Ritorno in ufficio

«Nella seconda metà del ventesimo secolo, si riusciva a capire con un solo sguardo chi aveva il potere: la persona nel corner office, la stanza angolare. Oggi quell’emblema sta morendo. All’apparenza il nuovo ufficio post pandemico e post smart working è fluido ed egalitario con spazi identici e indifferenziati, dove niente appartiene a nessuno ma tutto a tutti. A leggere i dati non è facile farsi un quadro chiaro. Il sospetto è che dalla pandemia siano cambiate molte cose, soprattutto lo storytelling con cui sono raccontate. In Italia dal 2004 l’andamento delle compravendite di uffici è stato in costante discesa fino al 2015 quando è tornato a crescere, soprattutto a Milano, Torino, Roma e Genova. Invece negli Stati Uniti si parla di “apocalisse degli uffici”».

Il ragioniere Ugo Fantozzi a bordo della sua Bianchina (via Wikimedia)
Il ragioniere Ugo Fantozzi a bordo della sua Bianchina (via Wikimedia)

In tutti gli uffici dove sono stata, dopo un po’ sentivo salire dentro di me una certa frenesia, come se l’ufficio stesse andando a fuoco e io dovessi scappare in strada, respirare l’aria e vedere la luce, prendere il motorino e, dopo un lungo giro, tornare a casa.

Mi sono laureata alla fine degli anni ’90 e, dopo un po’ di tempo passato a fare la giornalista free lance, ho lavorato in un’azienda che faceva banche dati giuridiche, in una di servizi di formazione finanziati dall’UE, in un’agenzia di eventi sportivi e in una di eventi culinari. Ho fatto anche un’esperienza nella direzione comunicazione di una multinazionale e all’inizio andavo in sollucchero quando entravo negli uffici del quartier generale di Londra, perché lì niente era lasciato al caso, ma tutto si faceva in base a precise procedure basate sulle teorie scientifiche del lavoro messe a punto più di cent’anni prima dall’ingegner Frederick Taylor e dai suoi successori. Dopo ho cominciato a gestire, per conto mio o con agenzie di PR, l’ufficio stampa di aziende dei più vari ambiti di mercato.

Ma dopo un po’ me ne andavo, forte della mia partita Iva (non ho mai accettato un contratto di assunzione), oppure convincevo i miei capi o committenti a farmi lavorare da casa. Mio padre mi diceva: «Sì, va bene, ma non te lo cerchi un lavoro normale, in ufficio?» E io gli rispondevo: «Perché parli tu? La mattina ti alzi e vai nella sala controllo di una centrale nucleare, mica in ufficio!». Lui si innervosiva e si allontanava ripetendo: «Sempre con questa storia tu, fin da piccola, perché nella vita si deve andare a lavorare!».

A un certo punto ho pensato a un mio infantilismo, a un disturbo dell’attenzione e quindi a un’iperattività, e, infine, a un’ansia da separazione. Così ho chiesto a famigliari e amici se ricordassero qualcosa nella mia infanzia che potesse essere legato a questi tratti. Ma nessuno ha confermato le mie ipotesi.

Poi un giorno, in libreria, ho visto Lavoro. Una storia culturale e sociale di James Suzman, antropologo nato nel 1970 a Johannesburg. In seconda di copertina c’era scritto:

«Ma lavorare fa davvero parte della nostra natura? Per rispondere Suzman ripercorre la storia dell’umanità dalle origini ai giorni nostri, e se è vero che oggi troviamo una realizzazione e uno scopo nel lavoro, i nostri antenati concepivano in modo molto diverso se stessi e il tempo a loro disposizione. Il mito odierno dell’occupazione, considerata quasi come una virtù, è un’evoluzione relativamente recente nella nostra storia millenaria, che ha avuto origine con l’avvento dell’agricoltura e con la nascita delle città, con la domesticazione degli animali e, successivamente, con la comparsa delle macchine».

James Suzman confermava una sensazione che provavo fin da piccola: non fa parte della nostra natura svegliarsi tutte le mattine, prepararsi, vestirsi adeguatamente e andare in ufficio a lavorare per 8 o più ore e tornare a casa la sera e poi ricominciare. È qualcosa che abbiamo inventato noi nel corso dell’evoluzione sulla spinta della nostra meravigliosa aspirazione a stare meglio, a migliorare le nostre condizioni di vita. Aspirazione che è alla base del progresso che ci ha portato tanti benefici ma anche effetti non previsti, che ora abbiamo difficoltà a gestire perché più complessi di noi.

