Perché la creatività a un certo punto comincia a diminuire?

I primi film, dischi o libri sono spesso i più innovativi, e dipende dall'età di chi li fa ma anche dal contesto produttivo e dalle aspettative

Mick Jagger canta vicino a Bruce Springsteen, che suona la chitarra, come Ronnie Wood, sullo sfondo
Ronnie Wood e Mick Jagger dei Rolling Stones con Bruce Springsteen al festival Rock in Rio a Lisbona, il 29 maggio 2014 (EPA/JOSE SENA GOULAO)
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Nel 1941, a 25 anni, uno dei più influenti artisti del Novecento girò negli Stati Uniti il suo primo film, da molti considerato ancora oggi il più importante della storia del cinema. Fu il primo a proporre un tipo di luci, inquadrature e narrazione che sarebbero poi diventate tecniche consuete, rivoluzionando precedenti pratiche che avevano contraddistinto il cinema fin dalle sue origini, alla fine dell’Ottocento. Lui era Orson Welles e quel film era Quarto potere.

Anche se la maggior parte delle persone ha un’idea chiara di cosa sia la creatività, non esiste una definizione semplice e precisa che le metta tutte d’accordo. Nel libro The creative mind la neuroscienziata inglese Margaret Boden distingue tra una creatività personale e un’altra storica: la prima è quella che porta a scoprire qualcosa di già scoperto da altri (un bambino che nota che la pelle delle dita nell’acqua raggrinzisce, per esempio); la seconda è quando una persona pensa e fa qualcosa mai fatta prima da altre.

Che sia definita come capacità di esprimere idee originali, di associare elementi eterogenei, o di risolvere problemi, la creatività è descritta in molta letteratura scientifica come una competenza fondamentale sia nelle scienze che nelle arti, in tutte le discipline. Ed è abbastanza frequente, come nel caso di Welles, che la fase più creativa nella vita di chi produce arte sia quella iniziale: i primi film, i primi dischi, i primi libri. Non è una regola, chiaramente, e anzi è una tendenza che ammette numerose eccezioni e che varia molto a seconda dell’ambito artistico e di altri fattori.

Welles è probabilmente l’esempio più significativo, nel cinema, ma non l’unico. Undici anni prima di Quarto potere, in Francia, il regista spagnolo Luis Buñuel aveva diretto a 29 anni, in collaborazione con il suo connazionale e quasi coetaneo Salvador Dalí, un cortometraggio diventato il più significativo del cinema d’avanguardia surrealista: Un chien andalou.

La scena della campagna elettorale di Charles Foster Kane

L’attore e regista statunitense Orson Welles nel film del 1941 Quarto potere (Hulton Archive/Getty Images)

Altri esempi sono David Lynch e Quentin Tarantino, due dei più ammirati e innovativi registi statunitensi. Sono entrambi stati creativi per tanti aspetti e in molti momenti diversi delle loro carriere. Ma i loro rispettivi primi film – Eraserhead, del 1977, e Le iene, del 1992 – sono spesso citati dalla critica e dal pubblico come due dei debutti più originali nella storia del cinema. Un altro esempio di film statunitense stracitato per originalità è Mean Streets, non il primo ma comunque il terzo di Martin Scorsese, uno che ne ha girati più di 40 inclusi i documentari.

Un discorso simile, con le dovute proporzioni, vale anche per registi meno influenti e famosi i cui primi film furono creativi più dei successivi: Neill Blomkamp con District 9, per esempio, o Richard Kelly con Donnie Darko. E vale anche per registi emersi per un certo loro stile sperimentale e creativo, come Christopher Nolan, Tim Burton o Wes Anderson, e poi diventati famosi per film di grande successo commerciale seppure meno innovativi. Ma si fa presto, come detto, a trovare eccezioni: da Stanley Kubrick a Federico Fellini, in una lista comunque molto lunga.

Anche la letteratura è piena di esempi di creatività emersa e riconosciuta come tale relativamente presto nella carriera di scrittrici e scrittori: da Menzogna e sortilegio di Elsa Morante a Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino a Il giovane Holden di J. D. Salinger a Il buio oltre la siepe di Harper Lee a I ragazzi della 56a strada di S. E. Hinton. E nella musica, soprattutto rock ma non solo quella, per molti gruppi e musicisti è il primo o il secondo disco quello più spesso citato come il più ispirato e creativo: dai Pink Floyd ai Black Sabbath ai Velvet Underground, fino ai Fugazi e agli Oasis. Anche qui non mancano le eccezioni clamorose: dai Beatles ai Rolling Stones a Bob Dylan ai R.E.M.

