La paura di chiamare le persone con il loro nome
L’“alessinomia” è un disagio psicologico poco studiato e non ben definito, ma mostra quanto sia varia e articolata la funzione sociale dei nomi

In una delle scene più famose e citate della serie tv Breaking Bad il protagonista incontra in mezzo a un deserto, per espandere la sua attività criminosa, un gruppo di temibili trafficanti di metanfetamine che non ha mai visto prima. Propone loro di lavorare insieme, e si rivolge quindi al loro capo dicendo: «Di’ il mio nome». Il suo interlocutore esita a rispondere, cambia discorso, ma alla fine unisce i puntini e conclude che ha davanti a sé il misterioso nuovo boss di cui tutti parlano. «Sei Heisenberg», gli risponde.
Nella scena di Breaking Bad il trafficante temporeggia perché sa che in quelle particolari circostanze riconoscere il suo interlocutore chiamandolo per nome vorrebbe dire riconoscerlo come capo e accettare un ruolo di subalternità nell’accordo. Ma anche nelle interazioni quotidiane tra persone che si conoscono, in alcuni casi molto bene, ci sono diverse altre ragioni per cui usare i nomi di persona degli altri può generare imbarazzo, disagio o persino ansia e paura.
In un articolo da poco pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Anxiety Disorders un gruppo di psicologi dell’università Sigmund Freud di Vienna ha definito questa condizione alessinomia: significa, letteralmente, essere privi di parole per i nomi (dal greco a-, “mancanza”, lexis, “parola”, e onoma, “nome”). È una fobia poco conosciuta e ancora poco studiata, la cui definizione era già stata proposta nel 2019 dalla psicologa Lisa Welleschik, coautrice dell’articolo recente. Le persone che dicono di soffrirne fanno fatica a usare i nomi dei loro familiari e amici più cari, pur volendo farlo, in ogni tipo di relazione e comunicazione con loro.
Sulla base dei risultati di una ricerca condotta su 190 persone Welleschik e i suoi colleghi hanno ipotizzato che l’alessinomia sia un sintomo importante ma finora trascurato dell’ansia sociale: un disturbo caratterizzato dalla tendenza a evitare situazioni in cui ci si può sentire osservati e giudicati. In un precedente studio pubblicato nel 2023 lo stesso gruppo di ricerca aveva intervistato 13 donne di lingua tedesca che avevano descritto le loro difficoltà a pronunciare il nome di altre persone.
Una di loro aveva detto di provare questo disagio da sempre, fin da quando da bambina doveva sforzarsi per pronunciare i nomi dei suoi compagni di classe. Aveva preso seriamente coscienza del problema solo dopo avere incontrato il suo futuro marito: «volevo chiamarlo per nome, ma non ci riuscivo», «ancora oggi mi viene difficile, e dico sempre “tu”, “hey”, o cose del genere».
Un’altra persona aveva raccontato di una volta in cui, mentre aiutava il suo fidanzato e altri agricoltori a seminare patate in un campo, non era riuscita a pronunciare il nome di lui, che era alla guida di un trattore, pur dovendo richiamare la sua attenzione per dirgli di rallentare. Aveva solo urlato «ehi, ehi, ehi!» tutto il tempo, e alla fine lui si era accorto che qualcuno lo stava chiamando soltanto quando un’altra signora lo aveva chiamato per nome.
In una successiva ricerca, pubblicata nel 2024, Welleschik e gli altri analizzarono le descrizioni dell’alessinomia fornite online da decine di persone di diversi paesi del mondo. Molte persone la percepivano in generale come una condizione negativa, che le faceva sentire imbarazzate, insicure, bizzarre e diverse dalle altre. Nei casi più gravi non riuscivano a dire i nomi in qualsiasi circostanza; in altri casi, dicevano di sentire questo disagio in particolare con coniugi, familiari e amici intimi.
Non è chiaro quali siano le cause dell’alessinomia, che di solito emerge durante l’infanzia o l’adolescenza. Chi se ne occupa da alcuni anni, tra cui lo psicologo Thomas Ditye, coautore delle ricerche di Welleschik, ipotizza che tra i possibili fattori alla base del disagio ci siano esperienze infantili difficili o problematiche, tra cui aver subìto atti di bullismo a scuola, o traumi e violenze in famiglia.
Alcune persone che non riescono a usare i nomi di persona, secondo Welleschik e Ditye, mostrano in generale una difficoltà a regolare ed esprimere le loro emozioni. Tendono a relazionarsi agli altri perlopiù tramite contatto fisico o visivo, se sono in una conversazione, oppure a evitare del tutto situazioni che richiedono di usare i nomi. Ma non lo fanno tutte per la stessa ragione. C’è chi non usa i nomi propri perché lo considera un modo troppo intimo e irrispettoso di rivolgersi a un’altra persona, soprattutto se quella persona ha uno status più elevato. E c’è chi non li usa perché, al contrario, pensa che siano troppo formali e creino una distanza indesiderata in interazioni intime.
Per molti aspetti la funzione sociale dei nomi nelle società occidentali è difficile da definire in termini assoluti, ha scritto la giornalista scientifica dell’Atlantic Shayla Love. Non usiamo il nome proprio con persone che consideriamo gerarchicamente superiori a noi, ma tendiamo a non usarlo nemmeno con familiari o amici intimi, preferendo parole che esprimono la relazione («mamma», «zio») o soprannomi affettivi. A volte usare i nomi propri in interazioni di questo tipo può suonare impersonale, farci sentire come qualcuno che cerca di vendere qualcosa (come capita, per esempio, in certe newsletter programmate per far comparire al primo rigo in automatico il nome del destinatario).
Questa versatilità dei nomi dipende in parte dal fatto che usarli nelle conversazioni è facoltativo. Quando un elemento non è grammaticalmente necessario tende infatti ad avere un significato sociale rilevante, ha spiegato all’Atlantic Steven Clayman, professore di sociologia alla University of California Santa Barbara. Usare i nomi può avere implicazioni diverse a seconda delle circostanze e di chi sta parlando: se un genitore si rivolge al figlio o alla figlia pronunciando il nome per esteso, per esempio, è probabile che lo faccia per una lavata di capo.
Anche la posizione del nome nella frase può cambiare molto il senso di un’interazione e, in alcuni casi, esprimere disaccordo o ostilità. Ripetere un nome troppe volte può invece far sembrare la conversazione innaturale e artefatta. «Può essere che le persone con alessinomia abbiano questa intuizione istintiva, in sé corretta, che usare un nome significhi prendere posizione, fare qualcosa, e forse qualcosa che non intendiamo», ha detto Clayman. E può darsi che preferiscano quindi non usare affatto i nomi, nel dubbio che l’interlocutore o l’interlocutrice possa fraintenderli interpretandoli come un segno di vicinanza o di ostilità.