Non esistono le amicizie perfette
Proprio le più strette sono spesso relazioni ambivalenti e caotiche, con influenze positive e negative: c’entra anche il modo in cui ci siamo evoluti
Un proverbio cinese, citato in un libro di successo degli anni Novanta dello scrittore statunitense Robert Greene, paragona gli amici alle mascelle e ai denti di animali feroci: «se non si presta la dovuta attenzione, ci si ritrova preda». Il libro in questione, Le 48 leggi del potere, che trae abbastanza creativamente una serie di insegnamenti dall’analisi di diversi eventi e personaggi storici, attirò alcune critiche per l’interpretazione delle relazioni umane che propone, giudicata cinica e immorale.
Indipendentemente dalle interpretazioni di Greene, che nel suo libro si occupa dei problemi che emergono quando relazioni di amicizia e di potere si confondono, diversi studi, riflessioni e analisi di scienze sociali degli ultimi decenni descrivono effettivamente le amicizie, soprattutto le più strette, come un tipo di rapporto umano più ambivalente, imprevedibile e disordinato di come venga comunemente rappresentato e, molto spesso, idealizzato. Il che non significa che non siano fondamentali per la salute fisica e mentale, come mostrano da tempo altri studi sugli effetti positivi delle relazioni sociali sulla longevità, sulla creatività e sulla riduzione delle malattie e dell’ipertensione arteriosa.
In generale tendiamo a pensare che le amicizie più sincere e profonde siano reciproche, simmetriche e incondizionate. Ma come ogni altra relazione umana anche queste possono in realtà essere sbilanciate, conflittuali e condizionate da ostilità latenti e tensioni. Inoltre le amicizie, incluse quelle di lunga data, tendono a evolversi: possono anche finire, quando i costi di averle superano i piaceri e i benefici. A volte finiscono senza alcun motivo, o meglio: per ragioni fuori dal nostro controllo, legate al modo in cui ci siamo evoluti come specie, anche se queste ragioni sono spesso offuscate dalla nostra normale tendenza individuale ad assumerci o ad attribuire ai comportamenti altrui le responsabilità della fine di un rapporto di amicizia.
Uno dei dati da cui emerge una certa discordanza tra la nozione idealizzata di amicizia e le amicizie reali, innanzitutto, è che soltanto la metà circa di quelle che definiamo «migliori» sono considerate allo stesso modo dall’altra persona. Gli autori e le autrici di una ricerca pubblicata nel 2016 sulla rivista Plos One reclutarono un gruppo di persone che frequentavano uno stesso corso di laurea, e chiesero a ciascuna di loro di valutare il grado di conoscenza con tutte le altre in una scala da 0 a 5.
Nel 94 per cento dei casi in cui una persona ne definiva amica un’altra si aspettava che anche l’altra persona la definisse tale. Ma contrariamente alle aspettative dei partecipanti, che consideravano reciproche quelle relazioni, in realtà quasi la metà delle amicizie erano unilaterali. C’è insomma, sulla base dei risultati della ricerca, una discreta probabilità di non essere nell’ipotetica lista dei migliori amici dei nostri migliori amici. E proprio la scarsa capacità di «percepire la direzionalità dei legami di amicizia», conclusero i ricercatori e le ricercatrici, può limitare significativamente la capacità di impegnarsi nella relazione.
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Molte amicizie sono poi relazioni «ambivalenti», che nelle scienze sociali sono quelle tipicamente caratterizzate da aspetti allo stesso tempo piacevoli e sgradevoli, e da sentimenti sia positivi che negativi verso le altre persone, scrisse sulla rivista Aeon la giornalista statunitense Carlin Flora, autrice del libro Friendfluence. È una caratteristica di molti rapporti familiari, ma è piuttosto comune anche nelle relazioni di amicizia, e può essere una fonte di grande stress.
Secondo la psicologa statunitense Julianne Holt-Lunstad, che si è occupata a lungo di amicizie ambivalenti, le relazioni che suscitano sia affetto che fastidio sono le più difficili da gestire. In un suo studio molto citato del 2003, condotto insieme ad altri psicologi e psicologhe, Holt-Lunstad chiese a un gruppo di 102 persone in buona salute di indossare per un periodo di tre giorni un misuratore della pressione arteriosa, in modo da verificarla dopo ogni interazione sociale.
Dopo interazioni con persone a cui i partecipanti erano dichiaratamente legati da sentimenti positivi le misurazioni della pressione indicarono, prevedibilmente, i livelli più bassi in assoluto. Con gli amici ambivalenti la pressione tendeva invece a raggiungere i livelli più alti: anche più alti rispetto alle misurazioni successive alle interazioni con persone ritenute antipatiche o associate esplicitamente a sentimenti negativi. Una delle possibili spiegazioni, secondo Holt-Lunstad, è che le relazioni ambivalenti sono più imprevedibili rispetto alle altre, e questo portava i partecipanti a rimanere più vigili, temendo cosa quelle persone avrebbero potuto dire o fare di inopportuno.
