A che punto è la “Paz Total” in Colombia
«Ogni volta che me ne parlano, mi ricordo di quando un ragazzino di diciannove anni che era stato paramilitare mi raccontò come aveva squartato viva una ragazza. Da quando il presidente Petro ha nominato diciotto “gestori di pace”, la Colombia si è divisa tra quelli che abbozzano e quelli che si chiedono con che coscienza si può affidare la pace a criminali che hanno costretto a vivere nella paura, ucciso e fatto sparire nelle fosse comuni decine di migliaia di persone»
![In fuga verso il Venezuela sul fiume Tibú nel Catatumbo, la regione della Colombia dove negli ultimi giorni sono state uccise almeno 80 persone. 21 gennaio 2025 (AP Photo/Fernando Vergara)](https://static-prod.cdnilpost.com/wp-content/uploads/2025/01/27/1737972393-catatumbo.jpeg)
Al centro della politica del presidente della Colombia Gustavo Petro, il primo di sinistra nella storia del paese, c’è la “Paz Total”, un ambizioso programma di riconciliazione nazionale basato su una serie di accordi con le bande criminali e i gruppi armati. Ma nonostante la buona volontà e l’impegno del governo, disposto a fin troppe concessioni pur di arrivare alla pace, quel monumentale piano sembra sempre più un miraggio. L’ultimo colpo è la spaventosa offensiva che l’Ejército de Liberación Nacional (Eln), la guerriglia più longeva dell’America Latina, ha scatenato nelle terre del Catatumbo, una regione al confine con il Venezuela coperta di piantagioni di coca. Ne ha parlato anche il papa all’Angelus, dopo che in pochi giorni almeno ottanta persone sono state assassinate e oltre 40.000 costrette a fuggire. E dire che l’Eln (i cosiddetti “elenos”) è il gruppo armato con cui i negoziatori dello Stato avevano fatto più progressi.
Tra lunghe interruzioni e impasse, c’erano stati incontri a Caracas, Città del Messico e L’Avana in cui era stato raggiunto qualche risultato, ma da diversi mesi la faccenda si era ingarbugliata e questa nuova ondata di violenza la ingarbuglia sempre di più. Appena è cominciata, Petro non solo ha dichiarato chiusi i negoziati, ma ha decretato lo stato di “Conmoción Interior”, una misura eccezionale che lo Stato prende quando i pericoli per l’ordine pubblico e la sicurezza sono così gravi che a contenerli non bastano i normali poteri della polizia. Altro che Paz Total, insomma.
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Ogni volta che me ne parlano, mi ricordo di quando un paramilitare conosciuto a Ciudad Bolívar, un quartiere disgraziato e gigantesco nel sud di Bogotà, mi raccontò come aveva squartato viva una ragazza. Non era entrato troppo nei particolari, ma la descrizione era stata sufficientemente vivida da suscitare un orrore che sconfinava nell’incredulità. Davvero quel ragazzino meno che diciannovenne, con lo sguardo limpido, la pelle cotta dal sole della gente di campagna, aveva ucciso una ragazza squartandola? Quel tipo aveva un’aria troppo sofferente e un modo troppo compulsivo di rigirarsi tra le mani il crocifisso appeso al collo perché io potessi pensare che stesse millantando.
Parlava come uno che da tempo aspettasse di sfogarsi e, forse, quell’estranea conosciuta due ore prima per lui fu la persona adatta. «Dopo quella volta non l’ho più voluto fare. Mi hanno sfottuto e minacciato, e così con tutta la famiglia sono venuto a Bogotà». Gli avevo chiesto, guardando il crocifisso: «Sei credente?». E lui, quasi sorpreso: «Claro que sí!».
Era la prima volta che qualcuno mi parlava di quella pratica che sarebbe diventata di dominio pubblico qualche tempo dopo, grazie alla confessione del paramilitare Francisco Villalba detto Cristian Barreto nella prigione di La Picota di Bogotà. Per ottenere uno sconto di pena per i massacri di cui era accusato, Villalba aveva rivelato di aver ricevuto l’ordine di squartare viva una ragazza nei primi anni Novanta, ai tempi del suo addestramento. Quel rituale era un passaggio obbligato per diventare un paraco, un paramilitare: uno capace di fare a pezzi a colpi di machete gente accusata di appoggiare la guerriglia, le Farc.
