Tutte queste storie su Sherlock Holmes probabilmente dovevano arrivare prima

I diritti d'autore sul personaggio infatti sono stati protetti molto più a lungo del normale, per l'insistenza degli eredi di Arthur Conan Doyle

(Ron Case/Keystone/Getty Images)
(Ron Case/Keystone/Getty Images)

Nel 2025 usciranno diverse serie tv ambientate nell’universo narrativo di Sherlock Holmes, il celebre investigatore creato dallo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle. A fine gennaio l’emittente statunitense CBS trasmetterà il primo episodio di Watson, serie incentrata su John Watson, il principale collaboratore di Holmes, ed è in via di definizione anche la programmazione di Sherlock & Daughter, una miniserie che andrà in onda su Discovery+ e che introdurrà il personaggio inedito di Amelia Rojas, la figlia di Holmes. Quest’anno cominceranno inoltre le riprese di Young Sherlock, che racconta i primi anni della carriera di Holmes: sarà prodotta da Amazon, e diretta da Guy Ritchie, già regista dei film con Robert Downey Jr. e Jude Law.

Tutti questi sfruttamenti del personaggio in realtà avrebbero dovuto arrivare prima, se il diritto d’autore non fosse stato protetto ben più a lungo del normale. Anche se la maggior parte delle storie dedicate al personaggio entrò a far parte del pubblico dominio (diventando quindi liberamente utilizzabile) in quasi tutto il mondo più di vent’anni fa, infatti, gli eredi di Conan Doyle hanno continuato (e per alcuni versi continuano) comunque a guadagnarci, usando delle tattiche piuttosto controverse e interpretando in maniera estensiva la normativa statunitense sul copyright.

Lo ha raccontato Alec Nevala-Lee sull’Atlantic, spiegando come gli sceneggiatori e i produttori statunitensi abbiano cominciato a dedicare nuove storie a Holmes soltanto da un paio d’anni. Prima di allora, infatti, temevano le ritorsioni legali del Conan Doyle Estate, il gruppo di pronipoti e altri lontani parenti di Conan Doyle che avevano ereditato i diritti d’autore dello scrittore dopo la sua morte.

Nel Regno Unito e nei paesi dell’Unione Europea le opere di Conan Doyle erano tutte libere da diritti d’autore fin dal primo gennaio 2001, perché il copyright dura per 70 anni dalla morte dell’autore (Conan Doyle morì nel 1930).

Negli Stati Uniti, dove le leggi sul copyright sono molto più complesse, la stragrande maggioranza delle storie di Sherlock Holmes (i quattro romanzi e i 46 racconti pubblicati prima del 1923) era già entrata nel pubblico dominio nel 1998. Quell’anno, però, entrò in vigore il Copyright Term Extension Act, che estese la durata del diritto d’autore per tutte le opere pubblicate tra il 1923 e il 1977, portandola da 75 a 95 anni. In questo modo, gli eredi di Conan Doyle hanno potuto sfruttare la maggior parte dei racconti contenuti nel Taccuino di Sherlock Holmes, l’ultima antologia di racconti dedicati a Holmes, per rivendicare una paternità totale sul personaggio, nonostante la quasi totalità della letteratura a lui dedicata fosse già libera da copyright. Dieci dei dodici racconti dell’antologia furono pubblicati infatti tra il 1923 e il 1927, e di conseguenza poterono beneficiare degli effetti del Copyright Term Extension Act.

Sono entrati a far parte del pubblico dominio soltanto tra il 2018 e il 2023, quando scaddero anche i diritti di L’avventura dell’inquilina velata e L’avventura di Shoscombe Old Place, i due racconti più recenti della raccolta, pubblicati rispettivamente nel gennaio e nel marzo del 1927.

Jennifer Jenkins, direttrice del Centro per lo studio del pubblico dominio della Duke University, ha spiegato che tra il 1998 e il 2023 gli eredi di Conan Doyle adottarono un metodo piuttosto efficace per assicurarsi di continuare a guadagnare dai quei pochi racconti ancora protetti da copyright. Chiedevano infatti alle società di produzione e alle case editrici statunitensi che volessero utilizzare Holmes dei compensi relativamente moderati, così che pagarli fosse più conveniente che dare inizio a lunghe e costose cause legali.

Come ha ricordato Nevala-Lee, per dare una base giuridica alle loro pretese, gli eredi di Conan Doyle provarono a far valere il principio secondo cui Holmes e tutti i comprimari delle sue storie assunsero le loro caratterizzazioni definitive soltanto negli ultimi racconti. La loro argomentazione si basava su una tesi che lo scrittore britannico Edward Morgan Forster espresse nel saggio Aspetti del romanzo (1927).

In sostanza, Forster proponeva di distinguere tra due tipi di personaggi: quelli “piatti”, ossia dalle caratteristiche fisse e immutabili, e quelli “a tutto tondo”, ossia complessi e in continua evoluzione. Gli eredi sostenevano che Holmes rientrasse nella seconda categoria, e che questa circostanza consentisse loro di rivendicare il diritto d’autore su tutte le sue versioni, anche quelle dei primi romanzi. Secondo questa tesi, Conan Doyle avrebbe infatti completato la “creazione” del personaggio soltanto con gli ultimi racconti.

William Gillette interpreta Sherlock Holmes, nel 1899 (London Stereoscopic Company/Getty)

Gli eredi utilizzarono questa distinzione in una famosa causa legale, chiamata Klinger v. Conan Doyle Estate, Ltd. Cominciò nel 2013, quando lo scrittore statunitense Leslie S. Klinger rifiutò di pagare una tassa di licenza che il Conan Doyle Estate aveva chiesto dopo la pubblicazione di A Study in Sherlock, una raccolta di racconti dedicati a Holmes e scritti da vari autori contemporanei, come Neil Gaiman, Laura Lippman e Lee Child.

