Quando e perché il governo deve riferire al parlamento
In certi casi lo prevede la legge, in altri la prassi; per i ministri di solito non è una gran fatica, ma capita che da queste comunicazioni dipendano le sorti di una maggioranza
![Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi durante un question time al Senato, il 23 gennaio 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)](https://static-prod.cdnilpost.com/wp-content/uploads/2025/01/28/1738083703-23062706_large.jpg)
Martedì sera, dopo la notizia dell’indagine sulla presidente del Consiglio Giorgia Meloni in merito al caso del capo della polizia giudiziaria libica, Njeim Osama Elmasry, i ministri della Giustizia Carlo Nordio e dell’Interno Matteo Piantedosi hanno annullato la loro informativa alla Camera e al Senato, che era prevista per mercoledì pomeriggio. La motivazione, secondo quanto spiegato dal ministro per i Rapporti col parlamento ai presidenti delle due camere con una telefonata informale che ha anticipato l’invio di una lettera ufficiale, è che qualsiasi dichiarazione fatta da Nordio e Piantedosi sulla vicenda potrebbe in qualche modo interferire con l’inchiesta, nella quale anche i due ministri sono indagati insieme a Meloni e al sottosegretario con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano.
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Le opposizioni avevano chiesto e ottenuto che Nordio e Piantedosi riferissero per avere direttamente dal governo chiarimenti e informazioni certe su una vicenda ancora molto opaca. Elmasry era stato arrestato il 19 gennaio scorso a Torino su mandato della Corte penale internazionale, con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità. Era stato rilasciato due giorni dopo, e il governo l’aveva rimpatriato a Tripoli con un volo di stato. Il 23 gennaio Piantedosi ha già sommariamente risposto a una interrogazione del senatore di Alleanza Verdi e Sinistra Peppe De Cristofaro; ma la relazione che avrebbe dovuto svolgere mercoledì prima alla Camera e poi al Senato, insieme a Nordio, sarebbe stata più articolata e approfondita, perché sarebbe avvenuta sotto forma di informativa.
Le procedure parlamentari sulla base delle quali un membro del governo è chiamato a riferire nell’aula della Camera e del Senato sono diverse: si distinguono per tipologie, per modalità di svolgimento e anche per importanza. Si va da quelle periodiche a quelle straordinarie; da quelle specificamente previste dalla legge a quelle richieste in maniera estemporanea dai gruppi parlamentari o dai ministri stessi.
Quella che dovevano fare Piantedosi e Nordio era una informativa, uno dei termini usati per indicare gli atti con cui il governo comunica con il parlamento. Alcuni di questi sono previsti dalla Costituzione, dalla legge o da una prassi consolidata. Il governo, per bocca del suo capo e cioè il presidente del Consiglio, svolge innanzitutto una comunicazione nell’atto stesso del suo insediamento, entro dieci giorni dalla sua formazione: è un discorso in cui il presidente illustra le linee che intende seguire e le riforme che si propone di realizzare, gli orientamenti sulla politica interna ed estera, i principi a cui si ispira. Su quel programma deve ottenere la fiducia di entrambe le camere per entrare in carica a tutti gli effetti.
Inoltre, il presidente del Consiglio deve fare delle comunicazioni al parlamento anche prima di un Consiglio Europeo, che riunisce i capi di stato e di governo dell’Unione: per spiegare che posizioni prenderà sui vari temi che verranno discussi dai capi di stato e di governo dei paesi membri. Anche in questo caso il presidente del Consiglio è obbligato: lo stabilisce una legge approvata nel 2012, su iniziativa del governo di Mario Monti, che intendeva disciplinare meglio il rapporto tra potere legislativo, esecutivo e politica europea, sempre più decisiva anche per quella nazionale.
