Il governo impugnerà la legge della Campania che permette a Vincenzo De Luca di ricandidarsi

Lo ha annunciato Giorgia Meloni: la decisione avrà conseguenze politiche anche in Veneto e sulla Lega

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante la conferenza stampa di fine anno (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante la conferenza stampa di fine anno (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)
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Giovedì la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato che il governo impugnerà di fronte alla Corte costituzionale la legge regionale della Campania che consente al presidente di regione in carica, Vincenzo De Luca, di ricandidarsi per un terzo mandato nel 2025. Lo ha detto nel corso della tradizionale conferenza stampa “di fine anno”, che per la seconda volta si è tenuta in realtà agli inizi di gennaio.

Questa procedura di impugnazione, prevista dall’articolo 127 della Costituzione, consente al governo di sollevare la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte se ritiene che una legge regionale vada oltre le competenze regionali: cioè può chiedere formalmente ai giudici che vigilano sul rispetto della Costituzione se quella norma non rientri nelle competenze della regione che l’ha approvata.

Il governo è arrivato a questa decisione nell’ultimo giorno utile: il termine massimo entro cui poter impugnare una norma è di sessanta giorni dal giorno della sua pubblicazione. E la legge campana, approvata dal Consiglio regionale il 5 novembre del 2024, è stata pubblicata l’11 novembre. Entro il 10 gennaio, dunque, il ricorso alla Corte costituzionale andava formalizzato. La lunga riflessione che ha accompagnato questa decisione si spiega con due ragioni: da un lato la complessità della materia sul piano giuridico e costituzionale, e dall’altro la delicatezza politica della materia. Se il ricorso verrà accolto dalla Corte, infatti, oltre a impedire di fatto a De Luca, del Partito Democratico, di ricandidarsi, il governo liquiderà le stesse ambizioni di alcuni presidenti di regione leghisti, a partire da Luca Zaia in Veneto. E questo ha fatto sì che la Lega, che fa parte della coalizione di governo, sia stata scettica su questa decisione.

Del resto era stato lo stesso De Luca a dire, in maniera sarcastica ma efficace, che lui si assumeva la responsabilità di risolvere un problema che non riguardava solo la sua carriera, ma che aveva ripercussioni dirette su molti altri colleghi presidenti di regione. Il 5 novembre De Luca aveva ottenuto che il Consiglio regionale approvasse una norma che recepisce e reinterpreta una legge nazionale del 2004, che vieta di ricandidarsi alla carica di presidente di regione chi abbia già ricoperto quell’incarico per due mandati consecutivi. La legge campana specifica che «ai fini dell’applicazione della presente disposizione, il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge». Con questo stratagemma, dunque, il computo dei due mandati partirebbe dal momento del recepimento della norma nazionale da parte di ogni singola regione, e dunque dal mandato in corso, non tenendo conto di quello già svolto da De Luca tra il 2015 e il 2020.

È stata un po’ una forzatura, nonostante De Luca si richiamasse a un precedente già adottato in Veneto: con lo stesso escamotage, Zaia ha infatti potuto ricandidarsi una terza volta ed essere eletto per il terzo mandato consecutivo nel 2020. Da questo punto di vista, in effetti, la Costituzione fornisce appigli al presidente campano, perché quella elettorale è una delle cosiddette “materie concorrenti”: una di quelle su cui le regioni hanno una certa autonomia di intervento. In particolare, una legge costituzionale del 1999 riformò l’articolo 122 della Costituzione e stabilì che il sistema di elezione del presidente e degli altri componenti della giunta regionale «sono disciplinati con legge della Regione». A questa legge fa riferimento De Luca per sostenere la legittimità della sua iniziativa.

Quello stesso articolo, però, prosegue specificando che la regione può legiferare sul tema «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi». Secondo i consiglieri giuridici di Giorgia Meloni, tra cui anche il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, la legge del 2004 che disciplina i limiti dei due mandati è autoapplicativa, cioè ha assunto piena validità dal momento della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (nel 2004, appunto), indipendentemente dunque dal momento in cui questa o quella regione l’hanno poi recepita. Sarà su questo aspetto che si svilupperà la discussione tra i giudici della Corte costituzionale.

Ma la questione è anche politica. De Luca aveva da tempo annunciato la sua intenzione di ricandidarsi; e quando la segretaria del suo partito, Elly Schlein, ha detto che non lo avrebbe sostenuto, il presidente ha manifestato l’intenzione di candidarsi anche senza l’appoggio del PD, con delle sue liste o con quelle di altri partiti centristi e forte di un alto consenso personale consolidato nei dieci anni di governo. Per la destra, dunque, lasciare candidare De Luca avrebbe un vantaggio: il fronte del centrosinistra si spaccherebbe, il PD andrebbe in confusione, e il candidato sostenuto da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia avrebbe buone probabilità di prevalere.

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Per quanto riguarda Luca Zaia in Veneto, Attilio Fontana in Lombardia e Massimiliano Fedriga in Friuli Venezia Giulia: sono tutti presidenti al secondo mandato (Zaia al terzo), dunque prossimi alla scadenza, e tutti della Lega. I tre presidenti hanno già contestato l’intenzione del governo, così come altri esponenti della Lega. Del resto, nel febbraio del 2024, la Lega aveva già tentato di abolire di fatto il limite dei due mandati con una forzatura in Senato, proponendo cioè un proprio emendamento non concordato con gli alleati di Forza Italia e Fratelli d’Italia: e alla fine la maggioranza si era spaccata in commissione Affari costituzionali e l’emendamento era stato respinto.

Per Meloni, impedire a Zaia e Fontana di ricandidarsi significa in particolare ribadire la propria legittima aspirazione a indicare come candidati del centrodestra alle prossime regionali in Veneto e Lombardia, nel 2025 e nel 2027, esponenti di Fratelli d’Italia. Il suo partito è infatti ampiamente il primo della coalizione al Nord da oltre due anni, ma non ne governa nessuna regione in virtù di precedenti equilibri politici.

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