Dinamiche dei menu dei ristoranti
«Anni fa avevo cominciato a collezionarli. Poi ho capito che frequentavo sempre gli stessi posti e ho rinunciato. Adesso passo il tempo a guardare la collezione digitale della New York Public Library per vedere come sono cambiati. Quello che so per certo è che i “tris” non vanno più da un pezzo, e neanche il cocktail di gamberi in salsa rosa. L’impaginazione, i formati, la carta, i caratteri, la consistenza della copertina sono sempre stati più numerosi di quelli dell’editoria dei libri. Eppure in questa infinità virtuale, di ieri e di oggi, è forse possibile individuare tre macro categorie: i grafici/tipografici, gli illustrati e gli scritti a mano, come quello dell'Oyster Bar di New York»

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Tempo fa – non so dire esattamente quando – mi ero convinto che i ristoranti migliori fossero quelli con i quadri più brutti alle pareti. E anche un po’ trasandati nell’“impiattamento” (non si può sentire) e nell’arredo.
Oggi non esco più a cena quasi tutte le sere come una volta, ma forse lo stesso criterio si può applicare ai menu, tanto alla forma quanto al contenuto: meno è ricercato, ben impaginato e pieno di descrizioni anche eccessive, forse meglio si mangia (e magari meno si spende).
Il più ricco menu apparentemente “scritto a mano” ogni giorno che io conosca è quello dell’Oyster Bar della Grand Central di New York: una lenzuolata verticale di 45 cm per 30 (la grandezza del Corriere della Sera e del New York Times, più o meno) scritto bianca/volta (davanti e dietro) dove sono elencate circa 130 specialità marinare, soprattutto ostriche (i pesci-pesci sono in minoranza), una trentina di marche di birra, circa 200 bottiglie di vino dalla Nuova Zelanda all’Australia, il contrario del km zero. Una volta per averlo tra le mani bisognava andarci di persona o farselo portare da chi ci andava, da anni lo possiamo leggere quotidianamente “fresco” di giornata. Nonostante la sfacciata esagerazione del suo menu, o forse proprio per la sfacciata esagerazione del suo menu, l’Oyster Bar rimane per me uno dei pochi locali al mondo che si merita un pellegrinaggio.
Anni fa avevo cominciato a collezionarli, i menu. Poi ho capito che frequentavo sempre gli stessi posti e ho rinunciato. Adesso passo il tempo a guardare la collezione digitale di menu della New York Public Library per vedere come sono cambiati. Quello che so per certo è che i “tris” non vanno più da un pezzo, e neanche il cocktail di gamberi in salsa rosa. L’impaginazione, i formati, la carta, i caratteri, la consistenza della copertina sono sempre stati più numerosi di quelli dell’editoria dei libri.
Eppure in questa infinità virtuale, di ieri e di oggi, è forse possibile individuare tre macro categorie: i grafici/tipografici, gli illustrati e gli scritti a mano. In vita mia mi è capitato di vedere menu raffinatissimi impaginati in caratteri Bodoni alla FMR (Franco Maria Ricci) e altri (ormai la maggior parte) scritti con il pc; ho sfogliato quelli alla cino/giap pieni di illustrazioni fotografiche per rendere i piatti immediatamente comprensibili e quelli scritti a mano con la biro per sembrare più sinceri e familiari, e poi fotocopiati e infilati in cartelline plastificate, a volte unte. Forse per questo, dal Covid in poi sui menu compare sempre più spesso il QR code offrendo agli avventori un motivo in più per smanettare con lo smartphone. Se ne sentiva il bisogno.
A volte nei menu si trovano, oltre ai piatti e ai prezzi, anche avvisi per gli avventori, o battute più o meno spiritose. Sul menu di uno dei ristoranti più famosi del mondo (l’Harry’s Bar di Venezia) compariva l’invito a non esagerare in profumi troppo invadenti e si avvisava che il fumo di sigaro (neanche sigaretta, sigaro) avrebbe compromesso la perfetta cottura del risotto. Mi ricordo che di fianco a me, nel tavolo d’angolo, c’erano Catherine Deneuve e Marcello Mastroianni, che di sigarette ne mandava in fumo una via l’altra senza che nessuno avesse da ridire. Oggi, visto che da vent’anni in Italia nei ristoranti non si può fumare, sul menu dell’Harry’s Bar si legge che la cottura del risotto è seriamente compromessa dall’uso del telefonino.