L’obiettivo era da un lato creare una procedura con cui il parlamento venisse maggiormente coinvolto nella preparazione dei lavori per i Consigli Europei, e dall’altro di fare in modo che il presidente del Consiglio arrivasse a Bruxelles forte di una rinnovata legittimazione ricevuta dalle camere, chiamate infatti a votare risoluzioni in cui appunto danno al governo il mandato formale a negoziare sui vari temi all’ordine del giorno della riunione tra i leader dei paesi membri. Se questo era lo scopo originario della legge, le comunicazioni del presidente del Consiglio prima dei Consigli Europei si sono però col tempo trasformate in una sorta di appuntamento ricorrente in cui i leader dell’opposizione si rivolgono direttamente al capo del governo, incalzandolo sui temi più disparati. Il tutto spesso si risolve in un dibattito accalorato che poco ha a che vedere con il programma del Consiglio Europeo stesso.
Ogni gennaio, poi, il ministro della Giustizia deve riferire in parlamento sullo stato dell’amministrazione della giustizia: lo fa con una lunga relazione in cui spiega come sono andate le cose nei dodici mesi precedenti e quali sono gli interventi e le riforme che intende promuovere di lì in avanti. Anche in questo caso lo prevede una legge, ma molto più vecchia: un regio decreto del 1941. Questa relazione deve essere svolta in una finestra di tempo definita, perché di fatto l’intervento del ministro in parlamento segna l’avvio dell’anno giudiziario, che si apre formalmente con le cerimonie di inaugurazione nei giorni immediatamente seguenti.
E questo fatto ha avuto, nel recente passato, implicazioni politiche notevoli.
Nel gennaio del 2021 Giuseppe Conte era alla ricerca dei cosiddetti “responsabili” al Senato, cioè di esponenti dei gruppi centristi e di Forza Italia che potessero entrare nella maggioranza che sosteneva il suo governo di centrosinistra e disinnescare così la crisi che aveva aperto Matteo Renzi. Il problema, per Conte, fu che il primo atto parlamentare su cui questa eventuale nuova maggioranza si sarebbe dovuta formare era proprio il voto finale sulla relazione del suo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Tuttavia, la giustizia era uno dei temi su cui la distanza tra l’approccio di Conte del Movimento 5 Stelle e quello dei moderati di Forza Italia era maggiore, e Bonafede era per certi versi uno degli esponenti del governo più invisi ai senatori di centrodestra a cui Conte aveva fatto appello. E dunque, sapendo che il voto che avrebbe in teoria dovuto segnare l’allargamento della sua maggioranza si sarebbe risolto con una sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia, Conte si dimise.
Ci sono poi occasioni in cui le comunicazioni vengono richieste dalle opposizioni, per motivi eccezionali: una crisi internazionale per la quale si chiama a riferire il ministro degli Esteri, una riunione della NATO su cui dovrà aggiornamenti il ministro della Difesa, una polemica sorta in seguito a un fatto di cronaca particolarmente clamoroso o ad alcune dichiarazioni di questo o quell’esponente di governo, che viene per quel motivo convocato per dare maggiori spiegazioni in aula. In questo caso si parla di “informative urgenti”, come sarebbe stata appunto quella di Nordio e Piantedosi. Ma talvolta può essere lo stesso governo a chiedere ai presidenti delle camere di definire una data utile per rendere delle comunicazioni al parlamento: in questi casi, di solito, è per dare ufficialmente la propria versione su un certo fatto di grande rilievo, o per indirizzare in un certo modo una crisi politica in corso.
Fu in una circostanza simile che, per esempio, il 17 ottobre del 1985 il presidente del Consiglio Bettino Craxi riferì all’aula della Camera sulla “crisi di Sigonella”, una crisi diplomatica tra Italia e Stati Uniti legata al sequestro della nave Achille Lauro.