A chi sarà mai venuta l’idea, mi sono chiesta spesso vedendo in tv i capi della Auc, i paramilitari delle sanguinarie Autodefensas Unidas de Colombia? Al super boss Salvatore Mancuso, oggi in prigione in Colombia dopo sedici anni passati in carcere negli Stati Uniti per averci fatto arrivare 100.000 chili di cocaina? Prima di essere estradato negli Stati Uniti, in patria era stato punito con una condanna esigua grazie alla discussa legge Justicia y paz del 2005, che aveva stabilito pene massime di otto anni anche per i più feroci paramilitari che si fossero smobilitati e avessero contribuito a far conoscere la verità sui propri crimini. O l’idea era venuta al comandante del famigerato Bloque Norte, Rodrigo Tovar Pupo alias Jorge 40, un assassino con un curriculum raccapricciante di massacri, stupri e villaggi bruciati?
Due anni fa, guardandolo in un processo in cui cercava di ottenere impunità, mi chiedevo con che faccia quell’imbolsito criminale tirasse fuori certe storie inverosimili: «Giuro dal profondo dell’animo di non aver mai pensato di imbracciare un’arma per nuocere al mio prossimo». Eppure, secondo un altro tribunale nel 2000 erano stati proprio lui e Mancuso a ordinare un massacro nella regione del Bolívar, in cui sessanta contadini erano stati squartati e sgozzati, e molti altri costretti a fuggire lasciando casa e campi.
Oggi Jorge 40 e Mancuso sono tra i diciotto “gestori di pace” nominati dal presidente Petro, che è entrato in carica nell’agosto del 2022, per favorire la Paz Total e aprire i dialoghi con tutti i fronti di conflitto: non solo con i gruppi “politici” ma anche le organizzazioni criminali come il potente Clan del Golfo, che secondo la Defensoria del Pueblo (l’organismo del Ministerio Público incaricato di difendere diritti umani e libertà) conterebbe su ben 14.000 uomini in 24 dipartimenti sui 32 del paese per gestire il narcotraffico o la vacuna, il pizzo sulle imprese.
Da quando i media hanno annunciato la nomina dei diciotto ceffi (a cui nel frattempo verrebbero sospesi gli ordini di cattura e le pene carcerarie e il cui ruolo è quello di affiancare i negoziatori), la Colombia si è divisa tra quelli che abbozzano e quelli il cui pensiero è questo: con che coscienza si può affidare la pace a criminali che hanno costretto a vivere nella paura, ucciso e fatto sparire nelle fosse comuni migliaia di persone come i tre figli di Rosalba Velásquez, nel nord dell’Antioquia? È giusto che a favorire la riconciliazione sia chiamato l’ex capo paramilitare Hernán Giraldo, detto El Taladro (Il Trapano), per l’indefessa attività sessuale rigorosamente con minori (oltre duecento secondo stime extragiudiziali), la più piccola delle quali aveva undici anni?
Oggi lui dice: «Sono contento di dare un contributo alla pace». Ed è vero che dodici anni nelle carceri statunitensi per narcotraffico e quattro in una prigione colombiana, dove è ancora rinchiuso, hanno sgonfiato l’aria da bullo in cinturone e pistola con cui appariva nelle foto di vent’anni fa e con cui si presentava alle bambine da stuprare. Adesso fa quasi pena da quanto è consumato, ma fino a che punto ci si può spingere per qualche traccia di senile pentimento? E fino a quale limite il perdono, lodevole di suo, da sentimento personale può diventare scelta di uno Stato?
Più di cinquant’anni è durata la guerra che ha contrapposto Stato e Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, uno dei più importanti gruppi guerriglieri di estrema sinistra dell’America Latina), e dieci quella tra le Farc e i gruppi paramilitari di estrema destra nati per far fuori i “sovversivi” (i quali da gruppo nato per combattere per la giustizia sociale si erano riciclati in narcos). Tra il 1985 e il 2018 si calcola siano morte più di 450mila persone, mentre i desaparecidos sono 121mila. I termini della violenza oggi sono cambiati, le parti smantellate o atomizzate, ma anche adesso sono molti i gruppi armati che controllano una parte del paese con illegalità e terrore. Stando a The Global Initiative against Transnational Organized Crime, sarebbero quindici gruppi divisi in ottanta fronti. La Colombia è così il secondo paese al mondo dopo il Congo per numero di organizzazioni armate. Soltanto nel 2024 ci sono stati 76 “massacri”, cioè omicidi simultanei e intenzionali di almeno tre persone, e nella prima metà dell’anno sono stati assassinati 87 attivisti, o leader sociali, come li chiamano in Colombia.