Nella interessante newsletter Mercoledì di Rochester dedicata alla popolazione degli uffici, James Hansen, consulente strategico di impresa, ha scritto che questa è «la prima epoca umana in cui la sostanziale maggioranza di chi lavora lo fa usando la mente e stando seduto, anziché piegato in due nei campi o nei boschi. È la de-muscolarizzazione del lavoro ed è l’ufficio il tempio di questa civiltà». Hansen afferma anche che “la civiltà dell’ufficio” ha reso possibile un rapporto nuovo tra i sessi, «in buona parte reso l’attività produttiva umana indifferente al tempo meteorologico, trasformato le necessità dietetiche, stravolto la comune idea del galateo, aumentato enormemente la nostra conoscenza del mondo esterno, arrivando perfino a ridisegnare il contenuto del matrimonio. L’ufficio ha innestato una propria cultura (…), per definizione, di persone dalla buona scolarizzazione».

L’ufficio non è mai stato solo il posto dove si va a lavorare. Lo spiega bene Imma Forino, docente di Architettura al Politecnico di Milano, nel suo ricco saggio Uffici, dove l’ufficio è definito uno dei grandi «tasselli del sistema dell’organizzazione sociale», «teatro delle radicali trasformazioni di forma e di significato del mondo contemporaneo».

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I primi “uffici” della storia risalgono ai tempi dei monaci amanuensi, erano ampi spazi in cui ogni monaco aveva un suo scrittoio in legno dal piano inclinato, come si vede per esempio nel film Il nome della rosa. Ma ancora prima, nell’antico Egitto, lo scriba poteva disporre di “una stanza tutta per sé”, per lavorare (scrivere!) senza essere disturbato. Fino al tredicesimo secolo la parola ufficio indicava una funzione e non un luogo. Solo in seguito, con lo sviluppo del commercio, si sarebbero rese necessarie strutture dove svolgere i lavori amministrativi, ma è con la prima rivoluzione industriale, cioè con la nascita delle banche, delle ferrovie e delle fabbriche, che si diffonde e stabilizza l’esigenza di allestire spazi anche per le attività logistiche e manageriali. Il primo grattacielo della storia viene costruito a Chicago, Stati Uniti, nel 1885: l’Home Insurance Building era alto più di 40 metri, un’altezza incredibile per l’epoca. Nei primi del ’900 New York inizia la sua grande crescita in verticale, mentre in Europa, a Londra, Vienna, Parigi, dove non sussiste il problema della scarsità e quindi dell’altissimo costo dei terreni, gli uffici rimangono mimetizzati tra gli edifici delle abitazioni private.

In questa fase vengono creati i primi arredi per l’ufficio e si sviluppa, soprattutto, la progettualità di interni dedicata agli ambienti lavorativi e pensata in funzione di efficienza e controllo. La geografia degli uffici, cioè, è da subito strettamente legata alla geografia del potere. Per questo nei decenni seguenti l’ufficio continua a trasformarsi in relazione alle varie fasi industriali e alle dinamiche della forza lavoro.

L’open-space, dove i lavoratori sono ordinati in lunghe file di scrivanie, comincia a svilupparsi negli anni Trenta del Novecento, con l’avvento dei cosiddetti “colletti bianchi”, gli impiegati che potevano vestirsi con camicie chiare perché, lavorando da seduti, non rischiavano di sporcarsi come manovali e operai, non a caso chiamati “tute blu”. Il più famoso esempio di questa geografia lavorativa è la workroom di 40 metri per 60 del Johnson Wax Administration Building, il grattacielo progettato negli anni ’30 in Wisconsin dall’architetto Frank Lloyd Wright, come sede centrale della Johnson Wax, grande industria di prodotti chimici per la pulizia.

Il Johnson Wax Administration Building di Frank Lloyd Wright a Racine, Wisconsin (via Wikimedia)

La formula degli ampi spazi nel tempo si evolve, e negli anni ’60 subentra il modello office landscape dove i lavoratori non sono più predisposti in file ma in gruppi per incoraggiare l’interazione e la collaborazione tra colleghi e con i manager. Per questo veniva considerato un modello progressista.

Negli anni ’80 c’è un forte cambiamento di rotta verso gli uffici a stanze separate: nascono i famosi cubicoli con dentro una scrivania, un telefono fisso e un computer.

A proposito di potere, i capi, in tutto questo, dove se ne stavano?

Per lungo tempo hanno lavorato all’interno dei grandi spazi comuni (di solito al primo piano del palazzo) insieme a colletti bianchi, dattilografe, stenografe – per vedere e controllare. A un certo punto però hanno voluto la privacy e sono saliti all’ultimo piano. Ma la vera stanza del potere, per definizione, non è stata quella ai piani alti.

Qualche mese fa, un articolo dell’Atlantic raccontava:

«Entrando in un palazzo di uffici nella seconda metà del ventesimo secolo, si riusciva a capire con un solo sguardo chi aveva il potere: la persona nel corner office, la stanza angolare. Grande, con due pareti in vetro, ampia vista sulla città e privacy senza precedenti, emblema del successo».

Oggi quell’emblema sta morendo.

