Il ritorno di Ufo Robot, sulla Rai

La nuova serie dedicata al più famoso dei robottoni giapponesi è tornata in prima serata sulla rete che lo presentò al pubblico italiano quasi cinquant'anni fa

(Gaina/Wikimedia Commons)
(Gaina/Wikimedia Commons)
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Lo scorso 6 gennaio sono andati in onda su Rai 2 i primi quattro episodi di Goldrake U, il reboot di UFO Robot Goldrake, una serie animata che fu trasmessa dalla stessa rete alla fine degli anni Settanta, e che ai tempi ebbe un grande successo. Le prime quattro puntate di Goldrake U, ora disponibili anche su Rai Play, sono state trasmesse in prima serata (alle 21:20), un fatto piuttosto insolito per un cartone animato, e hanno ottenuto dei risultati di ascolto sorprendenti: sono state viste da 1 milione 87mila spettatori, con uno share del 5,1 per cento.

Le restanti saranno trasmesse rispettivamente il 12 (dalla 5 alla 8) e il 19 gennaio (dalla 9 alla 13). Finora la critica ha parlato benissimo di Goldrake U: il sito Fumettologica per esempio l’ha descritta come una serie in grado «di riportare in vita l’atmosfera dell’originale senza farne una copia carbone», senza «cedere alla tentazione della pura operazione nostalgia». Oltre al Giappone, i primi quattro episodi sono ambientati nei tre paesi in cui la serie originale di Goldrake ottenne i migliori riscontri: la Francia, l’Arabia Saudita (che ha coprodotto Goldrake U) e per l’appunto l’Italia.

La Rai aveva annunciato l’acquisizione dei diritti di Goldrake U a settembre, e la notizia era stata accolta con un certo entusiasmo tra le persone cresciute tra gli anni Settanta e Ottanta. Questo perché la serie originale da cui prende spunto fu una delle più popolari di quel periodo: UFO Robot Goldrake fu infatti il primo cartone giapponese di genere mecha – un filone di fantascienza caratterizzato dalla presenza di robot giganti pilotati dall’interno da esseri umani – a essere trasmesso in Italia, ed è tuttora quello più famoso e rappresentativo. La scelta di mandarlo in onda sulla stessa rete che lo presentò al pubblico italiano 47 anni fa, e in un orario da prima serata, ha quindi un forte significato simbolico.

UFO Robot Goldrake raccontava la storia del principe Duke Fleed, costretto a scappare dal suo pianeta (Fleed, per l’appunto) in seguito all’invasione di Vega, un malvagio imperatore che pianifica la conquista dell’intera galassia. Per una serie di fortunate circostanze, Duke Fleed riesce a impossessarsi del robot Goldrake, una delle tecnologie più avanzate del suo pianeta d’origine, e a raggiungere la Terra. Qui viene adottato dal professor Procton, un illustre scienziato che coordina un importante istituto di ricerca, che gli dà il nome di Actarus e lo presenta agli altri terrestri come un figlio che non vedeva da molto tempo. A un certo punto Vega vuole conquistare anche la Terra, e Actarus comincia a pilotare Goldrake per impedirglielo.

In Giappone la serie era stata trasmessa nel 1975 da Fuji Tv, con il titolo di UFO Robo Gurendaizā. Era la terza parte di una trilogia creata da Go Nagai, uno dei mangaka giapponesi più originali e influenti di sempre, conosciuta con il nome di “Saga dei Mazinger”: i primi due capitoli della serie avevano per protagonisti i robot che in Italia chiamiamo Mazinga Z e Grande Mazinga, mentre la terza e conclusiva è per l’appunto quella dedicata a Goldrake; di conseguenza, Goldrake fu il primo mecha conosciuto dal pubblico italiano, anche se da un punto di vista editoriale dovrebbe essere l’ultimo.

La prima puntata andò in onda sull’allora Rete 2 il 4 aprile del 1978, durante il programma per ragazzi Buonasera con... Inizialmente non si chiamava UFO Robot Goldrake, ma Atlas UFO Robot. Per molti anni è circolato online un aneddoto secondo cui la scelta di questo nome scaturì da una cattiva traduzione da parte di Nicoletta Artom, l’autrice che nel 1977 propose la serie alla Rai dopo averne visti alcuni episodi durante una fiera francese dedicata all’audiovisivo. Sempre secondo la leggenda, Artom lesse questo nome su un volantino che le fu consegnato durante la fiera, e su cui sarebbe stata riportata la dicitura “Atlas UFO Robot” (che in italiano suona più o meno come “La brochure di UFO Robot”).