Mi è capitato molti anni fa di trovarmi in un ristorante di Tokyo senza menu. Era un piccolo anfiteatro al cui centro si sviluppava una piccola piramide a gradoni su cui era esposto un mercato di ogni ben di dio da indicare agli chef, due samurai in kimono armati di lunghissime bacchette, che poi procedevano alla cottura (se il cibo scelto dai clienti, seduti alla base e ai bordi della piramide, era da cuocere). La cosa più strana – ho desunto, non sapendo il giapponese – è che il menu si componeva oralmente in base delle scelte degli avventori: se infatti indicavi un pesce o una verdura disposta sui gradoni, uno dei samurai annunciava la tua scelta a gran voce agli altri clienti e al secondo samurai che, sempre ad alta voce, si complimentava con la scelta e augurava buon appetito.
Trent’anni fa sono stato in un altro ristorante senza menu, ma assomigliava di più a un take away o un supermarket. Forse oggi ne esistono altri, non so. Allora era famoso un mercato ittico popolare alla periferia di Bangkok, un grande spazio all’aperto dove potevi scegliere tra un’infinità di pesci, molluschi e crostacei. Passavi alla cassa, pagavi, poi con il “pescato” ti dirigevi dai cuochi per discutere e decidere il tipo di cottura e preparazione. Il servizio di cucina, cioè i cuochi, si pagava a parte, poco.
Nel menu di una volta non mancava mai la voce “pane e coperto” in apertura di elenco. Oggi il “coperto” suscita una certa riprovazione e tende a scomparire: con “coperto”, infatti, si intende il corredo per la tavola, la tovaglia, le posate, i bicchieri, i piatti, ecc, che venivano fatti pagare quando, nel Medioevo, era possibile consumare nel ristorante, al riparo del maltempo, al coperto appunto, il cibo portato con sé. Oggi il pane invece, tranne rari casi, è così scadente che il prezzo non lo mette quasi più nessuno. E c’è anche chi con un certo snobismo mette il prezzo del coperto scrivendo euro 0.00 per rimarcarne l’assenza.
Un’altra grande differenza, di costume, riguarda le differenze di genere: fino a vent’anni fa nei ristoranti più in vista e lussuosi (aggettivo che non si usa più, oggi si dice esclusivi o inclusivi) il direttore di sala porgeva al cavaliere un menu con i prezzi e alla dama lo stesso menu “in bianco”, senza prezzi. E la distinzione – oggi impensabile – era in re ipsa, nella cosa stessa, come dire “autoevidente”. Oggi il menu in bianco è sparito. La causa scatenante, mi è stato riferito, è stata una influencer australiana inviperita che qualche anno fa denunciò per sessismo il ristorante di un albergo 5 stelle di Venezia. Non è stata la prima e neppure l’ultima. Leggo che, nei primi anni Ottanta, L’Orangerie, un ristorante di Los Angeles che proponeva un “ladies menu” senza prezzi, fu portato in tribunale per aver violato il Civil Rights Act della California e perse. Ancora nel 2010, come ha raccontato sull’Independent la giornalista e food critic Tracey MacLeod, il tristellato ristorante londinese Le Gavroche (chiuso dal 2024) porgeva alle signore un menu senza prezzi per i tavoli prenotati da uomini mentre un regolare menu con i prezzi per i tavoli prenotati da donne.
Quello che mi pare evidente, al di là delle battaglie per la parità, è che in generale i ristoratori dedichino molte più energie di un tempo non solo all’impaginazione – in alcuni casi è evidente la mano di uno studio grafico – ma anche alla scrittura, e non solo perché sui menu dei ristoranti gli errori di stampa sono più rari che nei giornali. Là dove un tempo c’era scritto semplicemente “Cotoletta alla milanese” adesso è facile leggere “La Cotoletta alla Milanese”. Là dove c’erano “Spaghetti al pomodoro” adesso si possono trovare «Gli spaghetti di Gragnano IGP trafilati al bronzo, prodotti con grano 100% italiano, essiccati a bassa temperatura in celle statiche e confezionati a mano col suo Pomodoro S. Marzano Dell’Agro Sarnese Nocerino Dop». E così per tutti gli altri piatti. Il cambiamento maggiore riguarda gli articoli, i dettagli e gli aggettivi possessivi (il suo pomodoro di San Marzano). E una certa generale tendenza a metterla giù dura: sul menu di un altro ristorante milanese e di cucina milanese per quanto rivisitata, un ristorante che amo molto (non facciamo nomi e pubblicità gratuita) è scritto che la Costoletta alla Milanese (con la “s”) è fuori menu, ma si può avere su ordinazione con almeno due giorni di preavviso. E l’informazione è ripetuta anche in segreteria telefonica. La madonna.