«Il numero di uffici ​​lungo il lato di un edificio, inclusi quelli all’angolo, si è ridotto di circa la metà dal 2021, le scrivanie e le stanze assegnate occupano solo il 45 per cento dell’ufficio medio, rispetto al 56 per cento del 2021».

Insomma, quando arrivo mi siedo dove c’è posto. All’apparenza il nuovo ufficio post pandemico e post smart working è fluido ed egalitario con spazi identici e indifferenziati, dove niente appartiene a nessuno ma tutto a tutti.

A leggere i dati non è facile farsi un quadro chiaro di quello che sta accadendo. Il sospetto è che dalla pandemia siano cambiate molte cose, soprattutto lo storytelling con cui sono raccontate. In Italia dal 2004 l’andamento delle compravendite di uffici è stato in costante discesa fino al 2015 quando è tornato a crescere, soprattutto a Milano, Torino, Roma e Genova. Gli ultimi dati disponibili per il terzo trimestre del 2024 indicano una crescita del 2,9 per cento ma concentrata nelle province, non nei grandi capoluoghi, mentre nel 2023 c’è stato un calo generale dell’1 per cento e una contrazione importante per Milano e Genova.

Se in Italia il mercato sembra in equilibrio, negli Stati Uniti si parla di «apocalisse degli uffici». Nel luglio 2023 il New York Times scriveva: «A più di tre anni dall’inizio della pandemia da coronavirus, nell’area metropolitana di New York era occupata solo circa la metà degli spazi per uffici». Nel marzo 2024 BBC ha scritto che il Flatiron Building, il famoso edificio triangolare che incrocia Broadway con la Fifth Avenue e la 23esima Street, uno dei maggiori quartieri commerciali della città, era vuoto dal 2019. E i mobili? Due anni fa mi fece una certa impressione il servizio fotografico pubblicato dal New York Times di decine di sedie che, a causa della chiusura di qualche ufficio, venivano schiacciate tra le ganasce di un escavatore per andare in discarica: erano sedie Aeron da 1.000 dollari l’una prodotte da Herman Miller, «elemento fisso dei cubicoli di New York City», da anni nella collezione permanente del MoMA.

È facile ipotizzare che la crisi degli uffici negli Usa e le difficoltà del mercato in Italia siano dipese dall’aumento dello smart working: invece, dati alla mano, il lavoro a distanza non si è imposto come modello dominante. All’inizio del lockdown è piaciuto tantissimo ai lavoratori e un po’ anche alle aziende, perché la produttività prometteva di aumentare, soprattutto nei settori finanza e assicurazioni, mentre i costi aziendali si sarebbero molto ridotti (fino al 65,8% per le piccole imprese, secondo un rapporto Inapp del 2022), soprattutto nel periodo della crisi energetica e delle bollette altissime. Oggi, però, lo smart working si sta assestando in una modalità di 2 giorni su 5 soprattutto nella pubblica amministrazione, e molte aziende sono impegnate in campagne back to office, cercando di convincere che l’ufficio è bello o almeno può diventarlo. Gli ultimi casi: Amazon e Unipol.

E i lavoratori in tutto questo cosa vogliono?

La narrazione corrente parla di lavoratori più consapevoli, meno disposti a rinunciare ai loro diritti, pronti a dare vita a dimissioni di massa in caso le cose in ufficio si mettano storte. Le aziende, di contro, si dichiarano più attente al benessere dei dipendenti. Anche BBC parla di “biofilia”, che consisterebbe in uffici pieni di piante, colori della terra ovunque, animali domestici, infusori di oli essenziali, menù personalizzati, caffè gratis e psicoterapeuta in ufficio.

Sarà questa la volta buona che riuscirò a rimanere in ufficio anche io?

In tempi recenti ho letto di un altro asset di cui non avevo mai sentito parlare. Secondo l’autore di Building a Culture Where Employees Feel Free to Speak Up si starebbe affermando una cultura aziendale dove i dipendenti si sentono responsabili delle loro decisioni e liberi di poter parlare (speak up!) e dire cosa pensano senza timore di subire una sanzione. Non suona male. Ho scoperto anche che ci sono aziende che dichiarano di aver adottato un modello di gestione Unbossed, ovvero senza capo, dove il lavoro è distribuito tra vari team all’interno dei quali ogni lavoratore sa responsabilmente cosa deve fare e non c’è nessun bisogno di mettere gerarchie. Che dire se non Evviva!? Il potere sta finalmente diventando roba vecchia, non serve più, lo stanno eliminando.