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Dopo quella crisi il Partito Repubblicano di Giovanni Spadolini, ministro della Difesa, decise di negare il proprio sostegno al governo. La seduta in cui Craxi riferì, peraltro, fu segnata dal celebre gesto di Giulio Andreotti, ministro degli Esteri seduto alla destra di Craxi, che si allungò per prendere una brocca d’acqua e riempire il bicchiere del presidente del Consiglio, rendendogli così evidente il proprio sostegno e di fatto lasciando intendere che c’erano margini per evitare la caduta del governo, come poi in effetti fu. E allo stesso modo, fu Conte a voler dare comunicazioni al Senato il 20 agosto del 2019, quando capì che avrebbe potuto mettere in grande imbarazzo Matteo Salvini, che aveva aperto la crisi del governo Lega-M5S, e così agevolare l’inizio delle trattative che avrebbero portato di lì a qualche settimana alla nascita del suo secondo governo, stavolta con l’appoggio del PD.
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Giuseppe Conte interviene per le comunicazioni del governo al Senato durante la crisi del governo gialloverde, il 10 agosto 2019 (Vincenzo Livieri/LaPresse)
Se tutti questi fin qui descritti sono eventi piuttosto rari, ci sono invece momenti assai più ricorrenti in cui i ministri sono chiamati a riferire in parlamento. Riguardano i cosiddetti atti di sindacato ispettivo, cioè atti con cui il parlamento esercita formalmente la sua funzione di controllo sull’operato del governo. Quelli maggiormente usati sono essenzialmente due: le interpellanze e le interrogazioni. Le prime sono domande con cui un parlamentare, o un gruppo di parlamentari, interroga un ministro per conoscere le ragioni della sua condotta su determinate questioni di rilievo, e i provvedimenti che il governo intende prendere su quelle questioni. Le interrogazioni sono domande più puntuali con cui i parlamentari chiedono al governo conferme o chiarimenti su una specifica notizia, cercando di capire se dunque il ministro competente sia al corrente di un qualche fatto, se ritiene vere certe informazioni e in caso come intenda agire.
In ogni caso, e con minime differenze nel regolamento tra Camera e Senato, sulle interrogazioni i parlamentari che le propongono possono chiedere che a rispondere intervenga il ministro competente o un suo delegato, e si parla in questo caso di “interrogazione a risposta orale”, accompagnata da un breve dibattito in aula. Ma anche in queste circostanze, quasi mai il ministro interrogato risponde a braccio: per lo più si limita a leggere più o meno fedelmente un testo predisposto dai suoi collaboratori nei giorni precedenti (di solito un paio di settimane). Un modo relativamente più efficace per incalzare il governo su questioni di particolare attualità politica sono le interrogazioni a risposta immediata, cioè i cosiddetti question time: in questo caso la domanda non va presentata con un preavviso di quindici giorni, ma può essere depositata entro le 12 del giorno precedente a quello dedicato a queste procedure, che per prassi, soprattutto alla Camera, è quasi sempre il mercoledì. Il deputato o il senatore espongono la propria domanda, il ministro risponde, e poi tocca di nuovo all’«interrogante», cioè a chi ha fatto l’interrogazione o a un suo collega di partito, prendere la parola per replicare, dicendo se si ritiene o meno soddisfatto dall’intervento del ministro.
Non sono solo i parlamentari di opposizione a promuovere queste iniziative. Quasi sempre, anzi, al question time partecipano anche i gruppi di maggioranza: in questo caso l’interrogazione serve non a cercare di mettere in difficoltà il ministro, ma al contrario a offrirgli la possibilità di rivendicare un successo o un’iniziativa che la maggioranza ritiene meritevole.
Anche il presidente del Consiglio può essere chiamato a rispondere al question time. Anzi da questa legislatura si era deciso di rendere più frequente e regolare questo appuntamento del cosiddetto premier time (il regolamento del Senato, dal luglio 2022, prevede espressamente che il capo del governo risponda a interrogazioni in aula almeno una volta ogni due mesi). Ma in realtà è avvenuto assai più di rado: in oltre due anni di permanenza al governo Giorgia Meloni ha partecipato finora a tre premier time, una volta al Senato e due volte alla Camera.