Per quanto mi riguarda, mi sono stufato di leggere una quantità esagerata di descrizioni sempre più particolareggiate sulla preparazione, la consistenza, la provenienza. Se vado al ristorante mi piace che ci sia qualcuno a propormi quello che “bolle in pentola” o passa il convento. Vorrei essere ristorato, non costretto a immergermi in una lettura che pretende tempo e attenzione e men che meno ascoltare qualcuno/a che mi descrive in piedi, a memoria e con grande sussiego, ogni singolo ingrediente di quel che, a quel punto, avrei solo voglia di assaggiare. Se poi non mi chiedono niente e fanno loro (per questo ormai vado solo nei ristoranti di cui mi fido e che mi conoscono), meglio ancora. Vale anche per la carta dei vini, che sempre più spesso è un elenco infinito di nomi che, se non li conosci già, non dicono niente, se non il prezzo.
“Menu” come si sa è un termine francese che sta per “minuta”: una lista appuntata di piatti a disposizione, non di più. Sulle origini del menu se ne leggono di tutti i colori ed è per me impossibile garantire la versione più credibile. Quello che si può dire è che il menu come lo intendiamo noi è nato in Francia a metà Ottocento, dopo la rivoluzione francese e con quella industriale, quando la borghesia prese l’abitudine di andare a mangiare al ristorante. A fidarsi dell’editore Zanichelli, e perché non dovremmo, il primo menu in lingua italiana apparve solo nel 1911, quando i Savoia adottarono l’italiano come lingua ufficiale di corte, senza però abbandonare i piatti della grande cucina francese (la cosa strana è che il menu di un “pranzo alla russa” la cui prima portata era la zuppa di testuggine fu offerto mercoledì 1 marzo 1848 per celebrare lo Statuto Albertino).
Il più citato, per le drammatiche e lussuose circostanze in cui è passato alla storia, è certamente quello da cui i passeggeri di prima classe del Titanic ordinarono la loro ultima cena il 14 aprile 1912 – filetto di rombo, uova all’Argenteuil, pollo alla Maryland – che nel 2015 è stato aggiudicato in un’asta per 118mila dollari. (In terza classe mangiarono porridge, aringhe e patate)
Con i dettagli è difficile fermarsi, perché si va troppo in dettaglio e si rischia di perdere la visione d’insieme. Anche il sale dell’Himalaya o del mar del Giappone (tanto per dire) o l’olio del lago di Como (da alcuni degli ulivi più settentrionali al mondo) o il peperoncino della zia calabrese dell’aiuto cuoco dovrebbero figurare da qualche parte sul menu. E il grana, parmigiano reggiano, padano o lodigiano grattato in diretta sul risotto non vogliamo citarlo? E infatti a volte lo citano. E lo stuzzicadenti – il toothpick o cure-dent – così antiquato e poco fine da esibire? Anche di quello dovremmo conoscere il nome del legno in cui è stato intagliato?
Non c’è rischio, di questo passo, che il menu e la lista delle bevande (da un po’ ci sono anche i cocktail, i tè, le tisane) si trasformino in un listino prezzi da ferramenta? A questo punto, diciamola tutta: allora anche i tavoli “migliori” con vista o d’angolo o non so cosa dovrebbero avere quotazioni diverse come le poltrone o i palchi della Scala. Pane e coperto di un tavolo in prossimità dell’anta battente della cucina dovrebbero venir rimborsati con gli interessi. Anche i giorni di punta e gli orari dovrebbero avere un peso. Sullo sgabello al banco lo stesso prezzo?
E se si presenta al tavolo lo chef stellato a contarcela su non vogliamo dargli un valore?