Non beviamo più vino come prima

E non c'entrano solo i giovani che riducono l'alcol, ma anche le temperature più alte, il modo in cui mangiamo e stiamo insieme, e altro ancora

Campo dei Fiori a Roma
(Kathryn Ream Cook/The New York Times)
Campo dei Fiori a Roma (Kathryn Ream Cook/The New York Times)
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«Dagli anni Ottanta il vino non è più un alimento e non si beve quasi più a pranzo e meno a cena: sta diventando qualcosa di edonistico e di intellettuale» dice Alessandro Torcoli, direttore di Civiltà del bere, una rivista di vino e gastronomia fondata nel 1974. È probabilmente una delle spiegazioni principali alla crisi del settore di cui si parla ciclicamente, mentre aprono sempre più enoteche, proliferano i corsi da sommelier, le degustazioni e le “cantine aperte” durante la vendemmia.

Intanto il consumo di vino, aumentato in pandemia durante il lockdown, cala di anno in anno: dal 2019 al 2023 le vendite al supermercato sono diminuite dell’8 per cento, soprattutto quelle dei vini rossi e da tavola.

Torcoli spiega che la crisi del vino rosso è tra i temi di cui si parla di più nel settore, come conferma un articolo recente del Financial Times: in Francia è consumato per il 90 per cento in meno rispetto agli anni Settanta e sostituito da vini bianchi, rosé e bollicine, soprattutto tra i più giovani.

La foto di un calice di vino bianco bevuto nella campagna toscana

Un calice di vino bianco in Toscana (© Christina Anzenberger Fink & Toni Anzenberger)

C’entra molto il riscaldamento globale: per il caldo «si smette di bere vino rosso a maggio e si riprende a settembre», dice Torcoli, in più «stiamo mangiando tutti più leggero e il vino bianco, rosé e bollicine si abbina meglio». Inoltre il cambiamento climatico ha aumentato la gradazione alcolica dei vini e ora un rosso si aggira facilmente sui 13 gradi, rendendolo più impegnativo. Il rosso è sfavorito anche da un nuovo modo di vivere la socialità, in parte dovuto alle difficoltà economiche degli ultimi anni: si va meno al ristorante perché costa troppo e si preferisce fare un aperitivo e poi cenare a casa o andare in una enoteca con cucina e ordinare uno o due calici e qualche piattino.

Queste nuove abitudini pesano sulla scelta del vino: «se bevi senza mangiare è meglio un bianco o una bollicina» dice Antonio Crescente, tra i gestori di Champagne Socialist, uno dei locali di Milano più noti per i vini naturali, e ora tra i fondatori di Palinurobar, un’enoteca con “piccola cucina”, e dell’osteria Lagrandissima, sempre a Milano. Crescente spiega che se prima il bianco era noto come un vino di “facile beva” (meno complesso e preferito dal bevitore occasionale), ora è stato riscoperto come prodotto di qualità e di lusso. «Nell’ultimo anno – aggiunge – sto riscontrando un aumento del rosso tra i bevitori molto informati, che sono il 5 per cento del totale ma che sono quelli che poi influenzano il mercato».

Crescente associa la crisi del vino degli ultimi anni all’apertura di molti wine bar che hanno aumentato la concorrenza: da inizio 2023 a maggio 2024 soltanto a Milano ne sono stati aperti 20, spiegano su Commestibile, una newsletter dedicata al mondo del cibo. Secondo lui la gente che beve abitualmente si sta riducendo «a una fascia molto specializzata»: un po’ per ragioni culturali, un po’ legate all’età – «c’è chi vuole avere o ha un figlio» – e anche economiche, perché c’è necessità di risparmiare e il vino è sempre più caro: dopo la pandemia, dice, i costi sono aumentati del 15-20 per cento.

La sua clientela ha tra i 30 e i 45 anni mentre «i 25enni sono pochi ma molto informati, c’è una sorta di nerdismo». Anche Torcoli nota che «paradossalmente c’è più interesse tra i 20enni di oggi che tra quelli degli anni ’80 e ’90, quando il vino era visto come la bevanda dei nonni», e ricorda che il vino «non è mai stato una bevanda per chi ha meno di 25 anni, per limiti economici e culturali»: i più giovani «cercano soprattutto lo sballo offerto dall’alcol», che si raggiunge più rapidamente con superalcolici più economici. I timori sull’allontanamento dei giovani dall’alcol infatti preoccupano anche il settore del vino, ma riguardano in realtà soprattutto le birre e i superalcolici, e principalmente negli Stati Uniti – dove a fine anni Dieci nacque il movimento “sober curious”, che riduceva o rifiutava l’alcol per migliorare la salute fisica e mentale – o il Nord Europa, dove il modo di bere è tradizionalmente diverso che in Italia, più legato alla quantità che alla degustazione.