Anche le persone che si considerano reciprocamente buoni amici o buone amiche potrebbero a un certo punto della loro vita cominciare a non condividere più obiettivi, valori e abitudini su cui in parte si fonda la loro relazione. Mantenere l’amicizia con alcune persone può in questi casi essere faticoso, anche se quelle persone «di sicuro non ti hanno fatto niente di male», scrisse Flora: solo che rimanere con loro diventa come «camminare controvento».
Un rapporto di amicizia può poi facilmente cambiare quando subentra un rapporto professionale, rendendo incerti i confini tra l’uno e l’altro. E a volte, scrive Greene nel libro Le 48 leggi del potere, è proprio la cortesia iniziale a creare uno squilibrio, perché le persone «pretendono di meritare la loro buona sorte», e quindi la restituzione di un favore può creare disagio in chi sente di doverlo ricambiare. Assumere gli amici per svolgere attività professionali implica spesso una condiscendenza «che li affligge segretamente», scrive Greene, e porta a un lento deterioramento dei rapporti: «un po’ più di onestà, risentimento e invidia qui e là e, prima di accorgervene, l’amicizia svanisce».
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Il fatto che tutte le amicizie possano essere ambivalenti e mutevoli deriva in parte anche da aspetti evolutivi che non riguardano l’individuo ma la specie. In un influente articolo pubblicato nel 1971 il biologo evoluzionista Robert Trivers elaborò la teoria del cosiddetto «altruismo reciproco», secondo cui ogni essere umano è dotato di una tendenza all’altruismo così come all’imbroglio. Secondo Trivers il sistema di relazioni tra individui si regge sulla probabilità che l’individuo che beneficia di un atto altruistico lo contraccambi in un secondo momento. La selezione naturale favorisce l’esclusione dal gruppo di chi imbroglia palesemente, cioè chi non contraccambia affatto l’atto altruistico, ma sfavorisce anche l’«eccesso» di altruismo. Favorisce invece l’imbroglio «subdolo», quello di chi contraccambia l’atto altruistico dando un po’ meno di quanto riceve.
Secondo Flora, per comprendere meglio le nostre responsabilità individuali nei conflitti e nell’evoluzione delle amicizie, il punto non è capire «se siamo imbroglioni o altruisti, buoni o cattivi, ma in che misura siamo ciascuna di queste cose in diversi contesti e relazioni». Ci siamo evoluti in modo da sapere individuare abbastanza bugie per non essere del tutto imbrogliati, ma anche per accettare che a imbrogliare possano essere nostri amici o amiche, senza che questo limiti la nostra capacità di avere relazioni con gli altri.
Perdere amicizie è abbastanza comune e, in una certa misura, inevitabile, secondo diverse ricerche della psicologa dell’università di Stanford Laura Carstensen. Il numero di persone con cui usciamo, secondo i suoi studi, tende a diminuire dopo i diciassette anni, ad aumentare intorno ai trenta e a diminuire di nuovo tra i quaranta e i cinquanta. E probabilmente succede anche perché sarebbe altrimenti molto faticoso avere contatti con tutti gli amici avuti nel corso della vita, cosa che potrebbe impedire alle persone di prestare attenzione a chi potrebbe sostenerle meglio in determinate fasi della vita.
A volte, dopo gli anni della scuola, le amicizie importanti tra studenti finiscono anche in funzione della necessità di ciascuno e ciascuna di loro di acquisire e fare evolvere la propria identità. Nel bene e nel male, secondo le ricerche della sociologa del Dartmouth College Janice McCabe, costruiamo l’immagine che abbiamo di noi e la nostra personalità anche in opposizione ai modelli forniti dagli amici e dalle amiche.
Per quanto la fine di un’amicizia senza spiegazioni possa in alcuni casi deludere o essere emotivamente devastante, concluse Flora, è possibile che la maggior parte dei nostri amici stia semplicemente facendo del proprio meglio, esattamente come noi. E se alcune persone si sono allontanate da noi, o noi da loro, «forse possiamo accettare queste fratture comuni, senza cedere a un senso di colpa così opprimente da spingerci a schiaffare l’etichetta “tossici” su quelli che non vogliamo più come amici», ricordandoci che molti fattori nell’amicizia sono fuori dal nostro controllo, e che le forze che stabiliscono a chi restiamo vicini e a chi no possono essere sconosciute persino a noi.