Quando, qualche anno fa, intervistai la vedova di Pablo Escobar, il figlio Juan Pablo che assisteva all’intervista mi raccontò di come avesse rintracciato i familiari di molte vittime del padre per chiedere perdono. Di alcuni era diventato amico, in particolare di Jorge Lara, il figlio del ministro della Giustizia Rodrigo Lara Bonilla che ai tempi di Escobar si batteva per farlo estradare negli Stati Uniti e che il boss aveva provveduto a far assassinare, a 37 anni e con quattro figli piccoli. Insomma, Jorge e Juan Pablo erano diventati così intimi che quando li vedevi, nei video in cui ridevano come ragazzini, ecco che tutto il male fatto sembrava perdere vigore. Quando gli ammazzarono il padre, Juan Pablo Escobar aveva sedici anni: «Giuro di vendicarmi», aveva detto tra le lacrime. Invece diventò un motivatore che, quando parlava di riconciliazione, si animava e teneva conferenze per spiegare ai giovani quale sventura fosse il narcotraffico, e come non ci fosse privilegio e ricchezza che lo ripagasse.
La prima legge promulgata da Petro per favorire la Paz Total e la fine del conflitto, che al momento ha nove fronti aperti, ha autorizzato negoziati di pace con tutti i gruppi armati, ma prevedeva accordi solo con quelli politici che potevano beneficiare della cosiddetta “giustizia di transizione”, che permetteva ai membri di evitare il carcere. Alle organizzazioni criminali, invece, si richiedeva il sometimiento (la sottomissione). Ed è qui che sorge il primo intoppo, perché nessun gruppo accetta la sottomissione.
«Da qualche anno le organizzazioni criminali hanno subito una sorta di trasfigurazione», mi spiega Andrés Preciado, direttore del dipartimento Conflitto e Sicurezza della Fundación Ideas para la Paz. «Si fanno chiamare “Ejército” e fanno indossare ai loro membri abiti militari». E infatti il Clan del Golfo è diventato Ejército Gaitanista de Colombia, anche se quasi tutti i suoi membri arrivano dalla disciolta Autodefensas Unidas de Colombia, cioè dai paramilitari. A comandarlo fino a qualche anno fa era un altro celebre assassino e stupratore di bambine, Dairo Antonio Úsuga detto Otoniel, oggi in galera negli Stati Uniti. Quello nuovo, tal Chiquito Malo, ha detto: patto di sottomissione mai.
Un altro intoppo è che è impossibile tracciare una linea netta, perché anche i gruppi “politici” si dedicano ad attività illegali. Chi è mai disposto a rinunciare alle sontuose entrate garantite dallo sfruttamento delle miniere d’oro o delle coquerías, gli impianti per la raffinazione della coca, se la contropartita non è più che vantaggiosa? Succede spesso che i dialoghi già avviati si interrompano e che i gruppi si scindano perché una parte vuole continuare e l’altra no. Iván Mordisco, il capo del Estado Mayor Central, un gruppo derivato dalle Farc, si è smarcato dalle trattative portando con sé più della metà dei combattenti, mentre il resto è rimasto al fianco di Calarcá Córdoba, un veterano che ha fatto costruire una scuola per cinquecento bambini nella Sabanas del Yarí, nella regione del Caquetá. La differenza: il gruppo di Calarcá si limiterebbe a chiedere ai contadini un’imposta sulla coca coltivata, mentre Mordisco sarebbe un narcotrafficante vero e proprio, che sequestra ragazzini per arruolarli e perseguita le comunità indigene che si ribellano all’espropriazione delle terre. Per capirci.
Orientarsi nel ginepraio di organizzazioni armate che rendono più difficile la Paz Total voluta da Petro non è per niente facile. Nel 2012 l’allora presidente Juan Manuel Santos decise di trattare con le Farc, con cui raggiunse un accordo nell’agosto del 2016 a L’Avana. Sotto lo sguardo soddisfatto di Raúl Castro, una foto immortala la stretta di mano tra il leader delle Farc, Rodrigo Londoño detto Timochenko, e il presidente colombiano (che grazie agli accordi avrebbe vinto il Nobel per la Pace). Purtroppo, però, una minoranza delle Farc si rifiutò di negoziare mentre un’altra minoranza firmò gli accordi ma non li rispettò e riprese le armi. La prima minoranza è, appunto, l’Estado Mayor Central di Mordisco, l’altra è la Segunda Marquetalia, che a sua volta si è spaccata tra chi vuole continuare i dialoghi con Petro e chi li ha interrotti. Estado Mayor Central e Segunda Marquetalia sono chiamate entrambe disidencias, le “dissidenze”, e rappresentano uno dei maggiori ostacoli al cammino di pacificazione di Petro.
