Cosa non torna nel caso di Almasri, il capo della polizia giudiziaria libica

Molte cose, a partire dall'atteggiamento del governo e dal modo in cui è stato scarcerato e riportato a Tripoli

di Valerio Valentini

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla Camera, il 17 Dicembre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla Camera, il 17 Dicembre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Alle 4 del pomeriggio di martedì 21 gennaio il ministero della Giustizia ha diffuso una nota in cui diceva che era «pervenuta la richiesta della Corte penale internazionale (CPI) di arresto del cittadino libico Najeem Osema Almasri Habish» e che, «considerato il complesso carteggio, il ministro sta valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI al procuratore generale di Roma». In quel momento un aereo di Stato, un Falcon 900 in dotazione ai servizi segreti, era già pronto all’aeroporto di Torino Caselle: intorno alle 8 di sera sarebbe decollato proprio con Almasri a bordo. Poco prima delle 10 sarebbe atterrato all’aeroporto di Mitiga, alla periferia est di Tripoli.

Mentre dunque il ministro Carlo Nordio si diceva intento a valutare se confermare oppure no l’arresto di Almasri, che ha 45 anni ed è il capo della polizia giudiziaria libica, la procedura per farlo espatriare era già stata attivata dal governo di cui Nordio fa parte. Quando Nordio ha diffuso la nota, sia il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sia – ancora prima – il sottosegretario alla presidenza del Consiglio che si occupa dei servizi segreti, Alfredo Mantovano, avevano già deciso da alcune ore che Almasri in quella stessa giornata sarebbe stato riportato in Libia.

Questa è una delle più evidenti incongruenze nell’atteggiamento che il governo di Giorgia Meloni ha adottato sul caso di Almasri, ma non è l’unica.

Le cose che non tornano in questa storia, sia rispetto alla ricostruzione frammentaria e ambigua che ne hanno fin qui dato alcuni esponenti del governo, sia sulla base di ciò che i giornali hanno potuto capire e raccontare, sono molte: riguardano già le settimane precedenti all’arrivo di Almasri in Italia, le modalità del suo arresto a Torino, ciò che è successo ai suoi tre connazionali che stavano con lui, le comunicazioni tra i vari ministri e tra il governo e i servizi di intelligence, le ragioni per le quali è stato scarcerato ed espulso con procedura d’urgenza; e infine perché sia stato riportato a Tripoli con un aereo di Stato.

Data la delicatezza della materia, e i problemi che potrebbe generare per più di un ministro, alcuni collaboratori della presidente del Consiglio Giorgia Meloni stanno prendendo in considerazione l’ipotesi di mettere sul caso il segreto di Stato, per cercare di stemperare le polemiche ed evitare la diffusione di notizie compromettenti per le istituzioni nazionali.

Il ministro Carlo Nordio ospite della trasmissione Cinque Minuti, il 24 gennaio 2025 (Cecilia Fabiano/LaPresse)

I tempi “sospetti” della Corte penale internazionale
Almasri a gennaio ha compiuto un lungo viaggio tra vari paesi europei. Il 6 gennaio è partito in aereo da Tripoli in direzione di Londra, facendo scalo a Fiumicino. A Londra è rimasto fino al 13, quando si è trasferito in treno a Bruxelles. Da lì è passato in Germania, fermandosi a Bonn dove, insieme ad almeno un’altra persona, ha noleggiato un’auto con la quale ha raggiunto Monaco. Lungo la strada, sempre il 15 gennaio, sono stati fermati per un ordinario controllo dalla polizia tedesca, che li ha comunque lasciati andare. A Monaco, il 18 gennaio, ha noleggiato un’altra auto con la quale è arrivato a Torino nel tardo pomeriggio, per assistere alla partita di calcio Juventus-Milan insieme ad altri tre uomini libici.

Il fatto che la CPI abbia apparentemente assistito al girovagare di Almasri, per poi attivarsi solo una volta che il militare libico ha messo piede in Italia, secondo il governo sarebbe sospetto. In realtà non è proprio così.

La CPI aveva aperto un fascicolo su Almasri il 2 ottobre 2024, con gravi accuse a suo carico di violenze e torture nei confronti dei migranti trattenuti nel centro di detenzione di Mitiga da lui gestito, ma aveva emesso un mandato d’arresto solo il 18 gennaio del 2025. Secondo il governo, questa inerzia della CPI sarebbe dovuta a una sorta di ritorsione per aver preso posizione contro il mandato d’arresto emesso della stessa Corte nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, lo scorso novembre. Questa tesi è piuttosto diffusa tra i ministri, ed è una tesi a cui anche la stessa Meloni ha alluso in un paio di occasioni. La CPI, insomma, avrebbe volutamente atteso che Almasri entrasse in Italia per fare sì che fosse il governo di Meloni a dover gestire la pratica.