I quattro membri dei Pink Floyd mentre saltano insieme gli scalini di una scala, uno di fianco all’altro

Roger Waters, Nick Mason, Syd Barrett e Richard Wright dei Pink Floyd, a Londra, il 3 marzo 1967, anno di uscita del loro primo disco, The Piper at the Gates of Dawn (AP Photo)

Le ragioni per cui tendiamo a giudicare come massimamente creativo l’inizio o comunque la prima parte della carriera degli artisti hanno a che fare in parte con questioni di età, e in parte con tempi, modalità e condizioni con cui la creatività tende a emergere e a essere descritta come tale nella scienza, nella letteratura, nella musica, nell’arte e in altri ambiti. Condizioni che in molte società industriali e post-industriali del mondo occidentale sono state e sono fortemente influenzate da precisi modelli economici e sociali.

Secondo lo psicologo statunitense Dean Keith Simonton, conosciuto per le sue ricerche nel campo della creatività, uno dei modi per provare a misurarla è valutarla sulla base della produttività e della quantità di contributi culturalmente originali e influenti. Considerando questi parametri, la creatività aumenta in media dopo i 20 anni e raggiunge l’apice intorno ai 30-40, a grandi linee, per poi subire un lento declino con l’età. Ma è un teoria generale con molte variabili e da prendere con le pinze.

Innanzitutto, l’età in cui si comincia a “creare” conta più di quella anagrafica. Chi per decenni ha fatto lavori per lui o per lei poco stimolanti prima di scoprirne uno appassionante, per esempio, spesso non raggiunge l’apice della creatività prima dei 60 o 70 anni. Inoltre non è detto che il declino sia significativo. In termini generali, secondo Simonton, a 80 anni si tende a essere creativi circa la metà rispetto al periodo in cui lo si era di più. Ma questo, a seconda dei casi, può voler dire essere comunque ancora molti creativi rispetto alla media generale.

Un’altra variabile che condiziona la valutazione della creatività nei termini di Simonton è quanto l’artista produce nel corso della vita. Nel caso delle cosiddette «meteore», cioè chi produce soltanto un disco, un libro o un film, mancano punti di riferimento che permettano di stimare la loro creatività relativa. La teoria è quindi condizionata soprattutto da autori e autrici con decine, se non centinaia, di contributi, e molti di loro continuano a produrre fino ai 70 anni e oltre.

Bono Vox si porta una mano sul volto in modo da riparare la vista dalla luce dei riflettori, per osservare un punto in lontananza indicato da Steven Spielberg, al suo fianco con un premio in mano

Il cantante degli U2 Bono Vox e il regista Steven Spielberg, mentre ritira l’Orso d’oro alla carriera alla 73esima edizione della Berlinale, il festival del cinema di Berlino, il 21 febbraio 2023 (Andreas Rentz/Getty Images)

Nel 2019, a proposito delle «meteore», l’analista cinematografico Stephen Follows calcolò quanti registi erano riusciti a girare un secondo film nella loro carriera. Scoprì che tra il 1949 e il 2018 soltanto il 36,5 per cento dei registi aveva fatto almeno due film; soltanto l’8,6 ne aveva fatti più di cinque; soltanto lo 0,1 per cento (134 registi) ne aveva fatti più di venti.

Il numero di registi che hanno fatto un secondo film è inoltre diminuito quasi costantemente nel corso del tempo. I dati, scrisse Follows, possono essere interpretati in modo ambivalente, come una tendenza negativa o positiva per i registi: negativa perché potrebbe indicare che fare un secondo film è diventato nel tempo sempre più difficile; positiva perché potrebbe riflettere, al contrario, che il cinema è diventato un mestiere via via più accessibile per un maggior numero di persone, incluse le moltissime che per varie ragioni si fermano a un solo film, condizionando la media generale.

Valutazioni simili a quelle di Follows per il cinema potrebbero in parte valere anche per la musica, la letteratura, le arti visive e altri settori interessati da una semplificazione dei processi di produzione e pubblicazione, favorita negli ultimi decenni dalla graduale diffusione delle piattaforme di condivisione. Le ricerche di Simonton suggeriscono tuttavia che, riguardo alla correlazione tra la creatività e l’età, i settori non sono tutti uguali.

Una donna osserva da vicino un dipinto di Salvador Dalí

Una donna osserva un dipinto dal pittore spagnolo Salvador Dalí del 1936, Morbida costruzione con fagioli bolliti: premonizione di guerra civile, al museo d’arte moderna Georges Pompidou di Parigi, il 19 novembre 2012 (AP Photo/Francois Mori)

Alcuni tipi di creatività, come quella dei poeti e dei matematici, tendono a emergere precocemente e a diminuire più rapidamente, rispetto alla media generale. Altri tipi, come quella degli storici, dei filosofi e dei romanzieri, raggiungono l’apice abbastanza tardi e hanno un declino graduale e trascurabile. Un esempio italiano significativo, per quanto eccezionale, potrebbe essere il semiologo e scrittore Umberto Eco, che dopo aver scritto studi e saggi molto influenti pubblicò a 48 anni il suo primo romanzo, Il nome della rosa, uno dei libri italiani più tradotti e venduti di sempre in tutto il mondo.

