Come stanno andando le grandi riforme del governo

Quella che sembrava meno importante, cioè quella della giustizia, sembra ora procedere più spedita, mentre le più grosse si sono un po' arenate

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni coi suoi due vice, Antonio Tajani e Matteo Salvini, a Palazzo Chigi, il 3 novembre 2023 (Roberto Monaldo/ LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni coi suoi due vice, Antonio Tajani e Matteo Salvini, a Palazzo Chigi, il 3 novembre 2023 (Roberto Monaldo/ LaPresse)
Caricamento player

Mercoledì l’aula della Camera inizierà a votare il disegno di legge di riforma costituzionale della giustizia. La discussione e le procedure di voto andranno avanti per parecchi giorni, ma l’approvazione definitiva dovrebbe essere raggiunta entro la fine di gennaio, o la prima metà di febbraio, come auspicato giorni fa anche dal ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia. Sarà solo il primo dei quattro passaggi parlamentari necessari. Trattandosi di una riforma che modifica la Costituzione, dovrà essere approvata per due volte da ciascuna camera, e nel secondo voto sia la Camera sia il Senato dovranno approvarla a maggioranza assoluta dei membri.

E così verosimilmente nel giro di un mese anche la terza grande riforma istituzionale portata avanti dal governo di Giorgia Meloni avrà compiuto il suo primo decisivo passo in parlamento. Ma questo è in verità un successo solo parziale del governo, che finora sta avendo difficoltà a portare a compimento le altre due grandi riforme: quella sull’autonomia differenziata delle regioni, voluta in particolare dalla Lega, è stata infatti dichiarata in larga parte illegittima dalla Corte costituzionale; e quella sul cosiddetto “premierato”, cioè sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, definita da Meloni «la madre di tutte le riforme», dopo una prima approvazione in Senato è ferma alla Camera dal giugno scorso.

Quella della giustizia, che introduce tra l’altro la separazione delle carriere dei magistrati inquirenti (cioè i pubblici ministeri) e giudicanti (cioè i giudici) e due nuovi importanti organismi di autogoverno della magistratura, era nata come la riforma di Forza Italia, il terzo partito della maggioranza di governo. Ma col passare dei mesi anche Fratelli d’Italia ha iniziato a investire su questo provvedimento, rivendicandolo in modo sempre più assertivo. E questo, almeno in parte, è una conseguenza proprio dello stallo del premierato: incontrando crescenti difficoltà su uno, Fratelli d’Italia ha deciso di ribadire che anche l’altro è frutto della volontà di Meloni.

L’iter di approvazione di questa riforma non è stato fulmineo, fin qui. Il disegno di legge, proposto da Meloni e dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, era stato approvato dal Consiglio dei ministri il 29 maggio del 2024, ed era poi rimasto a lungo in coda ai lavori della commissione Affari costituzionali della Camera. Questa lentezza era motivata in parte dalla complessità e dalla delicatezza della riforma, e in parte dal fatto che nel frattempo era in discussione un’altra importante riforma della giustizia, pure quella proposta da Nordio. L’ingorgo normativo aveva tra l’altro richiesto che il presidente della Repubblica intervenisse sia informalmente sia ufficialmente, suggerendo di ridefinire il perimetro d’intervento delle varie norme.

– Leggi anche: Perché la separazione delle carriere dei magistrati è considerata di destra

Nonostante la riforma della giustizia fosse quella approntata per ultima, e su cui c’erano inizialmente i maggiori scetticismi, ora sembra si stia avviando su un percorso più spedito. Lo si era capito già dopo la riunione che Nordio aveva convocato con alcuni parlamentari di maggioranza che si occupano di giustizia il 29 ottobre al suo ministero. Durante quell’incontro, Nordio aveva sollecitato in particolare le commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato a dare la massima priorità alla riforma della giustizia, dicendo che secondo quanto risultava al governo quel tema era molto popolare, e in particolare la separazione delle carriere incontrava un consenso trasversale.

Col passare delle settimane l’investimento di Fratelli d’Italia sulla riforma è aumentato. Un po’ perché per Meloni si tratta di una risposta indiretta, ma a suo modo vigorosa, a quella parte della magistratura che secondo una convinzione radicata in vari dirigenti del suo partito ce l’avrebbe col governo (per la questione dei centri per i migranti in Albania, per alcuni presunti complotti ai danni di Meloni stessa e della sua famiglia, eccetera). Un po’ perché contestualmente, come dicevamo, le altre grandi modifiche dell’assetto costituzionale si sono un po’ arenate, e questo rischia di mostrare un’inconcludenza dell’azione riformatrice di Meloni, dopo oltre due anni di governo della destra.

