Storia della mia scabbia
«Era da diverso tempo che lamentavo pruriti, ma sono un soggetto allergico, quindi non ci davo molto peso. Durante l’estate prima della diagnosi, diversi amici mi avevano goliardicamente detto che avrei potuto averla. Dove mai avrei potuto prenderla? Ero stato ad alcuni festival quell’estate, avevo dormito in tenda, ma sempre nel mio sacco a pelo e sul mio materassino, sono una persona pulita io, e per quanto ne sapevo nessuna delle persone intorno a me l’aveva avuta. Eppure a settembre ho mandato un messaggio alla mia medica. Che potevo fare? Durante la visita mi ha chiesto se frequentassi centri sociali, se ci avessi dormito. Dopo avermi visitato, senza guanti, mi ha detto che non avevo nulla: se l'avessi davvero avuta da mesi, avrei avuto molte più lesioni cutanee. Alla fine abbiamo riso della mia paranoia»
Lo scorso novembre mi è stata diagnosticata la scabbia, dal latino scabĕre = grattare; che è in effetti un fedele riassunto descrittivo di quello che comporta. La scabbia è un’infestazione parassitaria causata dall’acaro Sarcoptes scabiei var. homini, che si usa per riferirsi a tutti quegli esseri viventi che hanno bisogno di un vettore – un altro essere vivente – per vivere. È detta anche rogna, parola già molto evocativa del suo portato storico e sociale, ma ormai in medicina questo termine si usa più che altro per riferirsi ai parassiti negli animali. Troverei tuttavia riduttivo affermare che avere la scabbia è una grande rogna, perché è molto di più. La chiamerei più incubo. Prima che mi fosse diagnosticata, non avevo mai realizzato così chiaramente quanto il prurito possa essere psicologicamente invalidante.
Era da diverso tempo che lamentavo pruriti, ma sono un soggetto allergico, quindi non ci davo molto peso. Durante l’estate precedente al novembre della diagnosi, diversi amici che fanno gli educatori in comunità di recupero mi dicevano goliardicamente che avrei potuto avere la scabbia. Il loro tono non era mai davvero serio, sembrava una presa in giro, corredata però da racconti da incubo sulle disinfestazioni dei luoghi dove lavoravano e dove si era verificato qualche caso.
Dove mai avrei potuto prendere la scabbia? Ero stato ad alcuni festival quell’estate, avevo dormito in tenda, ma sempre nel mio sacco a pelo e sul mio materassino, sono una persona pulita io, e per quanto ne sapevo nessuna delle persone intorno a me l’aveva avuta. Eppure a settembre ho mandato un messaggio alla mia medica dicendole che temevo di avere la scabbia. Che potevo fare? Durante la visita mi ha chiesto se frequentassi centri sociali, se ci avessi dormito. Dopo avermi visitato, senza guanti, mi ha detto che non avevo nulla, che in effetti non credeva l’avessi, altrimenti avrebbe usato i guanti. Comunque – ha anche detto – se avessi davvero avuto la scabbia da mesi, avrei avuto molte più lesioni cutanee. Alla fine abbiamo riso della mia paranoia.
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La dottoressa mi ha comunque prescritto una visita dermatologica. Quando le ho raccontato i miei sintomi, la dermatologa mi ha dato subito una cura, senza neanche visitarmi: «C’è un’epidemia – ha sentenziato – fai la cura e vedi come va, torna qui la prossima settimana». Nessuna indicazione, invece, su come farla, né su quali azioni compiere per debellarla totalmente, nessun riferimento a lenzuola o vestiti. La sensazione che si fosse trattato di una visita approssimativa, tipica dei medici stremati da un Servizio Sanitario Nazionale sovraccarico, è stato un fertilizzante per le mie credenze. Perché mai avrei dovuto spendere per un farmaco non mutuabile e molto caro, che irrita la pelle, senza avere nessuna indicazione su come comportarmi, e perdipiù tornare lì dopo una settimana perdendo un’altra mattinata? Quella medica non mi dava nessuna fiducia. Non feci nulla di quello che mi aveva detto e non tornai.
