «ricettario a base di ortaggi visivamente irresistibile», l’ha definito il New Yorker.
La bellezza dei piatti, perfetti per finire sui social, è un’altra ragione del suo successo, insieme alla facilità delle ricette, che sono lunghe e laboriose ma non richiedono competenze tecniche. La difficoltà, casomai, è reperire gli ingredienti: sommacco, za’atar, melassa di melograno, limoni sotto sale, comuni in un negozio mediorientale ma non certo a Londra. Questo esotismo ha reso i suoi piatti più desiderabili e ha favorito la nascita di gruppetti di appassionati che si scambiano consigli su dove trovarli: anche Porro spiega che nel gruppo Telegram ci si dà molti consigli su dove trovare «le foglie di curry fresco».
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(Christopher Simpson/The New York Times)
Ottolenghi ha cambiato così «radicalmente il modo in cui i londinesi cucinano e mangiano», scrisse l’Evening Standard nel 2014, che la catena di supermercati Waitrose iniziò a vendere i condimenti e le spezie che consigliava nelle sue ricette perché erano molto richiesti. Ora, dice Porro, «a Londra li trovi al supermercato» e aggiunge che qualcosa di simile, forse, è successo anche da noi: «all’Esselunga ora c’è sempre l’aglio nero, il coriandolo fresco, uno scaffaletto con gli ingredienti dal mondo come la gochujang, la salsa piccante coreana, l’harissa tunisina e il latte di cocco».
Quando si è costruita la dispensa il più è fatto, e in Comfort lo stesso Ottolenghi consiglia di usare le erbe e le spezie che si hanno a portata di mano, di aprire il frigo e di vedere cosa c’è: il suo obiettivo è trasmettere «le idee e le suggestioni più che una lista fissa di ingredienti e di passi da seguire».
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(Andrew Scrivani/The New York Times)
Negli ultimi anni Ottolenghi sta proponendo sapori e ingredienti presi da altre cucine, come quella asiatica e nordafricana: «faccio tutti i tipi di mix con tutti i cibi che sono interessanti, diversi o un po’ imprevedibili». Lavora soprattutto nella test kitchen che ha fondato, dove sperimenta nuove ricette insieme ad altri chef: si inizia alle 9 del mattino, si cucinano 6-8 piatti, li si assaggia e ci si confronta. Di solito prima di essere approvato un piatto viene assaggiato 3-4 volte, ma possono essere anche molte di più.
A voler trovare una costante, dice Porro, i suoi piatti hanno sempre «tre componenti, per esempio una pasta e sopra due cose diverse, una fresca e una che porta croccantezza». E poi sono pieni di flavour bombs, le “bombe di sapore” come le chiama lui, e sono pensati per essere condivisi, come le mezze, i piattini della cucina greca e levantina. «Mi sono abituata – dice Porro – a grandi quantità di erbe aromatiche, di acidità e di piccante; c’è una componente di calore quasi in tutti i piatti, che sia il peperoncino, il wasabi, la senape, il rafano, lo zenzero», e conclude: «è facile convertire al “verbo di Ottolenghi”, non ho incontrato nessuno che lo mangi e non ne sia sorpreso favorevolmente».