Pino Daniele reinventò la musica di Napoli

Morì dieci anni fa dopo aver trovato un incastro unico tra canzone popolare, blues e jazz, sempre con la sua chitarra in mano

Pino Daniele in concerto 
(ANSA/ROBERTO PANUCCI)
Pino Daniele in concerto (ANSA/ROBERTO PANUCCI)
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Nel 1976 il giornalista Claudio Poggi incontrò Pino Daniele, un talentuoso chitarrista napoletano, in un bar di Via Toledo, nel centro di Napoli. Poggi lo seguiva fin dagli inizi della sua carriera: qualche anno prima aveva scritto per Nuovo Sound, la rivista con cui collaborava, un lungo articolo dedicato ai Batracomiomachia, la band blues con cui si era fatto conoscere nei locali del centro storico.

«Scrivo anche per conto mio, pezzi in napoletano. Se vuoi te li faccio sentire», disse Daniele. Poggi accettò, e lui gli consegnò una cassetta che aveva registrato insieme al percussionista Rosario Jermano. Conteneva quattro canzoni: “Che calore”, “Furtunato”, “Libertà” e “’O padrone”. Poggi fece arrivare la cassetta sulla scrivania di Bruno Tibaldi, produttore discografico della EMI, che rimase folgorato dall’ascolto e propose un contratto a entrambi: il risultato fu Terra Mia, il primo album di Pino Daniele, che uscì nel 1977.

La produzione fu curata da Poggi, e nonostante la singolarità della proposta ottenne fin da subito degli ottimi riscontri di pubblico e critica. All’inizio la EMI temeva infatti che l’utilizzo del dialetto napoletano potesse rappresentare un ostacolo linguistico, ma in realtà questa caratteristica contribuì a rendere familiare lo stile di Daniele in tutta Italia: “Napule è” e “’Na tazzulella ’e cafè”, i primi due singoli estratti dal disco, ebbero un successo enorme, e il blues che veniva suonato a Napoli e dintorni diventò prima un genere musicale a sé stante, e poi un fenomeno culturale di interesse nazionale. Da quel momento e fino alla sua morte, avvenuta il 4 gennaio di dieci anni fa, Daniele non avrebbe mai smesso di comporre musica, suonare dal vivo e influenzare nuove generazioni di musicisti, napoletani e non solo.

Fu il primo a sdoganare per davvero l’utilizzo del dialetto napoletano nella canzone italiana, oggi molto presente soprattutto nel rap, diventando il più importante interprete del cosiddetto “Neapolitan Power”, una definizione coniata dalla critica musicale del tempo per descrivere il momento di grande fervore creativo che Napoli visse tra gli anni Sessanta e Settanta, quando alcuni musicisti locali ebbero l’intuizione di ibridare la musica popolare napoletana con i generi che andavano per la maggiore oltreoceano, come il jazz e il blues.

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Daniele rese quella musica così contaminata e particolare, che lui stesso definì “tarumbò” (a simboleggiare l’unione tra la tarantella campana e il blues), la forma d’arte napoletana per eccellenza, mascherando composizioni sofisticatissime dietro a melodie orecchiabili e cantabili, diventate nel tempo tra le più familiari della musica italiana contemporanea. La sua attività musicale ricevette estesi apprezzamenti anche all’estero, come dimostrano le sue molte collaborazioni con musicisti jazz e blues di fama mondiale come Eric Clapton, Chick Corea, Bob Berg, Joe Bonamassa, Gato Barbieri e Pat Metheny.

Daniele si distinse anche per il suo eclettismo nella scrittura: era capace di alternare ballate struggenti e malinconiche (“Napule è”), canzoni autoironiche e danzerecce (“A me me piace ’o blues”, “I say i’ sto ccà”) e inni di denuncia sociale (“Je so’ pazzo”), creando spesso paradossi e metafore originali. Il repertorio di Daniele oggi è considerato una sorta di canone della musica napoletana della seconda metà del Novecento: negli anni è stato ripreso, citato e rielaborato da musicisti provenienti anche da generi lontanissimi tra loro, e le sue canzoni sono così radicate nell’immaginario locale da essere recitate a memoria, un po’ come fossero litanie.