Questa differenza tra i vari ambiti dell’arte ma anche della scienza potrebbe dipendere dalle diverse forme di intelligenza che richiedono, scrisse nel 2019 sull’Atlantic il saggista Arthur C. Brooks, citando una teoria dell’intelligenza formulata negli anni Quaranta dallo psicologo inglese Raymond Cattell. Esistono due forme di intelligenza, per Cattell: quella «fluida», cioè la capacità di ragionare e risolvere problemi, che è al suo massimo in giovane età adulta e diminuisce dai 30-40 anni in poi; e quella «cristallizzata», cioè la capacità di usare le conoscenze acquisite, che invece tende ad aumentare intorno ai 40 anni e dura a lungo.

I poeti, dotati di una creatività più basata sull’intelligenza fluida, tendono secondo le ricerche di Simonton ad aver pubblicato già a 40 anni metà di tutto quello che avranno pubblicato alla fine della loro carriera. Storici e romanzieri, la cui produzione dipende più da un patrimonio di conoscenze cristallizzate, non arrivano al loro punto di massima creatività prima dei 60 anni.

A parte l’influenza dei fattori anagrafici e psicologici, la tendenza a considerare in generale la prima parte della carriera di musicisti, registi e altri artisti come la parte più creativa dipende anche dall’influenza di importanti fattori storici. Le innovazioni tecnologiche, la crescita della cultura di massa e, soprattutto, l’affermazione stabile del mercato capitalista hanno definito nel Novecento nuovi modelli di produzione, distribuzione e fruizione dell’arte.

Aykroyd, con occhiali scuri da sole e berretto dei Ghostbusters, tiene Murray sotto braccio mentre posano per i fotografi

Gli attori statunitensi Dan Aykroyd e Bill Murray alla prima del film Ghostbusters: Afterlife a New York, il 15 novembre 2021 (Theo Wargo/Getty Images for Sony Pictures)

È probabile che per diversi artisti le aspettative generate dal successo commerciale di un primo disco, film o libro, e la pressione a confermarlo in successive pubblicazioni sempre più ravvicinate e frequenti, abbiano avuto un’influenza sui processi creativi e sullo stile di ciascuno e ciascuna di loro. Lo squilibrio tra la prima pubblicazione e le altre, nell’industria discografica anglosassone, è spesso descritto con un vecchio detto, da alcuni attribuito al cantautore inglese Elvis Costello: «Hai tutta la vita per scrivere il tuo primo disco, e solo 12 mesi per scrivere il secondo».

Nel caso della musica, per esempio, proprio nel momento in cui una band non ancora famosa si fa notare per creatività dopo un primo disco o concerto, comincia a subire l’influenza della major discografica con cui si accorda. E questo succede nonostante le premesse della relazione siano quasi sempre rassicuranti riguardo all’autonomia creativa garantita alla band dalla major discografica, scrisse nel 1993 l’ingegnere del suono Steve Albini in un famoso articolo pubblicato sulla rivista The Baffler.

L’interferenza dell’industria discografica sui processi creativi, secondo Albini, porta a un peggioramento della qualità del prodotto perché in molti casi i produttori non hanno competenze né tecniche né artistiche, e lavorano inevitabilmente con l’obiettivo del profitto. Questo si traduce in una tendenza all’omologazione, sia in termini di suono, che viene modificato elettronicamente da vari apparecchi e dispositivi, sia in termini di modelli di ispirazione. Tutti devono cercare di «suonare come i Beatles», ma «nessuno sulla Terra, neppure con tempo e risorse illimitati, potrebbe far suonare gli Smashing Pumpkins come i Beatles», e cercare di farlo «li fa solo sembrare ancora più stupidi».

Un insieme di fattori storici potrebbe avere portato, in definitiva, al consolidamento di un ambiente economico e culturale che favorisce l’assuefazione al prodotto di grande successo e i tentativi di imitarlo, rendendo invece la sperimentazione un’opzione meno attraente. Lo stesso ambiente peraltro non incoraggia – ma piuttosto disprezza e punisce – il fallimento, da molti artisti considerato invece una fase fondamentale del processo creativo. Questa interpretazione, secondo l’artista visiva norvegese Ingeborg Stana, professoressa di arti visive alla Oslo Metropolitan University, spiegherebbe tra l’altro perché la creatività sia di solito maggiore in assenza di aspettative e di «preoccupazioni su cosa sia giusto e cosa sbagliato»: tendenzialmente, ma non sempre, da giovani.