Nel frattempo, per alleviare il prurito, avevo iniziato a prendere antistaminici e prenotato analisi per le allergie. Gli antistaminici inibiscono l’istamina, che viene prodotta in grandi quantità dal nostro sistema immunitario come risposta a una minaccia. Insomma, ho praticamente lasciato agire gli acari indisturbati, o meglio, indisturbato io dal loro agire. Ma questo lo posso dire solo ora – con il senno del poi è tutto più semplice – allora ne ridevo con le persone a me vicine che mi prendevano in giro, e io stavo al gioco, riconoscendo che mi ero preoccupato per una cosa assurda. La scabbia? Io? Figurati, sarò solo un po’ ipocondriaco.
L’acaro della scabbia si insinua sottopelle, nello strato corneo, il primo strato dell’epidermide. Scava per creare la tana, cunicoli a volte visibili a occhio nudo, dove rilascia le uova, due-tre uova al giorno, e ha un ciclo di vita di uno-due mesi. I maschi sono più piccoli e muoiono dopo aver copulato (ammetto che questa prospettiva di equilibrio mi fa sorridere, come se in altre specie qualcuno stesse cercando di pareggiare i conti del patriarcato umano). Le uova in circa una-due settimane diventano acari adulti che riproducono lo stesso ciclo. L’acaro si muove con grande velocità nella pelle, percorre circa 2,5 cm al minuto. Chissà qual è la misura in metri quadrati della superficie del mio corpo. Chissà quanti chilometri hanno fatto in tutti quei mesi.
Nella maggior parte dei casi l’infezione diventa visibile dopo circa quattro-sei settimane dal contagio, il che rende complesso tracciare la sua sorgente e capire se siamo stati vettori a nostra volta. Alla persona che avevo appena conosciuto e con la quale ero uscito un paio di volte, per contagiarsi sono bastati pochi giorni. Mortificato e in profondo imbarazzo alla notizia del suo emergente prurito, ormai arrivato a una dose quotidiana decisamente troppo elevata di antistaminico, costretto a spalmarmi ogni genere di crema lenitiva e a farmi docce fredde ogni ora… decido di andare da una dermatologa, questa volta privatamente. La quale mi dice che ero infestato di acari della scabbia.
Il contagio dovrebbe essere difficile in forma indiretta, tendenzialmente è dovuto a un contatto di pelle prolungato e sfregamento, tipico del rapporto sessuale. Ma le possibilità di contagio ovviamente aumentano all’aumentare degli acari. Ne ho lasciati un po’ anche a Genova, quando sono andato a trovare mia madre, e gli acari sono arrivati fino al suo compagno; ne ho lasciati anche a una cara amica, che venne sciaguratamente a trovarmi proprio in quei giorni. Pur di non crederci, perché l’idea di avere gli acari addosso mi faceva ribrezzo, ho permesso loro di albergare nella mia pelle per un tempo decisamente più lungo di quello che serviva per diagnosticarla. Li ho portati ai festival, in vacanza, al lavoro, sono usciti con me la sera e sono arrivati anche alle persone a me vicine.
Eppure i loro (o i miei?) cunicoli erano decisamente evidenti. Lo capivo ogni volta che nei momenti di panico – o consapevolezza – cominciavo compulsivamente a cercare in internet informazioni e a paragonare la mia pelle con quella delle foto. In altri momenti, quelli di negazionismo, tendevo verso immagini di casi gravi. Non sono messo così male – mi ripetevo – non può essere scabbia. Spesso le papule, le lesioni cutanee tipiche della scabbia, sono visibili fin da subito, leggevo, ma potrebbero essere sintomi anche di molte altre malattie, dall’ebola a una semplice reazione allergica. Nel mio caso doveva certamente essere la seconda. Gli effetti della scabbia sono molto soggettivi ma in generale provoca pruriti inizialmente tra le dita, intorno ai genitali, sotto le ascelle, nel basso ventre, sui polsi, sulle caviglie. E si fanno più intensi la sera. Ma anche questi sintomi potevano essere di qualsiasi altra cosa. Ero paradossalmente diventato un esperto di un’infezione che ero convinto di non avere. Più mi faceva schifo l’idea, più lottavo con la possibilità che fosse capitato proprio a me. Più leggevo, più mi faceva schifo. Quello che avevo poteva essere qualsiasi altra cosa, doveva essere qualsiasi altra cosa: per me, per la mia medica, per i miei amici, era meglio che fosse qualsiasi altra cosa.