Daniele nacque a Napoli il 19 marzo 1955, nel quartiere popolare di Porto. La sua infanzia fu scandita da grandi ristrettezze economiche: figlio di un portuale e di una casalinga che lavorava discontinuamente come donna delle pulizie, viveva con i genitori e altri cinque fratelli in un minuscolo vascio, le tradizionali abitazioni napoletane poste al pian terreno e composte da una o due stanze.

Daniele abitò in quella casa per poco: a quattro anni si trasferì nell’appartamento di Bianca e Lia Lamberti, due sorelle per cui sua madre faceva le pulizie, e con cui stabilì un legame fortissimo, fino a considerarle delle zie acquisite. In quel condominio viveva anche Salvatore Battaglia, un musicista autodidatta che lo fece appassionare ai dischi di Elvis Presley e Django Reinhardt, e che gli insegnò le diteggiature dei primi accordi alla chitarra. Cominciò a suonare in maniera più continuativa a 12 anni, quando potè permettersi la sua prima chitarra: una Eko molto economica, modello X27, e di colore nero. Daniele imparò a padroneggiare lo strumento da autodidatta, acquisendo un’impostazione molto personale e un tocco formidabile e molto riconoscibile.

Quando frequentava la ragioneria all’istituto Armando Diaz era già un nome conosciuto nei quartieri del centro: partecipava a moltissime jam session (ritrovi di musicisti che suonano insieme senza uno schema concordato, basandosi solo sull’improvvisazione), insieme a futuri colleghi come i fratelli Edoardo ed Eugenio Bennato, Corrado Rustici, Bob Fix e James Senese, un eclettico sassofonista che di lì a qualche anno sarebbe diventato un suo frequentissimo collaboratore. A quelle jam session partecipavano anche il pianista Paolo Raffone, il violinista Gianni Battelli, il contrabbassista Rino Zurzolo, il sassofonista contralto Enzo Avitabile, il batterista Rosario Jermano e il cantante Enzo Ciervo.

L’intesa tra loro diventò così forte che presto smisero di suonare per strada e cominciarono a provare regolarmente nel rione Sanità, in un piccolo appartamento di proprietà di Ciervo: fondarono un gruppo, lo chiamarono come un celebre poemetto greco che raccontava di una battaglia tra rane e topi – Batracomiomachia – e insieme fecero ballare e divertire la gente che passava per i luoghi in cui veniva suonato il blues in quegli anni, come Spaccanapoli e San Domenico Maggiore. Parallelamente, Daniele iniziò a scrivere canzoni per suo conto e a incidere parti di chitarra nei dischi di cantanti come Bobby Solo, Gianni Nazzaro e Jenny Sorrenti, sorella del più famoso Alan.

Il suo primo momento di popolarità fu però nel 1977, dopo l’incontro con Poggi e la pubblicazione di Terra Mia. Avitabile, che suonò i fiati in quel disco, ha raccontato che lui, Daniele e gli altri musicisti coinvolti nel progetto non erano per nulla pronti alla celebrità. Quando si presentarono a Firenze per incontrare la EMI e suonare una parte del repertorio al Salone dei Congressi, arrivarono «vestiti malissimo e senza un minimo di cura dell’immagine».

In quel periodo per l’etichetta incideva anche Alan Sorrenti, che «si presentò alla convention in tutto il suo splendore, bellissimo, con una camicia lucida rossa ed un sole dorato sulla schiena», ha ricordato Avitabile. Al suo cospetto, ha aggiunto, lui, Daniele e  gli altri sembravano «dei parcheggiatori disorganizzati», al punto che «i discografici incaricarono un dipendente di farci comprare delle camicie di velluto a coste di colore diverso ma di misura unica».

Il secondo album, Pino Daniele, il primo con James Senese al sassofono, uscì nel 1979. Ebbe meno successo del disco d’esordio, ma conteneva una delle canzoni più celebri di Daniele: “Je so’ pazzo”, in cui Daniele attualizzava l’ultimo discorso pronunciato da Masaniello, il pescatore che nel 1647 fu protagonista delle insurrezioni napoletane contro le autorità spagnole.

