L’economia dei safari è una cosa seria
Per alcuni stati africani vale il 10 per cento del PIL, ma il modello attuale ha parecchi problemi, fra cui la distribuzione della ricchezza e il rischio di diventare elitario
L’idea del safari come forma di turismo nacque all’inizio del Novecento, nel periodo di massima espansione coloniale degli stati europei nel continente africano. Il primo parco nazionale in Africa, il Virunga National Park, fu creato nel 1925 dai belgi nell’attuale Repubblica Democratica del Congo. Sono passati quasi cento anni da allora, e oggi i safari sono diventati una parte importante dell’economia di almeno una decina di stati africani: non si fanno più per cacciare gli animali, come una volta, e hanno avuto anzi effetti positivi sulla conservazione di ambienti, flora e fauna, e promettono di farlo anche in futuro.
Ma ci sono altri aspetti più discussi e problematici, come la ridistribuzione dei ricavi dell’industria turistica e la sostenibilità di questo genere di sfruttamento degli ecosistemi. In alcuni casi si osservano già alcuni dei problemi tipici dell’overtourism, seppur in contesti molto differenti da quelli delle grandi città europee.
Il settore dei safari genera in tutta l’Africa ricavi per quasi 12 miliardi di euro, e un indotto molto superiore, di oltre 40 miliardi (dati relativi al 2023). Nell’Africa sub-sahariana quattro turisti su 5 arrivano per partecipare a un safari e in alcuni paesi, su tutti Kenya e Tanzania, questo genere di turismo vale cifre vicine al 10 per cento del PIL, il prodotto interno lordo.
Le stime indicano per il prossimo decennio una crescita prevista del turismo dei safari di circa il 6,5 per cento l’anno: nel 2030 i turisti complessivi nel continente dovrebbero arrivare a 130 milioni, più del doppio dei 62 milioni del 2022. Già oggi in Africa il settore dà lavoro a 25 milioni di persone (il 5,6 per cento dei posti di lavoro complessivi). Questi dati continentali ovviamente possono essere fuorvianti, perché comprendono realtà molto diverse (a questo riguardo è molto chiaro, sin dal titolo, il libro di Dipo Faloyin L’Africa non è un paese).
Le 8.400 aree protette del continente (di cui quasi la metà sono parchi nazionali) occupano circa il 13,8 per cento del territorio, ma con una certa approssimazione si possono indicare i paesi dell’Africa meridionale e orientale come quelli in cui il settore dei safari è più sviluppato: oltre a Kenya e Tanzania, già citate, alcune delle destinazioni più popolari sono Botswana, Malawi, Mozambico, Namibia, Ruanda, Sudafrica, Uganda, Zambia e Zimbabwe.
Le aree protette in questi paesi sono nate da un approccio colonialista, poi definito della “conservazione a fortezza”: gli stati creavano zone chiuse in cui gli ecosistemi erano isolati dall’interferenza umana, talvolta anche allontanando le popolazioni locali e inizialmente a uso esclusivo degli europei in cerca di un’esperienza esotica.
Questo da una parte creava una contrapposizione fra popolazione locale e parchi, come nel caso dei Masai e della Ngorongoro Conservation Area; dall’altra faceva nascere isole preservate all’interno di aree più grandi, dove invece le risorse ambientali venivano sfruttate o non rispettate. In generale un approccio di questo tipo sul lungo periodo può anche creare problemi agli stessi animali che si vogliono preservare: per fare un esempio, i leoni che vivono in un’oasi finiranno col discendere tutti dalla stessa famiglia, con i problemi genetici che questo comporta. Gli incroci fra consanguinei porta a una minore variabilità genetica, nonché a quella che viene definita “depressione genetica”, che comporta una crescita più lenta, ridotta fertilità, maggiore predisposizione ad alcune malattie.
