Vent’anni fa il divieto di fumare al chiuso sembrava controverso
La cosiddetta “legge Sirchia” fu approvata con fatica dopo molte resistenze, ma ci volle poco ad abituarsi e a vederne gli effetti positivi
Il 10 gennaio di venti anni fa entrò in vigore la legge per la “Tutela della salute dei non fumatori”, nota come legge Sirchia, dal nome del suo promotore, l’allora ministro della Salute Girolamo Sirchia. Introduceva il divieto di fumo al chiuso, in bar, ristoranti, discoteche, uffici, palestre, uffici pubblici e privati. Prima del 2005 si fumava praticamente dappertutto: nei decenni precedenti erano state introdotte limitazioni solo per cinema, teatri, ospedali, scuole e per alcuni mezzi di trasporto pubblici, come gli aerei (le carrozze fumatori erano state abolite l’anno prima solo su certe categorie di treni).
Introdurre un divieto di fumo al chiuso non fu un’operazione facile: l’Italia fu fra i primi paesi europei a farlo e le resistenze furono molte. I timori di parte della politica e di molti fra ristoratori e baristi si dimostrarono presto infondati: il divieto non provocò chiusure né perdite di clienti, le nuove abitudini furono presto condivise e negli anni seguenti portarono anche a un sostanziale calo della percentuale dei fumatori e delle sigarette consumate.
Un primo disegno di legge che vietava il fumo in tutti i locali chiusi era stato presentato nel 2000 dal ministro della Sanità Umberto Veronesi, nel secondo governo di Giuliano Amato: fu approvato nel Consiglio dei Ministri, ma non arrivò mai a essere discusso in Parlamento. Il suo successore nel secondo governo di Silvio Berlusconi, il medico e professore universitario Girolamo Sirchia, era un convinto sostenitore della necessità di limitare e regolamentare il fumo.
Sirchia ha raccontato nei giorni scorsi al Corriere della Sera che la legge che prese il suo nome era osteggiata anche all’interno della stessa squadra di governo. Fu approvata durante le discussioni per una legge finanziaria nel gennaio del 2003, ma per renderla effettiva servivano «i decreti attuativi, senza i quali sarebbe stata uno strumento vuoto, inutile». Per approvarli definitivamente furono necessari due anni e, secondo il suo racconto, una minaccia di dimissioni e l’intervento del presidente del Consiglio Berlusconi.
Le resistenze erano soprattutto di ordine culturale, perché la legge implicava un cambio di abitudini radicale per una buona parte degli italiani. Venivano prospettate inoltre ricadute pesanti a livello economico sul settore dei bar, dei ristoranti e dei locali notturni: chi era contrario alla legge diceva che le persone avrebbero smesso di frequentarli, se non avessero potuto fumare. Era prevista la possibilità di creare aree fumatori all’interno, ma con impianti di ventilazione e di ricambio d’aria molto dispendiosi: pochi locali se ne dotarono.
Nel 2003 fumava il 27,6 per cento degli italiani, i pacchetti di sigarette costavano 3-4 euro e nessuno degli altri paesi europei aveva provato soluzioni simili. Il divieto era stato già introdotto in California e non aveva causato crolli nelle entrate di bar e ristoranti, mentre nel 2004 l’Irlanda divenne il primo paese in Europa a vietare il fumo al chiuso, prendendo spunto dalla legge Sirchia, ma precedendola nella sua attuazione.
Già dopo un anno anche in Italia fu chiaro che i timori erano stati sopravvalutati: da un’indagine dell’Istituto superiore di sanità (ISS) emerse che solo il 2 per cento dei proprietari di bar e ristoranti aveva ricevuto proteste dai clienti e solo l’11 per cento denunciava perdite negli incassi. Alla fine del 2005 il 90 per cento degli italiani si diceva favorevole al divieto di fumo al chiuso e la legge contribuì a cambiare le abitudini anche nelle case private: nel 2008 il 70 per cento diceva di non permettere il fumo in casa (prima molto più diffuso), nel 2021 quella percentuale era salita all’88,6.
Gli effetti sull’abitudine al fumo in generale degli italiani furono più ridotti, ma comunque sensibili: secondo l’analisi di Wired basata su dati dell’ISTAT, fra il 2005 e il 2020 la percentuale di fumatori nella popolazione italiana è scesa dal 28,3 al 22,2 per cento (passando da circa 12,5 milioni a circa 11,6). Negli ultimi tre anni i dati sono in controtendenza: nel 2023 (ultimi dati disponibili) i fumatori erano saliti al 23,1 per cento, soprattutto per l’aumento dei consumatori di sigarette a tabacco riscaldato o sigarette elettroniche.
In questi vent’anni è diminuito il numero medio di sigarette consumate da chi si dice fumatore, da 14,6 a 12, mentre il fumo è più diffuso fra i giovani con un livello di istruzione basso: fuma oltre il 35 per cento di chi ha fra i 25 e i 44 anni e la licenza media come titolo di studio.
Gli effetti positivi sulla salute degli italiani sono universalmente riconosciuti anche se più difficilmente stimabili: l’ISS sottolineò negli anni seguenti al divieto un calo dei ricoveri per infarto tra persone in età lavorativa fra il 4 e il 13 per cento; la Società italiana di allergologia, asma e immunologia clinica (SIAAIC) una diminuzione del 10-15 per cento dei ricoveri di pazienti asmatici, soprattutto fra i minori che prima erano spesso esposti al fumo passivo.
Negli anni sono poi state introdotte ulteriori limitazioni, comprese le ultime di alcune amministrazioni locali, come quella di Milano, che ha esteso il divieto di fumo all’aperto a tutte le aree pubbliche (era presente dal 2021 in parchi, fermate dei mezzi pubblici, aree gioco per bambini, aree per i cani, cimiteri e strutture sportive, per quanto poco osservato).
Il ministero della Salute nel 2022 riteneva attribuibili al fumo oltre 93mila morti all’anno (il 20,6 per cento del totale di tutte le morti tra gli uomini e il 7,9 per cento del totale di tutte le morti tra le donne). Fra queste le morti per tumori polmonari sono circa 30mila l’anno.