In realtà questo aneddoto è stato smentito da Massimo Nicora, un blogger appassionato di cultura pop giapponese, nel libro C’era una volta Goldrake. Intervistando Paola De Benedetti, la persona che ai tempi si occupava della programmazione per bambini della Rai, Nicora ha scoperto infatti che si trattò di una scelta consapevole: l’adozione del termine “Atlas” fu un’idea della società di doppiaggio Roccasecca, che dopo aver visto questo nome sul materiale inviato da Pictural Films, la società di produzione francese che ai tempi possedeva i diritti per trasmettere la serie in Europa, propose di mantenerlo perché « suonava “esotico” e ben si affiancava alle parole “Ufo” e “Robot”».

UFO Robot Goldrake diventò così famoso per vari motivi. Il primo e più ovvio è che mostrò per la prima volta al pubblico italiano le caratteristiche più esaltanti e coinvolgenti del genere mecha, come le trasformazioni dei robot, i nomi originali delle loro armi (l’alabarda spaziale, nel caso dei Goldrake) e gli spettacolari combattimenti aerei di cui erano protagonisti.

Ma Goldrake diventò un fenomeno pop in Italia anche per via della sua sigla: la composero il tastierista Vince Tempera e il paroliere Luigi Albertelli, che furono assunti dalla Rai per creare una canzone d’apertura che contenesse dei riferimenti familiari per il pubblico italiano.

Per la realizzazione della sigla, la Rai mise a disposizione di Tempera la band jazz che suonava dal vivo nella maggior parte delle trasmissioni dell’emittente, a cui si aggiunsero altri musicisti, come l’allora bassista degli Area Ares Tavolazzi, il batterista Ellade Bandini, il chitarrista Massimo Luca e i cantanti Dominique Regazzoni, Michel Tadini e Fabio Concato, che si occuparono dei cori. Il testo invece fu scritto da Albertelli, che ai tempi lavorava come pubblicitario e che sfruttò le sue competenze per realizzare un qualcosa di leggero e molto pop, ma in grado di evocare un immaginario futuristico.

Il risultato fu una delle sigle italiane più famose in assoluto, caratterizzata da una parte strumentale di fiati riconoscibilissima, un ritmo incalzante e ballabile, dei cori didascalici («Ufo Robot, Ufo Robot») e quindi facilissimi da ricordare e dei riferimenti fantascientifici piuttosto inusuali per i tempi, come i «libri di cibernetica» e le «insalate di matematica». La sigla di UFO Robot Goldrake ottenne una popolarità enorme e istantanea: cominciò sin da subito a essere passata in radio, e si rivelò un efficace tormentone da far partire durante le feste. Da allora attorno alle sigle italiane dei cartoni giapponesi si sviluppò un mercato piuttosto florido.

– Leggi anche: L’epoca d’oro delle sigle italiane dei cartoni giapponesi

Più in generale, Goldrake diede inizio a una vera e propria mania per i mecha: la Rai e diverse emittenti locali cominciarono a importare decine di serie animate, come Daitarn III, Il Grande Mazinga, Golion e Gundam, solo per citarne alcune, e l’immagine di questi robot fu sfruttata per intensamente per vendere prodotti di vario tipo, come zaini, figurine, action figure.

Tra gli anni Settanta e Ottanta, i mecha furono anche protagonisti di varie polemiche: in molti ritenevano infatti questi cartoni violenti e diseducativi, e cominciarono a proporre la loro eliminazione dai palinsesti. Il tentativo più celebre fu quello dell’allora deputato e membro della commissione di vigilanza Rai Silverio Corvisieri, che nel 1979 presentò un’interrogazione parlamentare per bandire Goldrake dalla televisione pubblica.

Il successo di Goldrake rese l’Italia un mercato importantissimo per i prodotti culturali giapponesi. Non era così ovunque: Matt Alt, giornalista statunitense del Guardian che si occupa spesso di cultura pop giapponese, ha raccontato che in quel periodo negli Stati Uniti i mecha non attecchirono nell’immaginario collettivo come in Italia, e che i bambini italiani cresciuti negli anni Ottanta «erano fortunatissimi». «Sono sempre stato geloso delle loro possibilità: avevano accesso a una porzione di immaginario così ingombrante, dai cartoni che andavano in onda sulle reti locali ai giocattoli. Tutte cose che noi potevamo soltanto sognarci», ha detto Alt.