– Leggi anche: La Corte penale internazionale sta cambiando

Ma una fonte della CPI, che preferisce rimanere anonima, spiega che in realtà il mandato di arresto di Almasri è stato emesso quando si è avuta la certezza della sua presenza in Europa, al di là di dove fosse collocato geograficamente.

Il giornalista Nello Scavo di Avvenire, mercoledì, ha ricostruito nel dettaglio questo aspetto. Almasri, che girava con almeno tre diversi passaporti (libico, turco e della Dominica, piccolo Stato insulare caraibico che fa parte del Commonwealth britannico), ha utilizzato la sua patente turca per noleggiare l’auto a Monaco, chiedendo di poterla lasciare poi a Fiumicino: questa richiesta un po’ anomala ha fatto sì che si avviassero dei controlli sul suo conto, e che questi controlli consentissero di identificarlo. A quel punto le autorità di sicurezza tedesche hanno segnalato il tutto alla CPI, che ha attivato le procedure per emettere il mandato d’arresto.

Per questo il 18 gennaio alla sede della CPI all’Aia, nei Paesi Bassi, si è riunita la camera di consiglio cosiddetta “preliminare”, composta da tre giudici: la romena Iulia Motoc, che presiede la riunione, la beninese Reine Adélaïde Sophie Alapini-Gansou e la messicana Maria del Socorro Flores Liera. Le tre giuriste hanno analizzato il fascicolo del 2 ottobre 2024 relativo ad Almasri sul quale, come direttore del carcere di Mitiga, pendono dodici capi d’accusa: crimini contro l’umanità e crimini di guerra, violenze sessuali, tortura, atti inumani di cui Almasri, come diretto responsabile, come mandante o come complice, viene ritenuto responsabile. E al termine della riunione hanno deciso a maggioranza – col parere contrario della messicana Liera – di emettere il mandato d’arresto come atto necessario per assicurarsi che Almasri comparisse davanti alla Corte come imputato, mentre nel frattempo era arrivato in Italia.

L’arresto
Anche sull’arresto ci sono delle incongruenze nelle ricostruzioni fin qui riportate sui giornali, e su cui sia il ministro della Giustizia sia quello dell’Interno non hanno fornito spiegazioni chiare.

Si sa che Almasri è stato arrestato alle 3 e mezza del mattino di domenica 19 gennaio, mentre si trovava in un hotel a piazza Massaua. Ma si sa anche che era stato già intercettato e controllato nella tarda mattinata del giorno precedente, e poi lasciato andare, dalla squadra mobile della Digos di Torino. Cosa sia successo in quelle ore non è stato finora chiarito dal governo, e lo si può sapere solo attraverso il verbale scritto dagli agenti che lo hanno arrestato.

Alle 11 di mattina del 18 gennaio, allertati dal vedere un’auto – una Volkswagen Golf station wagon – con targa tedesca e con a bordo quattro uomini apparentemente stranieri, gli agenti avevano deciso di fare un controllo in via Lagrange, nel centro della città. Con Almasri c’erano altri due cittadini libici (Bramitah Murad Shiboub, che guidava, e Sghiar Ayoub Youssef Elmokhtar) e un cittadino statunitense (Usta Osama Mohamed). Quest’ultimo era risultato l’unico con precedenti a carico, per un caso di ricettazione avvenuto nel 2009. I quattro, parlando agli agenti in inglese, avevano detto che erano intenzionati ad assistere alla partita di calcio tra Juventus e Milan prevista per le 6 del pomeriggio, ed erano stati lasciati andare.

Dodici ore dopo, intorno alla mezzanotte, gli stessi agenti sono stati informati dalla questura che era appena arrivata dalla Direzione centrale della polizia criminale, una struttura del ministero dell’Interno che si occupa tra l’altro delle operazioni di polizia internazionale, la notizia di un mandato d’arresto internazionale per Almasri emesso dalla CPI. In quel momento, quindi, le istituzioni italiane erano al corrente della situazione (è un particolare da tenere a mente e che tornerà utile in seguito).

Dopo ulteriori controlli gli agenti della Digos sono riusciti a scoprire dove alloggiava Almasri, e alle 3 e mezza del mattino lo hanno raggiunto e arrestato nella stanza dell’hotel dove dormiva. Aveva con sé, tra l’altro, un mirino per fucile, 5.455 euro in banconote perlopiù di grosso taglio, 105 sterline inglesi e due cellulari. Dopo le procedure burocratiche del caso in questura, Almasri è stato portato nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino.