Klinger sostenne che le pretese degli eredi fossero inconsistenti, dato che tutte le peculiarità di Holmes, come per esempio la sua «natura bohémien», fossero già state stabilite nei primi quattro romanzi.

A sostegno di questa ipotesi, Nevala-Lee cita il saggio Studies in the Literature of Sherlock Holmesscritto nel 1910 dal teologo britannico Ronald Knox, che oltre a essere un presbitero era anche un cultore dei romanzi di Doyle.

Knox fissò 11 caratteristiche archetipiche delle storie di Sherlock Holmes: la prima è il Proömion, una scena ambientata nella casa di Holmes a Baker Street, e che di solito si sofferma su qualche dettaglio della sua quotidianità; la seconda è la Exegesis kata ton diokonta, ossia il momento in cui un cliente si presenta a casa di Holmes per proporgli un caso, a cui segue la Ichneusis, la prima indagine di Holmes, che di solito include le famose «camminate sul pavimento a quattro zampe, sulle mani e sulle ginocchia».

I momenti successivi, scrive sempre Knox, sono quelli della Anaskeue (quando Holmes smentisce le teorie investigative di Scotland Yard, la polizia di Londra) e della Promeneusis, una fase a sua volta divisa in due parti: nella prima Holmes dà qualche indizio sparso alla polizia, nella seconda rivela dettagli più precisi dei suoi processi investigativi a Watson. Il settimo momento è quello della Exetasis, in cui Holmes parla con parenti e testimoni, a cui seguono la Anagnorisis (quando il colpevole viene catturato o scoperto), la Exegesis (la confessione del colpevole), la Metamenusis (quando Holmes spiega come ha fatto a risolvere il caso) e l’Epilogos, il momento conclusivo, in cui Holmes pronuncia un aforisma coniato da lui stesso o cita un qualche autore classico.

Knox spiegava che queste caratteristiche ricorrevano in maniera parziale in tutti i romanzi e i racconti che Doyle aveva pubblicato fino a quel momento, ma che l’unico che le incorporava tutte era il primo, Uno studio in rosso (1887). Di conseguenza, ha notato Nevala-Lee, «tutti gli aspetti più importanti del personaggio erano presenti fin dall’inizio».

Per difendersi dalle accuse degli eredi, Klinger fece notare inoltre che alcuni dei tratti estetici e lessicali per cui Holmes è conosciuto in tutto il mondo non fanno parte della produzione di Doyle, come la celebre frase «elementare, Watson!», che fu resa popolare dal film The Return of Sherlock Holmes (1929). Sono elementi narrativi apocrifi anche la pipa che è solito fumare e il berretto da cacciatore che indossa, che si consolidarono nell’immaginario collettivo grazie al successo di alcune rappresentazioni teatrali.

La sentenza diede ragione a Klinger: il giudice stabilì che la distinzione tra personaggi “piatti” e “a tutto tondo” fosse irrilevante a fini legali, e che gli unici elementi su cui il Conan Doyle Estate poteva avanzare delle pretese erano quelli inquadrabili come «increments of expression», ossia caratteristiche originali che Doyle introdusse soltanto negli ultimi racconti, come l’amore di Sherlock Holmes per i cani e il fatto che Watson si fosse sposato due volte.

Due persone vestite come Sherlock Holmes e Watson a Bruxelles, in Belgio, nel gennaio del 2020, dopo l’approvazione dell’accordo su Brexit (Sean Gallup/Getty Images)

Nel 2020 gli eredi fecero causa a Netflix per Enola Holmes, il film interpretato da Millie Bobby Brown con Henry Cavill nel ruolo di Sherlock Holmes. In quel caso il Conan Doyle Estate riconobbe i principi stabiliti dalla sentenza di sei anni prima: ammise cioè che chiunque potesse usare e adattare i personaggi comparsi nei racconti di Doyle nel pubblico dominio, ma che i tratti caratteriali del personaggio emersi negli ultimi racconti – un maggior rispetto nei confronti delle donne, maggiori affabilità e sentimentalità, un’evidente simpatia per i cani – fossero ancora protetti dal copyright.

In quell’occasione Netflix e la scrittrice Nancy Springer, autrice dei libri per ragazzi da cui è stato tratto Enola Holmes, si accordarono con il Conan Doyle Estate per mettere fine alla causa che questo gli aveva intentato. Non si sa però se abbiano fatto un accordo economico per mettere fine alla questione, e nel caso di che entità.

Da un paio d’anni, in ogni caso, il Conan Doyle Estate non può più vantare diritti d’autore sulle opere di Arthur Conan Doyle in nessuna parte del mondo.

Tuttavia, potrebbe continuare a ottenere dei guadagni in altri modi. Possiede infatti come marchi registrati sia il nome che le immagini di Arthur Conan Doyle e Sherlock Holmes, non solo negli Stati Uniti ma anche nel Regno Unito e nei paesi dell’Unione Europea. È una proprietà diversa da quella dei diritti d’autore: questi ultimi servono per proteggere le opere creative e impediscono ad altre persone di copiarle, citarle o adattarle senza permesso per produrre nuovi prodotti culturali, per un certo periodo di tempo; la registrazione dei marchi è invece potenzialmente perenne, e serve per evitare che marchi, loghi e nomi usati in contesti commerciali vengano sfruttati da altre persone per confondere i consumatori.

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