Lo sceneggiatore più richiesto di Hollywood è un cowboy

È il creatore di "Yellowstone", Taylor Sheridan, che vive in un ranch che è anche un set, e non assomiglia in niente ai suoi colleghi

(Omar Vega/Getty Images)
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Negli ultimi dieci anni Taylor Sheridan è passato da essere un attore di seconda se non terza fascia al più importante, cercato e pagato sceneggiatore americano, con cinque film e sei serie tv (cinque delle quali ancora in corso), quasi tutti di successo e alcuni di grande successo. È l’ideatore, scrittore unico e, per la prima stagione, anche regista di Yellowstone, una delle serie tv più viste di questi anni, capace di battere negli ascolti americani anche le partite di football, e partendo dai canali Paramount, che non sono tra i più visti negli Stati Uniti.

La sua è una storia molto americana e del resto anche le storie che racconta lo sono: di frontiere (in tutti i sensi), maschili nei toni ma con eccezionali personaggi femminili. Sheridan non somiglia in nessuna maniera a come ci si immagina uno sceneggiatore americano, non è un accademico né un punk, non è un uomo di città né un losangelino, ma più un cowboy o, come ha detto l’attrice Elizabeth Olsen che ha recitato per lui in I segreti di Wind River, «Un cowboy che è un incrocio tra tuo padre e l’uomo della pubblicità della Marlboro».

Sheridan ha 54 anni e per i primi 34 ha cercato di fare l’attore riuscendoci poco: più che altro partecipò a singole puntate di serie come CSI o NYPD Blue in ruoli marginali e senza continuità. Dal 2005 riuscì a uscire dalla costante povertà con la parte di Danny Boyd nella serie Veronica Mars e poi con quella di David Hale in Sons of Anarchy. Contrariamente a quel che si crede, però, una carriera di quel livello non porta grandi ricchezze, nonostante le ottime paghe. Il sistema americano prevede infatti moltissimi intermediari e quindi il salario si riduce anche più della metà, quando arriva all’attore. In più la vita a Los Angeles ha un costo altissimo; per questa ragione, negli anni ’10 Sheridan decise di acquistare un ranch lontano da Los Angeles e andare a vivere lì con la sua famiglia, tentando un’altra carriera.

Abbandonò totalmente la recitazione e tentò di passare alla scrittura, usando i suoi risparmi per acquistare Final Draft, il software più usato per scrivere sceneggiature. E ci riuscì. A partire dal suo primo film Sicario (diretto da Denis Villeneuve e uscito nel 2015), non ha faticato a trovare produttori che volessero comprare quel che scriveva. In totale è riuscito a fare quattro film in quattro anni: oltre a Sicario, Hell or High Water (2016), I segreti di Wind River (2017) e Soldado (2018), sequel di Sicario diretto da Stefano Sollima. Tutti hanno ricevuto grandi apprezzamenti, sono stati dei successi in proporzione al loro costo contenuto e l’unico che ha anche diretto, I segreti di Wind River, è andato in concorso nella sezione Un Certain Regard di Cannes, dove ha vinto proprio il premio per la miglior regia.

Recentemente ha spiegato che: «Hollywood ti dice chiaramente cosa è meglio che tu faccia, se sai ascoltare. Se per venti anni non riesci a fare l’attore forse non è quello che devi fare. Ma poi appena ho scritto un copione ho ottenuto incontri con tutti i produttori più importanti». Taylor Sheridan è incredibilmente prolifico, ha molte idee e una grande facilità di scrittura. Sostiene di scrivere poco e fare poche correzioni. In quei primi anni della sua seconda carriera, mentre scriveva i primi film, aveva infatti trovato anche il tempo per realizzare il copione di una stagione intera di una serie tv, a partire dalle sue esperienze di vita. Prima di andare a vivere a New York e poi a Los Angeles per tentare di fare l’attore, infatti, Sheridan era cresciuto in un ranch nel Montana che la madre, dopo il divorzio, era stata costretta ad abbandonare. La serie raccontava proprio questo, l’ultimo grandissimo ranch americano, Yellowstone, e la famiglia che cerca di salvarlo dalla chiusura.

Nella scrittura di Sheridan c’è una grande capacità di andare alle radici di personaggi e di storie tipicamente americane. Spesso i protagonisti sono al centro di un mondo che sta scomparendo e, o lo vogliono preservare, o loro malgrado si trovano a essere tra gli ultimi a fare un certo tipo di vita. Di volta in volta queste storie sono raccontate in trame gialle, thriller, poliziesche o puramente drammatiche, ma sempre con un sapore western: personaggi soli con la propria morale, in grandi spazi aperti dove la legge non arriva e devono fare da sé. La definizione tecnica e critica di buona parte dei suoi film è “neo-western”, che ci siano o non ci siano i cavalli. I protagonisti generalmente sono uomini che hanno fatto o fanno vite molto dure, e accanto a loro ci sono donne altrettanto decise. Uno dei suoi personaggi più noti e apprezzati, Beth Dutton di Yellowstone (interpretata da Kelly Reilly), è esattamente questo (nelle parole di Sheridan): «Una donna che dice ad alta voce le cose che si dicono a bassa voce […] quando qualcuno è scortese con te in un ristorante o ti taglia fuori da un parcheggio, Beth dice quello che avresti voluto dire tu».