I dati sull’Italia mostrano che le persone che bevono sono sempre più, anche se lo fanno in minore quantità: nel 2023 era il 55 per cento con più di 11 anni, contro il 53 per cento del 2010; di questi il 29 per cento beveva tutti i giorni e il 71 per cento sporadicamente; inoltre dal 2002 al 2022 la percentuale di 18-34enni che beve vino è passata dal 48,7 per cento al 53,7 per cento, il 5 per cento in più.

La foto di tre bicchieri di vino Primitivo nel paesino di Contrada Galante, in Puglia (© Didier Ruef 2018)

Tre bicchieri di vino Primitivo nel paesino di Contrada Galante, in Puglia (© Didier Ruef 2018)

Questo non vuole dire che il settore non stia attraversando delle difficoltà: l’aumento dei costi delle materie prime e la conseguente riduzione dei consumi; la sovrapproduzione; il calo di importazioni dalla Cina; l’impatto del cambiamento climatico, che aumenta la gradazione alcolica del vino, rischia di danneggiare i raccolti e favorisce nuovi luoghi di produzione, più freschi, a discapito di alcuni tradizionali come la Francia e l’Italia.

L’impressionante crollo del consumo di vino degli ultimi 70 anni – 125 litri in media a testa negli anni Sessanta contro i 55,8 del 2010 – è dovuto al modo completamente diverso di berlo oggi: quello che si beve meno infatti è il vino da tavola, leggero, economico e consumato ogni giorno durante i pasti, mentre oggi si beve vino di alta qualità in occasioni saltuarie.

Anche per questo alcuni produttori stanno provando nuove strade, come la produzione di vini dealcolati (con un tenore alcolico inferiore agli 0,5 gradi) che in Italia è legale dallo scorso dicembre: non tanto per rispondere a una richiesta interna ma per esportare negli stati dov’è già una tendenza e in quelli dove non si bevono alcolici, come il mondo arabo, per far concorrenza alla Francia e alla Spagna.

Nel 2023 il settore del cosiddetto no/low, che comprende bevande senza o con basso contenuto di alcol, ha avuto vendite pari a 20 miliardi di dollari in tutto il mondo, il doppio rispetto a 5 anni fa. Al momento, l’89 per cento delle vendite del settore riguarda le birre analcoliche, mentre il vino dealcolato e i liquori analcolici pesano per il 7 e il 4 per cento, ma il mercato è in evoluzione e stanno spuntando aziende più innovative. Tra queste c’è Amore Liquido, nata l’anno scorso, che importa bevande derivate dalla fermentazione, come kombucha, fermentati botanici a base di barbabietola, macerazioni di erbe, spezie e radici, e succhi di frutta naturali alla visciola e alla mela cotogna.

Uno dei suoi fondatori, Tommaso Vergano, racconta che «veniamo dal mondo dei vini naturali (che dagli anni Ottanta produce con il minimo intervento possibile in vigna e in cantina, in contrapposizione all’industria, ndr), così come molte persone con cui lavoriamo, e il pubblico finale». Lui si rivolge a questa «super nicchia», che ha voglia di assaggiare bevande nuove e scoprire cosa va di moda all’estero, ed è convinto che il futuro non vedrà una contrapposizione tra chi beve vino e chi no, ma sarà «un allargamento della scelta».

Una foto di bicchieri di vino rosso e bianco in Tirolo

Bicchieri di vino rosso e bianco in Tirolo (Frieder Blickle/laif / Contrasto)

Lo spirito sperimentale e irriverente del mondo dei vini naturali è una chiave per avvicinare i più giovani al mondo del vino e svecchiarne la comunicazione che, dice Torcoli, per trent’anni è stata «paludata», con «un modo sacerdotale di parlarne» che ha fatto guadagnare una certa comicità al ruolo del sommelier. Chi si occupa di vini naturali, invece, ha aperto locali dove l’atmosfera è informale, i camerieri sono in jeans e maglietta, le etichette sulle bottiglie sono anticonvenzionali e sarcastiche, c’è molta conoscenza ma anche molta autoironia.

Un’altra risposta è puntare sul turismo enologico, che offre un’esperienza oltre al prodotto, e sulla sostenibilità ambientale, che interessa molto ai più giovani, sia nella coltivazione, che nella produzione e nel packaging.

Secondo Torcoli non paga, invece, offrire un modo semplificato di consumare il vino. Lo dimostra, per esempio, lo scarso successo di quello in lattina, che funziona molto bene negli Stati Uniti ma non qui da noi, dove non si va verso un consumo facile e immediato ma più complesso: il vino sta diventando «un consumo intellettuale che ha bisogno di conoscenza, fatto di assaggi occasionali e condivisi».