Oggi vengono studiate forme di compensazione per le popolazioni native e vengono talvolta creati “corridoi” transnazionali che uniscano diversi parchi e permettano gli spostamenti degli animali. Il modello di base però resta per lo più lo stesso.
Molta più attenzione viene invece riservata al “ritorno positivo per il territorio” e al contributo alla conservazione degli ecosistemi. I tour operator e gli enti che gestiscono i parchi promuovono iniziative di finanziamento di scuole e ospedali, costruzione di infrastrutture, politiche di salvaguardia ecologica. Spesso queste attenzioni sono anche dettate da motivi di marketing e dalla necessità di venire incontro a una maggiore quota di turisti ecoresponsabili. Non tutte le attività dichiarate sono totalmente tracciabili o portano a effetti evidenti.
Il modello più diffuso di turismo legato ai safari è quello dei viaggi organizzati, con gite in jeep nei parchi e soggiorni in lodge e strutture di alto livello (ce ne sono anche altri, ne parliamo qui): i governi spesso garantiscono con concessioni pluriennali i diritti per la costruzione e la gestione di queste strutture, ma anche dei campeggi all’interno dei parchi. Le aziende che vogliono aggiudicarsele hanno bisogno di grossi investimenti iniziali (nell’ordine dei milioni di euro) e spesso solo quelle gestite o partecipate da grossi gruppi esteri hanno i fondi per garantirli. Parte della ricchezza prodotta dal settore non resta quindi nei paesi che ospitano i parchi, ma finisce altrove.
Secondo un’inchiesta di Condé Nast Traveler del 2020 le persone nere sono coinvolte in modo molto parziale nel business dei safari, restando relegate ai lavori meno retribuiti (autisti, camerieri e in misura minore guide): le cose non sono cambiate più recentemente, la maggior parte dei proprietari delle strutture è bianca ed è nero circa il 15 per cento degli oltre 800 iscritti all’Associazione Africana dei Viaggi e del Turismo (ATTA), che riunisce operatori e imprese del settore.
Ci sono alcuni tentativi di cambiare questa realtà: per ottenere una concessione, dai primi anni Duemila in Botswana la proprietà delle aziende deve essere per almeno il 30 per cento riconducibile alla comunità locale. Seppur imperfetta e potenzialmente aggirabile, la legge ha portato a qualche esempio virtuoso: per citare un esempio le persone della comunità Khumaga sono fra i coproprietari del Moela Lodge, nel parco Makgadikgadi, e sono state coinvolte nella costruzione e gestione delle strutture.
Un’altra questione sollevata negli ultimi anni è quella dell’eccessivo affollamento delle destinazioni più famose, più facilmente raggiungibili e che promettono avvistamenti dei cosiddetti “big five”: leoni, elefanti, bufali, leopardi e rinoceronti. In alcune parti del parco Kruger, in Sudafrica, si creano code di jeep, e in generale l’avvistamento di un felino comunicato via radio da guida a guida può causare affollamento intorno all’animale.
In questo caso, come scrive Current Affairs, è la stessa funzione di conservazione a entrare in crisi, perché il modello attuale «presta poca attenzione agli interessi o al benessere dei singoli animali, come un singolo rospo, un grillo o una giraffa, e attribuisce invece valore alle specie. Ma le specie non soffrono, i singoli individui sì».
Le risposte all’eccessivo affollamento finora sono state in rari casi l’introduzione di un numero chiuso per l’accesso ai parchi, più spesso l’aumento dei prezzi. Ogni giorno passato all’interno dei Masai Mara, in Kenya, costa 200 dollari (circa 190 euro), così come il permesso per entrare nel cratere di Ngorongoro per sei ore; le licenze per i trekking per vedere i gorilla in Ruanda arrivano a 1.500 dollari al giorno (1.440 euro). Sono prezzi che hanno raramente limitato le presenze, soprattutto nei periodi di maggior afflusso, e rischiano invece di rendere l’intero settore piuttosto elitario, e “riservato” ai turisti provenienti dai paesi più ricchi.