Era più facile autodiagnosticarsi e lasciarmi diagnosticare, senza nessuna competenza, una grave forma di ipocondria, che credere che degli animaletti passeggiassero sotto la mia pelle. Ho preso e messo insieme in una fatale combinazione la poca fiducia nel Servizio Sanitario Nazionale, un libero attingimento dal web e una serie di convinzioni facilmente indirizzabili dove mi tornava più comodo. Sono tutti ingredienti sociali che esistono e di cui dovremmo essere consapevoli. Ci sarà sicuramente una qualche teoria in psicologia che spiega il mio meccanismo mentale, ma gli esami di psicologia che ho dato all’università nulla hanno potuto contro la totale assenza di pensiero critico sul mio stesso agire.
La cosa strana è che tra coloro che hanno subito meno il pregiudizio ci sia stata la nonna materna di quella che ora è la mia compagna – nonostante gli acari alla seconda uscita. Ci ha raccontato che in Basilicata usava avvolgersi in panni con frammenti di vetro e zolfo, per permettere allo zolfo di penetrare nella pelle lacerata dai frammenti di vetro e uccidere gli acari. Sul quotidiano La Nuova Sardegna, lo storico Manlio Brigaglia racconta, invece, che durante la Seconda guerra mondiale la scabbia si curava attraverso la pratica della sfumenta, un bagno in acqua bollente con zolfo, con il grande rischio di intossicazioni da fumi. Già allora era diffusa la falsa convinzione che l’unica causa della scabbia fosse la scarsa igiene. E infatti la madre di Brigaglia, «sacerdotessa di ferro della trinità Spazzola-Sapone-Varechina», si era offesa a morte alla notizia che membri della sua famiglia l’avessero. Ancora nel 2023 Sky scriveva: «È favorita da scarsa igiene e vita in comunità». Anche se c’è un fondo di verità, il pregiudizio della sporcizia come unica causa resiste perché associa la malattia a determinate classi sociali, ed esclude le altre. Se fosse così, io non avrei potuto assolutamente averla, perché mi faccio come minimo una doccia al giorno in modo piuttosto rituale – pur frequentando i centri sociali. Insomma aver rifiutato l’ipotesi così a lungo mi ha fatto sentire un po’ come la mamma di Manlio Brigaglia e non mi piaceva per niente, e di sicuro neanche le mie amicizie volevano essere la mamma di Manlio Brigaglia.
Anche l’idea di progresso ci ha forse tratto in inganno? Le prime testimonianze della presenza dell’acaro negli animali si trovano nella Bibbia e risalgono circa al 1200 a.C. Di scabbia ha parlato Aristotele, e poi Dante Alighieri nel Canto XXIX dell’Inferno della Divina Commedia:
come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;
e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.
Per qualcuno c’è un riferimento anche in Romeo e Giulietta di Shakespeare. Risulta facile pensare che in tempi non moderni ci fosse più probabilità di prendere malattie, del resto. Invece oggi abbiamo inventato i saponi, ma non siamo ancora riusciti a eliminare gli acari, che sono dappertutto ed è proprio quando entrano dentro di noi che ci percepiamo sporchi.
La cura che mi è stata prescritta consisteva nell’applicare un unguento a base di permetrina e prendere un antiparassitario per bocca, entrambi decisamente costosi. Doppia dose perché ero in uno stato avanzato. L’unguento è da applicare per tre volte su tutto il corpo e deve essere lasciato agire per ventiquattro ore, senza lavarsi. Non ha un buon odore, quindi è decisamente poco piacevole averlo addosso, fastidio che si aggiunge ai tre giorni in cui è consigliabile non lavarsi. L’antiparassitario per bocca, invece, va preso tutto insieme, una pastiglia ogni 15 kg di peso corporeo. Assomiglia un po’ alle grandi pastiglie a forma di parallelepipedo al gusto di carne che do a Giovanni, il mio cane, ogni mese, per evitare zecche e pulci. Chi avrebbe mai pensato che un giorno avrei preso anche io un antiparassitario.