Per certi versi, il principale intoppo è stata la bocciatura della riforma dell’autonomia differenziata da parte della Corte costituzionale. Lo scorso 14 novembre i giudici della Consulta hanno dichiarato illegittime ampie e sostanziali parti della riforma approvata dal parlamento su iniziativa della Lega. Così com’è, la legge è inapplicabile, e dunque le regioni del Nord guidate da presidenti della Lega non potranno utilizzarla per chiedere il trasferimento di maggiori poteri da parte dello Stato centrale.

La ministra per le Riforme Maria Elisabetta Casellati durante il Question time alla Camera dei deputati, l’11 dicembre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Questo ha prodotto un irrigidimento della Lega. Il patto iniziale su cui si fondava l’accordo tra Salvini e Meloni era che l’autonomia differenziata e il premierato procedessero, per quanto possibile, di pari passo. Il fatto che ora la Lega si ritrovi senza la sua riforma induce alcuni esponenti leghisti a rimarcare con forza le perplessità sul premierato già indicate nei mesi scorsi al Senato: sia sulla riforma in sé sia sulla legge elettorale che andrebbe definita per renderla coerente col nuovo sistema istituzionale che entrerebbe in vigore.

– Leggi anche: Trovare una legge elettorale adatta al “premierato” sarà complicato per il governo

Per via del clima non proprio sereno la commissione Affari costituzionali della Camera, che dovrebbe discutere la riforma del premierato, per ora procede con cautela. Il suo presidente, il deputato Nazario Pagano di Forza Italia, ha spiegato che dopo la riforma della giustizia è in calendario quella sulla Corte dei Conti. Su quel provvedimento la commissione sarà impegnata per varie settimane, verosimilmente fino a fine febbraio.

Nel frattempo, però, la Corte costituzionale potrebbe indirettamente complicare ancor più il percorso delle riforme del governo. Il 13 gennaio i giudici si riuniranno per stabilire se il referendum sull’autonomia differenziata, per il quale vari partiti e associazioni di centrosinistra hanno raccolto le firme nei mesi passati, potrà svolgersi oppure no.

I quesiti su cui sono state raccolte quelle firme riguardano l’abolizione della legge approvata dal parlamento, ma ora che la Corte costituzionale ha sollecitato il parlamento a cambiarla in modo radicale non è detto che quei quesiti possano essere considerati ancora validi e attuali. La Corte di Cassazione, il 12 dicembre scorso, si è pronunciata in favore del referendum. Ora la Corte costituzionale entro il 20 gennaio dovrà confermare il giudizio della Cassazione, e se lo farà il referendum dovrà tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Sarebbe lo scenario peggiore per il governo, sul piano politico. A prescindere dall’esito del voto, infatti, il referendum sarebbe preceduto da una campagna referendaria alimentata dalle opposizioni, che con ogni probabilità punterà sul bisogno di salvaguardare la Costituzione dai tentativi di modifica portati avanti dal governo: non solo quelli sull’autonomia delle regioni, ma di riflesso anche sul premierato. Da un lato, dunque, il clima politico si farebbe più teso, rendendo più complicata la gestione dei lavori parlamentari sul premierato; dall’altro, di conseguenza, proprio per non infervorare ulteriormente il dibattito, e dunque aumentare le possibilità che venga raggiunto il quorum, sarebbe poco consigliabile per la maggioranza procedere sul premierato nei mesi della campagna referendaria. E questo significa attendere almeno fino all’inizio di giugno, se non oltre, almeno secondo l’idea condivisa informalmente da alcuni dirigenti di Fratelli d’Italia.

Se si verificasse questo scenario, però, l’iter di approvazione dovrebbe andare più veloce di com’è stato finora. La Camera dovrebbe votare a maggioranza semplice, e poi di nuovo Senato e Camera, non prima dei tre mesi successivi, dovrebbero di nuovo esprimersi con una maggioranza assoluta degli eletti. Siccome sulla base degli attuali equilibri parlamentari è inverosimile che l’approvazione definitiva della riforma avvenga con almeno i due terzi dei membri di ciascuna camera, la riforma verrebbe sottoposta al giudizio di un referendum confermativo. E non è affatto scontato che tutto ciò possa avvenire nel corso di questa legislatura, in tempo per permettere al parlamento di fare una nuova legge elettorale adeguata al nuovo assetto costituzionale prima che finisca, cioè a ottobre 2027.