Con il terzo disco, Nero a metà, Daniele diventò uno dei musicisti italiani più popolari e amati del tempo. Apparentemente era un album semplice: le 12 canzoni che lo componevano erano orecchiabili e coinvolgenti, contenevano ritornelli efficaci ed erano facili da ricordare a memoria anche per chi aveva poca familiarità con il dialetto napoletano; in realtà erano però strutturate su progressioni di accordi complesse e difficili da replicare e su accenti ritmici sincopati, ossia sfasati e imprevedibili. Anziché usarle per un manierismo fine a sé stesso, però, Daniele mise queste intricate strutture al servizio della melodia e delle possibilità espressive dei musicisti di enorme talento che parteciparono al disco, come il bassista Gigi De Rienzo, il batterista Ernesto Vitolo e Senese, solo per citarne alcuni.

Nero a metà è considerato tuttora il miglior disco di Daniele, e più in generale uno dei migliori album italiani della seconda metà del Novecento. Contiene alcune delle sue canzoni più frenetiche ed esaltanti, come “A me me piace ’o blues” e “I say i’ sto ccà”, ma anche “Quanno chiove”, una delle sue ballate più famose, che negli anni successivi sarebbe stata reinterpretata da diversi cantanti, come Mina, Giorgia ed Eros Ramazzotti.

Daniele mantenne questo approccio anche nei due dischi successivi (Vai mo’ e Bella ’mbriana) prima di stravolgerlo in Musicante (1984), influenzato dall’afrobeat di Fela Kuti e da un suo personale interesse per i ritmi arabeggianti, e che segnò uno slittamento verso la world music. Fino al 2012 pubblicò altri 15 dischi, allontanandosi progressivamente dal blues in favore di una proposta sempre più pop, per quanto personale e ricercata. Questa svolta fu evidente in particolare dopo la pubblicazione di Mascalzone Latino (1989), scritto e composto insieme al pianista Bruno Illiano, e caratterizzato da una mescolanza di suoni elettronici e acustici.

Già a partire dagli anni Ottanta stabilì una rete di contatti con musicisti di fama internazionale impensabile per altri colleghi del tempo: iniziò nel 1982, collaborando con Alphonso Johnson e Wayne Shorter, rispettivamente bassista e sassofonista dei Weather Report, un supergruppo fusion che tra gli anni Settanta e Ottanta diventò famoso in tutto il mondo grazie al contributo di Jaco Pastorius, uno che sta al basso come Jimi Hendrix sta alla chitarra.

Due anni dopo partecipò alle registrazioni di un disco del sassofonista argentino Gato Barbieri e aprì i concerti italiani di Carlos Santana e Bob Dylan. Negli anni successivi condivise il palco con alcuni grandi interpreti del rock e del jazz dello scorso secolo, tra cui Eric Clapton, Pat Metheny, Pete Haycock, Steve Hunter, Robby Krieger, Joe Bonamassa, Andy Powell e Ted Turner.

Daniele compose anche le colonne sonore di alcuni film, tra cui i tre più famosi di Massimo Troisi (Ricomincio da tre, Le vie del Signore sono finite e Pensavo fosse amore… invece era un calesse) e La mazzetta di Sergio Corbucci.

Morì il 4 gennaio del 2015, dopo un infarto mentre si trovava nella sua casa di campagna a Magliano, in provincia di Grosseto. Fu trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Eugenio di Roma, ma la rianimazione cardiorespiratoria non poté salvarlo. Oggi è considerato un personaggio fondamentale dell’iconografia di Napoli, con un’importanza pari a quella di gente come Totò e Diego Armando Maradona: passeggiando in città non è raro imbattersi in uno dei murali a lui dedicati, come quello che si trova alla fine di via dei Tribunali, in cui è raffigurato come una specie di santo; percorrendo San Gregorio Armeno, la via dei presepi, è impossibile non notare le centinaia di statuette a lui dedicate.

Il murale dedicato a Pino Daniele in via dei Tribunali

Anche quando la sua carriera era all’apice, Daniele seguì con grande interesse l’evoluzione della musica napoletana, avvicinandosi a proposte a volte lontanissime dalla sua. Era noto per esempio il suo rapporto di amicizia con il gruppo reggae dei 99 Posse, con cui suonò dal vivo in varie occasioni, e pochi mesi prima di morire aveva registrato una canzone con il rapper Clementino. Negli ultimi dieci anni Daniele è stato raccontato da diversi musicisti napoletani, provenienti soprattutto dalla scena hip hop locale, che hanno campionato le sue canzoni o citato i suoi versi più famosi.

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