Per avere la certezza di guarire si deve aspettare un mese, dando il tempo alle eventuali uova sopravvissute di diventare acari adulti. Per evitare la ritrasmissione tramite tessuti si raccomanda di lavare le lenzuola ad almeno 60 gradi e fare sacchi con i vestiti utilizzati nella settimana precedente, in modo da avere la sicurezza che i parassiti muoiano. Quali vestiti avevo utilizzato entro quanti giorni, quali avevano toccato quali? Gli acari saltano? Me li immaginavo cospirare contro di me dentro il mio armadio. Nel dubbio, ho lavato e insacchettato tutto. Ma quali giacche e quali felpe, quali asciugamani? Cosa avrò toccato? Bisognava anche assicurarsi che in tutto questo tempo gli acari non fossero penetrati nel materasso. Nella follia post-rivelazione, quasi come per espiare le mie colpe attraverso i fumi, ho fatto disinfestare casa. Altre diverse centinaia di euro. Per essere una malattia così ricca di stigma sociale è molto costosa questa scabbia. Lo è paradossalmente diventata di più proprio a causa della negazione dovuta allo stigma.
Il prurito è dovuto alle sostanze che l’acaro rilascia per scavare i cunicoli, e alle sue feci, ricche di proteine. Anche dopo il trattamento, il prurito può persistere a causa dei cadaveri degli acari che rimangono nell’epidermide. Questo pensiero non mi abbandonerà così facilmente: avere degli acari sotto la pelle già mi faceva un certo ribrezzo, prima la mia pelle era stata la loro toilette e dopo un cimitero! In realtà, lo strato corneo dell’epidermide è già composto da cellule morte, che sono utilissime alla protezione del corpo perché gli conferiscono impermeabilità. Cadaveri in mezzo ad altri cadaveri.
Quando ho iniziato a raccontarlo, ho scoperto che molte altre persone vicine avevano avuto la scabbia. In un’intervista dello scorso marzo un dermatologo dell’ospedale Meyer di Firenze, che ha registrato il 30% in più di casi di scabbia negli ultimi due anni, ha detto che l’aumento è dovuto al maggior numero di recidive, ovvero al fatto che gli acari sono diventati più resistenti ai farmaci. Il progresso non è unidirezionale evidentemente. È stato così creato un nuovo unguento nel quale hanno inserito una piccola percentuale di zolfo, che era stato abbandonato dopo la scoperta della permetrina a causa delle irritazioni che provoca.
È quello che scrive un altro articolo intitolato: «È boom di casi di scabbia in Italia, malattia pruriginosa e molto contagiosa: “Colpa dei tanti viaggi all’estero e della resistenza alle cure”». Nonostante il giornalista tenga a precisarlo nelle prime righe – «è una malattia diffusa in tutto il mondo e – importante chiarirlo – senza differenze di etnie o classi sociali» – questa volta la colpa è anche dei viaggi all’estero. In tutto il mondo sì, ma non in Italia. Forse sono io il malpensante, ma mi sembra che con “estero” non s’intenda Occidente. Lo schema del discorso costruito sul covid che veniva dalla Cina o dell’AIDS come “peste degli omosessuali” era molto simile. Ancora una volta si tende ad attribuire ad altri la causa delle malattie che ci fanno paura e non vorremmo avere, strumentalizzando la malattia per confermare i nostri pregiudizi o utilizzando i nostri pregiudizi per allontanare la malattia. In fondo è quello che ho fatto anche io. Come hai fatto a convivere così tanti mesi con la scabbia? Mi hanno chiesto diverse persone.
Vorrei unire ai miei già parecchi tatuaggi un minuscolo acaro di scabbia per ricordare a me stesso l’insegnamento che ho tratto da questa esperienza: è meglio credere di essere ipocondriaco e lasciare all’acaro Sarcoptes scabiei var. homini tutto il tempo di scavare cunicoli sotto la pelle, piuttosto che accettare l’idea di avere una malattia associata alla sporcizia, alla povertà e alla promiscuità. Eppure ogni volta che ci ripenso mi viene prurito (infatti scrivendo questo articolo ho ricominciato a grattarmi). Il trauma forse è il ricordo della lezione? Ma qual è la lezione? Forse, è metterci sempre in discussione.
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