Di cosa è successo ai suoi tre compagni da lì in avanti, invece, si sa ben poco. Sono stati rilasciati e poi rimpatriati insieme ad Almasri, ma con un decreto di espulsione emesso dal prefetto di Torino e non dal ministro dell’Interno in persona, come è stato per Almasri. Fonti di governo che hanno seguito la faccenda spiegano che i tre sono stati rimpatriati con lo stesso volo di stato messo a disposizione di Almasri. Non si sa però dove siano stati e cosa abbiano fatto dalla tarda mattinata di domenica fino al pomeriggio di martedì.

Il video con cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha comunicato di essere indagata.

Cinque avvocati in tre giorni
Anche sulla scelta dell’avvocato fatta da Almasri alcune cose non tornano. Nel giro di tre giorni, a occuparsi in maniera più o meno formale del suo caso sono stati cinque diversi legali. Quello che gli era stato assegnato d’ufficio è Aimone Picchio, penalista del foro di Torino che aveva ricevuto l’incarico nel pomeriggio del 19 gennaio.

La mattina seguente, però, Picchio è stato contattato da Daniele Folino, esperto di diritto bancario e tributario, che si è proposto di assumere l’incarico su sollecitazione dell’ambasciata libica a Roma. Ex esponente della destra piemontese che si riconosceva in Gianfranco Fini, attuale assessore alla Cultura di Domodossola, Folino in passato è finito al centro di polemiche locali perché aveva ottenuto il titolo di abilitazione alla professione a Salamanca, in Spagna, mentre ora risulta iscritto al foro di Roma. È stato lui a incontrare Almasri nel carcere torinese “Lorusso e Cutugno” in cui era detenuto: secondo fonti del ministero degli Esteri, la sua consuetudine con cose che riguardano la Libia deriva da alcuni suoi affari con una società petrolifera del paese. Inoltre in quei giorni avrebbe ricevuto anche telefonate poco piacevoli da libici vicini ad Almasri. Su questo non ha voluto commentare.

Folino comunque non ha mai avuto un incarico formale. E almeno altri tre avvocati da quel momento in avanti si sono interessati alla vicenda di Almasri. Uno è Luigi Vicidomini, del foro di Roma; l’altra è Valentina Miceli del foro di Milano, che lavora nella sede lombarda dell’International Lawyers Associates (ILA), associazione fondata dal noto penalista Alexandro Maria Tirelli e specializzata nel diritto internazionale e nelle estradizioni. Miceli dice di aver assunto l’incarico su richiesta della famiglia, dopo avere incontrato a Milano un conoscente di Almasri. Ma il 21 gennaio, il giorno in cui poi è avvenuta la scarcerazione, le è stato comunicato che lo stesso Almasri aveva indicato un suo avvocato.

È Asa Peronace, avvocato tributarista milanese il cui studio è specializzato «nel diritto d’impresa e nelle tematiche fiscali e societarie», si legge sul suo sito. Ha un passato come ufficiale della Guardia di Finanza e vanta un’esperienza ventennale di consulente per «grandi gruppi internazionali operanti in Italia e all’estero» (gruppi che vanno dal settore medico a quello della difesa, come l’azienda tedesca Rheinmetall, passando per energia, edilizia e sicurezza informatica). È stato proprio Peronace a firmare l’istanza di scarcerazione per chiedere la liberazione di Almasri, avvenuta poi nel pomeriggio del 21 gennaio su disposizione della Corte d’appello di Roma.

Il generale libico Njeem Osama Almasri Habish atterra a Tripoli il 21 gennaio 2025 (ANSA/COURTESY FAWASELMEDIA.COM)

Un vizio di forma
La Corte ha ritenuto «irrituale» l’arresto di Almasri «perché non previsto dalla legge». Alla base di questa decisione c’è un vizio di forma procedurale: secondo la legge 237 del 2012 con la quale l’Italia ha adeguato il proprio ordinamento allo statuto della CPI, è il ministro della Giustizia che «dà corso alle richieste formulate dalla Corte» al governo italiano, cioè è lui che dopo aver ricevuto il mandato d’arresto autorizza le forze dell’ordine a procedere.

Invece il mandato, secondo quanto detto dal governo e confermato dalla Corte d’appello, a Carlo Nordio è arrivato quando la polizia aveva già arrestato Almasri (dopo il posto di blocco e le successive verifiche). Dal momento che Nordio non è stato il primo a sapere del mandato e a dare «corso alle richieste formulate» dalla CPI, i giudici della Corte d’appello non hanno convalidato l’arresto.