Perché allora «quasi l’80 per cento della popolazione mondiale attiva usa la parola stress per qualificare il lavoro»? La fonte dello storico e sociologo francese Georges Vigarello, che cita questo dato nelle prime righe del suo irresistibile saggio Storia della fatica, è l’indagine 2012-2017: ce que veulent les Français pubblicata da Édition Eyrolles, ma questa generale insoddisfazione è confermata da molti studi inglesi e italiani su stress, burnout e crescita dell’uso di psicofarmaci tra i lavoratori. E allora le piante, i nuovi colori delle pareti, i menu vegani, i protocolli Diversity & Inclusion, il caffè gratuito? Mi sa che siamo per natura incontentabili. O forse no.

Nell’articolo dell’Atlantic dove si parlava della fine dei corner office c’era scritto anche che «indipendentemente dalla configurazione degli spazi (…) gli esseri umani troveranno comunque un modo per creare una gerarchia». È l’antica questione delle relazioni tra esseri umani, tra capi e i sottoposti, in una parola del potere, quella che la gestione Unbossed aveva dichiarato di voler eliminare.

È il tema del film L’appartamento, uno dei capolavori di Billy Wilder. Il protagonista, C.C. Baxter (Jack Lemmon), lavora in una grande compagnia di assicurazione a New York in un’epoca in cui l’economia va piuttosto bene. All’inizio Baxter descrive il suo appartamento, definendolo grazioso, ideale per un single, «il problema è che non sempre sono libero di entrarci quando voglio». Baxter, che uno dei capi definisce «un fessacchiotto del nostro ufficio», desidera far carriera e avere un aumento di stipendio, e per ottenerlo è disposto a prestare l’appartamento ai superiori che la sera ci vanno con le amanti.

È una transazione, uno scambio, ma ovviamente è sbilenco: anche se Baxter vive un disagio sempre più forte, ogni volta che fa resistenza i capi iniziano a parlargli della sua imminente promozione, e a quel punto lui mette la chiave sul tavolo. È il gioco di “uno vince, uno perde”, e a C.C. Baxter lo spiega benissimo la sua amica Fran Kubelik (Shirley MacLaine) parlando di Jeff D. Sheldrake (Fred MacMurray), suo amante e direttore del personale: «Lui è uno che prende. Alcune persone prendono, altre vengono prese. E lo sanno che vengono prese, ma non possono farci niente».

Un anno dopo la fine della pandemia, ho lasciato definitivamente ogni «lavoro normale, in ufficio», come diceva mio papà. Ho chiuso il codice attività della mia partita Iva legato alla comunicazione e mantenuto solo quello relativo ad attività legate al giornalismo e all’editoria. Perché per me non è mai esistito «un problema di comunicazione», per me «il problema è la comunicazione», è lo storytelling che non è uno strumento, ma una logica in base alla quale le aziende hanno iniziato a raccontare storie per risolvere problemi concreti. Non azioni, non comportamenti, storytelling, che può ridefinire in positivo qualunque realtà. Un paio di anni fa l’ad di un’importante multinazionale della cosmetica, intervistato da un grande quotidiano italiano, parlando di donne di colore ha affermato: «Ho visto donne piangere perché, trovando il fondotinta ideale per la loro pelle, si sono sentite riconosciute e incluse». Da questo inganno esploso con la trasformazione dei social a canali di comunicazione aziendale – un inganno di cui anche io mi sono trovata a capo – ho voluto il divorzio definitivo.

Per fortuna, l’inganno si può sempre smontare con l’ironia. Da un po’ di tempo, alcuni account social stanno facendo contro-storytelling aziendale, riscuotendo molto seguito sia dai lavoratori sia dai manager, come il progetto Ugolize (130mila follower su Linkedin) o il profilo di Luca Altimani (più di 100mila follower sempre su Linkedin), entrambi focalizzati sull’esaltare con intelligenza e raffinatezza l’aspetto ridicolo del lessico aziendale; l’ex manager di Yahoo e Google, Sarah Cooper, nel suo libro 100 Tricks to Appear Smart in Meetings invece mette in scena “la commedia” della riunione aziendale, mentre negli anni Sessanta ci pensarono Billy Wilder con il film L’appartamento o l’Executive Coloring Book del 1961, il prototipo degli Office Activity Books, i libri da colorare per adulti nati per mettere in ridicolo il lessico, l’estetica e le dinamiche dell’ufficio grazie a didascalie del tipo: «Questo è il mio vestito. Coloralo di grigio o perderò il lavoro».

– Leggi anche: Pinocchio e il rifiuto del lavoro

Valeria Cecilia
Valeria Cecilia

Giornalista, editor free lance di narrativa e saggistica, nel 2021 ha creato il progetto chiticredidiessere.com dedicato ad aspiranti autori. Curatrice di rassegne per festival e circoli letterari ha ideato il format Scrittrici difficili e Mia madre ride, il rapporto tra l’artista e la madre. Collabora con Il Foglio, dove scrive di libri, tecnologia, lavoro. In passato si è occupata di Comunicazione e Relazioni pubbliche per agenzie e imprese.

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