• Mondo
  • Lunedì 6 gennaio 2025

Justin Trudeau si è dimesso da primo ministro del Canada

Resterà in carica fino a marzo, per dare il tempo ai Liberali di trovare un nuovo leader: poi ci saranno nuove elezioni

Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, a Ottawa il 6 gennaio
Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, a Ottawa il 6 gennaio (Adrian Wyld/The Canadian Press via AP)
Caricamento player

Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha annunciato lunedì le sue dimissioni da leader del partito Liberale e da primo ministro, mettendo fine a una crisi politica che dura da alcuni mesi. Resterà in carica fino a fine marzo, dando tempo al partito Liberale di trovare un nuovo leader: poi si terranno nuove elezioni, per eleggere un nuovo primo ministro. In Canada viene nominato primo ministro il leader del partito che ottiene il maggior numero di seggi in parlamento.

Trudeau, alla guida di un governo di centrosinistra, era da tempo assai impopolare: aveva perso l’appoggio di forze politiche che prima lo sostenevano e anche alcuni membri del suo stesso partito ne avevano chiesto le dimissioni. Senza le dimissioni di Trudeau si sarebbe andati a elezioni nell’ottobre del 2025.

La crisi si era aggravata a metà dicembre, quando Chrystia Freeland, la ministra delle Finanze, aveva annunciato le sue dimissioni, poco prima della presentazione dei risultati economici dell’ultimo periodo, che hanno evidenziato un deficit di bilancio molto più alto del previsto: quasi 62 miliardi di dollari canadesi (circa 41 miliardi di euro). Una settimana dopo Trudeau aveva annunciato il cambio di otto dei 35 ministri del suo governo, ma senza placare le critiche dell’opposizione, né quelle interne al partito.

Nel discorso con cui ha annunciato le sue dimissioni Trudeau ha detto che il parlamento canadese è «paralizzato da mesi» ed è quindi necessario procedere a nuove elezioni per eleggerne uno nuovo. Ha anche detto che le «divisioni interne» al suo partito gli hanno fatto capire che non avrebbe potuto essere il leader dei Liberali nelle prossime elezioni.

Trudeau dopo la fine della conferenza stampa (Sean Kilpatrick/The Canadian Press via AP)

Nelle prossime settimane emergeranno le candidature a succedere a Trudeau alla guida dei Liberali. Fra i possibili candidati la stampa canadese indica proprio l’ex ministra delle Finanze Freeland, ma anche la ministra degli Esteri Mélanie Joly, il governatore della banca centrale Mark Carney e l’ex governatrice della British Columbia (una delle province canadesi) Christy Clark.

Justin Trudeau ha 53 anni ed era leader dei Liberali e primo ministro del Canada da nove anni. Fu eletto per la prima volta nel 2015 e da allora il suo partito ha vinto le elezioni due volte di seguito. Dal 2019 però non ha la maggioranza in parlamento e nonostante una buona ripresa del paese dopo la pandemia da Covid-19 i consensi nei suoi confronti hanno continuato a diminuire.

I Liberali sono in grave difficoltà anche nei sondaggi: hanno il 22 per cento dei consensi, più o meno la metà del 43 per cento dei Conservatori di Pierre Poilievre. Il Nuovo Partito Democratico (NDP, di sinistra) è il terzo partito con il 19,5 per cento: sosteneva il governo fino allo scorso settembre. Peraltro in Canada vige un sistema elettorale uninominale, simile a quello del Regno Unito. Il paese è diviso in 338 collegi ognuno dei quali elegge il candidato o la candidata che prende più voti. Per questo il calo nei consensi dei Liberali può risultare particolarmente grave in termini di seggi.

Il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, ha commentato la notizia delle dimissioni di Trudeau sul suo social Truth. Nel suo post Trump sostiene che «molte persone» canadesi desidererebbero che il loro paese si unisse agli Stati Uniti come 51esimo stato, e che con questa «fusione» non ci sarebbero dazi doganali e le tasse sarebbero più basse. Queste dichiarazioni sono più che altro una provocazione: somigliano ad altre analoghe fatte sul canale di Panama e sulla Groenlandia. Nel caso del Canada, che confina con gli Stati Uniti (come il Messico), parlare di dazi può servire a fare pressioni sul prossimo governo perché accetti le condizioni dell’amministrazione di Trump, sugli accordi commerciali ma non solo.