Per questo anche Meloni ha detto che quella di liberare Almasri «non è una scelta del governo», ma della Corte d’appello di Roma.

Il 22 gennaio, subito dopo il rilascio di Almasri, la CPI ha chiarito con un comunicato di aver rispettato le procedure consuete per comunicare con le istituzioni italiane, così come con quelle di altri cinque paesi europei allertati il 18 gennaio sul caso di Almasri, per assicurarne l’arresto. La richiesta di arresto della CPI, si legge nel comunicato, «è stata trasmessa attraverso i canali designati da ogni Stato ed è stata preceduta da consultazioni e coordinamenti preventivi con ogni Stato per assicurare l’adeguato recepimento e la conseguente attuazione della richiesta della Corte». La CPI, cioè, ha replicato all’Italia dicendo di aver rispettato le procedure, che per quanto riguarda l’Italia prevedono che la Corte consegni semplicemente la richiesta all’ambasciata italiana dell’Aia.

– Leggi anche: Perché la Corte penale internazionale se l’è presa con l’Italia

Cosa che effettivamente è avvenuta la sera del 18 gennaio, immediatamente dopo la deliberazione della camera di consiglio della CPI. L’ambasciata ha contattato a quel punto il ministero dell’Interno, che si è attivato per le verifiche del caso, coordinandosi peraltro con la polizia tedesca. Proprio grazie alla mediazione della CPI, infatti, le due polizie sono state messe in contatto, così che potessero condividere informazioni: la polizia tedesca ha inviato una scheda agli italiani per riassumere i movimenti fin lì registrati di Almasri. Alle 22:55 del 18 gennaio, la CPI ha formalizzato definitivamente la richiesta d’arresto, inoltrando la richiesta al segretariato generale dell’Interpol a Lione, che coordina le polizie mondiali per i casi di reati internazionali.

Sulla base di queste informazioni, se c’è stato un mancato coinvolgimento o un coinvolgimento non tempestivo del ministro Nordio, è più per responsabilità del governo e della diplomazia italiana che non della CPI.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, a sinistra, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, a destra, a Roma, 15 Novembre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Ma al di là di questo cavillo burocratico non c’è dubbio che la decisione sia stata di natura politica, anche se cosa abbia motivato il governo non è ancora chiaro. Di certo Almasri gestisce il carcere di Mitiga, e dalle carceri libiche dipendono molte delle partenze dei migranti che cercano di raggiungere l’Italia attraverso il Mediterraneo: è probabile che il governo italiano temesse conseguenze nella gestione dell’immigrazione, per esempio aumenti degli sbarchi, o che fosse preoccupato di eventuali ritorsioni sui cittadini italiani presenti a Tripoli.

La Digos di Torino ha informato il ministero della Giustizia lo stesso 19 gennaio, subito dopo avere effettuato l’arresto: Nordio era stato subito messo al corrente, di fatto. E inoltre, come ha notato Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, il ministro è stato prontamente informato anche dal procuratore generale di Roma. «Il ministro della Giustizia, interessato da questo ufficio in data 20 gennaio immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla questura di Torino, ad oggi non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito», ha scritto il procuratore il 21 gennaio. A Nordio sarebbe bastato rispondere al procuratore per sanare questa difformità e rimuovere ogni aspetto «irrituale» nell’arresto di Almasri.

La stessa CPI nel suo comunicato di replica ha scritto di aver offerto costante collaborazione al governo, che in caso di qualsiasi problema avrebbe «dovuto consultare la Corte senza indugi per risolvere la questione». Cosa, invece, che il governo italiano non ha fatto.

Al contrario, quando Nordio ha comunicato di aver finalmente iniziato a valutare «il complesso carteggio» per decidere sul da farsi, la decisione era in realtà già stata presa dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, responsabile dei servizi segreti. Mantovano è un magistrato esperto e un profondo conoscitore di queste procedure. Dal 2013 al 2018 è stato consigliere della IV Sezione penale della Corte d’appello di Roma, dove si è occupato tra l’altro proprio di diritto penale europeo e internazionale: è lo stesso organo che ha emesso la sentenza con cui è stata decisa la scarcerazione di Almasri, e che è competente per le questioni che riguardano la CPI.

Alle 11 del mattino del 21 gennaio, quando ancora la sentenza della Corte d’appello non era stata emessa e Almasri si trovava ancora in carcere, il Falcon 900 dell’Aeronautica militare, in dotazione ai servizi segreti, è decollato dall’aeroporto romano di Ciampino per atterrare poco dopo in quello torinese di Caselle. Da lì, poche ore dopo, è di nuovo decollato per riportare a Tripoli Almasri e gli altri tre uomini che erano con lui.