In una strana forma di mescolanza tra vita e arte, raggiunta la grande fama, Sheridan ha acquistato un ranch gigantesco, grande 1.300 chilometri quadrati, più o meno come Los Angeles, che stava per essere acquistato da speculatori. Per pagare i 350 milioni di dollari necessari all’acquisto (o almeno per mettere la parte più grossa della cifra insieme a una cordata di altri acquirenti) ha accettato un contratto da centinaia di milioni di dollari per lavorare in esclusiva con Paramount. Ora vive lì, nel ranch in cui per comodità sono girate molte parti delle sue serie, con i suoi cavalli, in una zona in cui il viaggio in auto tra l’ingresso nella sua proprietà e l’arrivo alla casa propriamente detta dura ben più di un’ora. Il giornalista James Hibberd, in un profilo su Sheridan, ha sintetizzato questo rapporto tra la sua vita privata e la sua serie di maggior successo scrivendo: «Sheridan ha sognato una storia, l’ha condivisa con milioni di persone e poi ci è entrato dentro».

In sei stagioni (tecnicamente sarebbero cinque ma l’ultima dura il doppio ed è divisa in due parti) Yellowstone è diventata la serie più vista negli Stati Uniti di questi anni, con 16 o anche 20 milioni di spettatori a puntata. Ha tenuto in piedi un canale, Paramount Network, e con i suoi spin-off (1883 e 1923) e le altre serie ora anche la piattaforma di streaming Paramount+, che ha in quelle produzioni la ragione principale per la quale i suoi abbonati pagano. Dopo Yellowstone Sylvester Stallone, Harrison Ford e Helen Mirren hanno voluto recitare in qualcosa scritto da lui e sono quindi entrati nel cast rispettivamente di 1923 e di un’altra sua serie, Tulsa King, uscita nel 2022.

Eppure, e questo è un altro dettaglio che rende la storia del successo di Taylor Sheridan molto americana, inizialmente il canale che per primo aveva acquistato Yellowstone, HBO, era riluttante a girarla. Di volta in volta sembravano esserci motivazioni nuove per non iniziare le riprese. A un certo punto, quando Sheridan propose Kevin Costner come protagonista (come poi è stato), gli fu detto che serviva Robert Redford, un attore che per età e carriera non è facile da ingaggiare. Sheridan comunque lo convinse e, quando lo comunicò al canale, si sentì rispondere: «Intendevamo un tipo alla Redford, non proprio Redford». Intervistati sulle reali ragioni di questi continui rinvii, ammisero che una grande parte della dirigenza era contraria a fare Yellowstone, perché la consideravano una serie troppo tradizionale, troppo vecchio stampo per HBO. La Paramount invece l’acquistò subito.

La valutazione di HBO non era sbagliata però. C’è un che di molto tradizionale nelle serie di Sheridan. Lo è Tulsa King, quella in cui Sylvester Stallone è un mafioso mandato in una piccola città in cui cerca di ricreare un suo regno, così come 1883 e 1923 (i prequel di Yellowstone), o ancora Mayor of Kingstown e Lioness. Tanto che oggi Sheridan è considerato il re della “Dad Tv”, termine tecnico da network televisivo americano che è entrato nel gergo comune e identifica un tipo di programmazione molto maschile e tradizionale (da papà, appunto). Sono programmi da “Dad Tv” quelli in cui un uomo di mezza età salva qualcosa: il mondo, il ranch, una squadra di calcio o un’azienda; in cui bene o male non manca quasi mai una pistola e nei quali i ruoli tra uomini e donne tendono a essere tradizionali.

Questo non fa di Sheridan un conservatore o un repubblicano, anzi. I suoi racconti parlano di preservazione degli spazi naturali e lui personalmente è molto vicino alle comunità di nativi americani (ha anche vissuto per qualche tempo in una tenda in una riserva quando non aveva soldi), né tantomeno ha successo solo negli stati repubblicani, come si diceva all’inizio della sua carriera. Anzi, recentemente ha ricevuto qualche critica perché 1923 è per alcuni troppo woke, visto come dipinge e racconta i maltrattamenti contro le popolazioni indigene americane. Oggi vive nel suo ranch come un cowboy e scrive solitamente in una baracchetta che ha costruito da sé. Secondo lui stesso questo stile di vita è parte del segreto della bontà dei suoi dialoghi perché, sostiene, «ogni giorno sento almeno 25 frasi iconiche che poi metto nelle puntate». Al momento ha in cantiere qualche altro prequel di Yellowstone e un sequel con Matthew McConaughey, più tutta una serie di altri progetti su cui la Paramount, avendolo sotto contratto, lo ha messo al lavoro. E sempre tutto da solo.

A differenza di altri grandi sceneggiatori e sceneggiatrici capaci di ideare molti grandi successi, come Shonda Rhimes o Ryan Murphy, Sheridan infatti non ha una squadra che lo aiuta in tutti i suoi diversi lavori. A differenza della quasi totalità delle serie tv, quindi, le sue non sono scritte da quella che in inglese si chiama writer’s room: non c’è un collettivo di sceneggiatori da lui coordinati che scrivono gli episodi, ma fa tutto in autonomia. La cosa gli ha provocato qualche problema durante gli scioperi dell’anno scorso, perché uno dei punti che il sindacato voleva ottenere era proprio che le writer’s room di una certa grandezza fossero obbligatorie e lui, che è una voce importante, influente e ascoltata non aveva nessuna voglia di sostenere quella causa: «Se la produzione vuole pagare 500mila dollari per quattro sceneggiatori che non scriveranno una riga, per me va bene. È una questione loro. Ma se io sono obbligato a delegare ad altri le mie sceneggiature, quello sarà il momento in cui mi ritirerò».