Per capire il contesto in cui si muove il presidente, va detto che dopo gli accordi dell’Avana una parte della guerriglia ha mantenuto gli impegni e deposto le armi, ma non si può dire lo stesso dei governi. Per esempio è stato un fallimento il piano per la sostituzione delle piantagioni di coca con altre di prodotti legali perché ai cocaleros sono arrivati pochi dei soldi garantiti per seminare piante lecite. Chi aveva eradicato la coca contando su quei fondi, alla fine l’ha ripiantata. Accanto a queste storie sconfortanti affiorano però anche scene che commuovono. Ex paramilitari ed ex Farc che cantano abbracciati canzoni di riconciliazione, o che aprono insieme imprese in armonia, quando soltanto pochi anni prima si scannavano.
I governi colombiani non sono riusciti a rispettare i patti nemmeno sulla tutela della sicurezza, che rappresentava uno dei punti degli accordi. Lo Stato avrebbe dovuto mandare militari a proteggere le popolazioni dei territori abbandonati dai guerriglieri, ma non lo ha fatto e in quelle zone sono arrivati nuovi criminali che hanno ricominciato a coltivare coca e a imporre tasse ai campesinos, assassinando chi si ribella. Per assicurarsi la fiducia della gente, però, investono parte del denaro in scuole e centri di salute, ambulanze o strade.
La violenza continua in molti dipartimenti: il Nariño, la regione del sud-ovest affacciata sul Pacifico dove ci sono le più grandi piantagioni di coca; le montagne del Cauca, dove nel 2024 sono stati reclutati 214 bambini; e nel Putumayo, zona amazzonica al confine con l’Ecuador. Qui lavora Fátima Muriel, fondatrice delle Tejedoras de Vida, l’unico gruppo per la riconciliazione formato soltanto da donne, che oggi comprende 65 associazioni. È una signora minuta di 74 anni a cui i paramilitari hanno ammazzato due fratelli e le Farc hanno sequestrato il marito. Fátima Muriel crede nel «potere pacifico trasformatore che alberga in ogni essere umano», eppure quando le chiedi della Paz Total scuote la testa e sospira.
Non è la sola. Anche Yadira ha avuto la stessa reazione. Non la sentivo da otto anni, era una militante delle Farc nei gruppi di negoziazione dell’Avana. A quindici anni aveva detto alla madre: «Vado a iscrivermi a un corso di dattilografia», e invece era sparita per unirsi alla guerriglia. Sognava di diventare giornalista, le ho scritto per sapere se ci fosse riuscita. È stata contenta di sentirmi, ed è contenta della sua vita – sta frequentando un corso di comunicazione politica – ma alla pace non crede.
Secondo un sondaggio del novembre del 2024, soltanto il 27 per cento dei colombiani pensa che i tentativi di Petro avranno successo. E questo anche se ci sono innumerevoli organizzazioni e le iniziative per la pace sono ovunque, dall’arte alla letteratura. A occuparsi di negoziati e attuazione degli accordi, però, è una macchina monumentale fatta di organismi e tribunali che molti accusano di essere farraginosi e scoordinati.
Ma Yezid Arteta è convinto che sia l’unica strada, anche quando sembra irraggiungibile. Anche per quel motivo Petro lo ha scelto tra i negoziatori con l’Estado Mayor Central, prima che si spaccasse. Adesso Arteta vive a Barcellona, dove scrive libri di successo e lavora come risolutore di conflitti, ma negli anni Novanta era stato un capo del Bloque Sur, uno dei grandi nomi delle Farc. Fu condannato a dieci anni, che si fece senza sconti fino a quando tornò in libertà nel 2006 e dichiarò chiusa la sua storia con la lotta armata.
Anche Juan Carlos Velásquez, che ha i capelli lunghi da rockstar e nel poco tempo libero si dedica a fare sculture, mi dice che in vita sua non ha mai conosciuto un delinquente contento di esserlo. Sono centinaia quelli che ha convinto a smettere di assassinare. E infatti nel barrio Las Violetas di cui è parroco e che fino a due anni fa era il più violento della città di Medellín, oggi gli omicidi stanno a zero. Se molti capi delle gang hanno deposto le armi, dice che il merito è di mediatori come lui, non della politica, perché neppure con i gruppi armati urbani la Paz Total sta facendo passi avanti.