Non abbiamo sempre saputo dove andassero gli uccelli d’inverno
Per secoli sembrò plausibile che andassero in letargo, o potessero nascondersi sott’acqua, o persino viaggiare sulla Luna
Per un lungo periodo della storia delle civiltà occidentali, prima che metodi più rigorosi, mezzi più efficienti e anche osservazioni casuali permettessero di studiare le migrazioni stagionali, dove andassero molte specie di uccelli in inverno fu una questione dibattuta e irrisolta. Poi, all’inizio dell’Ottocento, una serie di scoperte portò gli studiosi a mettere in discussione precedenti teorie. Una cicogna bianca avvistata in un villaggio tedesco aveva conficcata nel corpo una lunga freccia, ma di un tipo che poteva provenire soltanto da un luogo lontano migliaia di chilometri dal villaggio.
Per quanto fosse improbabile che un uccello sopravvivesse a un attacco di quel tipo e ne trasportasse i segni dopo lunghissimi viaggi, successe altre volte. C’è persino una parola tedesca, utilizzata per tutti i casi documentati in Germania (almeno 25): pfeilstorch, unione delle parole pfeil, “freccia”, e storch, “cicogna”. Insieme ad altre osservazioni, gli avvistamenti di pfeilstorch permisero di comprendere la migrazione degli uccelli europei, un fenomeno rimasto a lungo un mistero.
Prima di allora, a parte il fatto che lasciassero i loro nidi e che apparentemente non fossero in nessun nascondiglio, degli uccelli che scomparivano d’inverno si sapeva ben poco. A un certo punto della seconda metà del Seicento, ad alcuni studiosi sembrò plausibile addirittura l’ipotesi che migrassero sulla Luna.
È un’ipotesi alquanto assurda, eppure non è assurdo che gli uccelli siano in grado di percorrere lunghissime distanze. Ogni anno la sterna artica (o codalunga) vola per una distanza complessiva che può superare gli 80mila chilometri attraverso un tortuoso percorso migratorio dal Circolo polare artico fino alle punte del Sudamerica, dell’Africa o dell’Australia, e ritorno. Moltiplicando distanze simili per i suoi circa trent’anni di vita, si ottiene una distanza pari a tre viaggi di andata e ritorno dalla Terra alla Luna.
A sostenere l’ipotesi che gli uccelli – le rondini, nello specifico – vivessero sulla Luna quando non si vedevano più da nessun’altra parte fu il pastore protestante inglese Charles Morton nel suo Compendium Physicae del 1687. Era uno studioso conosciuto e rispettato, e il fatto che propose una soluzione così fantasiosa al mistero delle rondini scomparse va interpretato tenendo a mente quanto fosse acceso all’epoca un dibattito in corso da secoli su cosa rendesse scientifico un ragionamento: se l’osservazione diretta o l’induzione, scrisse nel 2020 su History Today Alexander Lee, ricercatore del centro di studi sul Rinascimento dell’università di Warwick, in Inghilterra.
Il problema delle rondini aveva incuriosito i primi autori Greci, nelle cui opere alcuni passaggi indicano come la presenza o l’assenza di questi animali venisse abitualmente interpretata già all’epoca come un segno dell’alternanza delle stagioni. Lo storico Erodoto aveva notato inoltre che in Egitto nibbi e rondini rimanevano tutto l’anno. Sulla base di queste conoscenze aneddotiche si pensava che gli uccelli che invece spariscono da certi luoghi in inverno migrassero presumibilmente verso parti del mondo più calde.
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Il filosofo Aristotele sparigliò le carte ponendosi la stessa domanda sulle rondini ma provando a trarre verità generali dall’osservazione. Fu un approccio per molti aspetti rivoluzionario, alla base di importanti progressi nella conoscenza di diverse specie. Portò però Aristotele a formulare un’ipotesi bizzarra sulle rondini, peraltro raccontata dalla zoologa inglese Lucy Cooke in una popolare trasmissione radiofonica su BBC.
Nel suo Historia animalium Aristotele scrisse che alcune rondini erano state trovate quasi del tutto prive di piume in spazi cavi. E concluse quindi che a migrare erano solo le rondini che dovevano percorrere distanze relativamente brevi, perché già vicine a luoghi caldi. Tutte le altre, vivendo troppo distanti da quei luoghi, andavano in letargo nascondendosi nelle cavità degli alberi, e uscivano poi in primavera con un piumaggio completamente diverso.
Perlopiù ignorato dai naturalisti latini, il mito del letargo delle rondini riemerse in Europa verso la metà del Duecento, dopo la riscoperta e la traduzione delle opere di Aristotele. Il più importante filosofo e teologo tedesco del Medioevo, Alberto Magno, rafforzò il mito scrivendo nel suo trattato del 1258 Quaestiones super De animalibus che in inverno le rondini non solo andavano in letargo, ma smettevano di respirare mentre erano nascoste. E per tutto il Rinascimento l’ipotesi del letargo delle rondini continuò a essere largamente accettata.
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Emersero anche teorie ancora più bizzarre di quella di Aristotele. Un geografo e arcivescovo cattolico svedese, Olao Magno, avendo visto alcune rondini tuffarsi in pozze d’acqua per bere, scrisse che le rondini svernavano nelle acque fangose di fiumi che non ghiacciavano o di laghi poco profondi. Ipotesi come questa, scrisse nel 1935 l’ornitologo statunitense Frederick Charles Lincoln, erano peraltro avvalorate da racconti di pescatori che sostenevano di catturare a volte rondini ancora vive insieme ai pesci, quando tiravano su le reti.
La teoria di Aristotele cominciò a vacillare all’inizio del Seicento, dopo la pubblicazione del Novum Organum (1620) del filosofo Francesco Bacone. La tendenza a generalizzare sulla base di poche osservazioni casuali fu lentamente sostituita dall’idea che nessuna proposizione potesse essere considerata vera se non basata su fatti verificabili. L’ornitologo inglese Francis Willughby respinse l’ipotesi aristotelica dopo aver viaggiato a lungo per tutta l’Europa, senza trovare alcuna prova del letargo delle rondini. Grazie ai progressi nella navigazione e nella costruzione delle navi, che avevano reso normali le traversate transoceaniche, lui e altri naturalisti raccolsero invece nuove prove che gli uccelli fossero in grado di percorrere lunghissime distanze.
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Non tutti gli studiosi erano tuttavia convinti dell’ipotesi della migrazione. In un contesto in cui sia l’approccio di Willughby che quello aristotelico lasciavano domande senza risposte, Morton fu tra gli studiosi che provarono a darne qualcuna applicando il metodo deduttivo alle scienze naturali. Se le rondini non erano nei loro nidi, né nelle fessure degli alberi, né sul fondo degli stagni, dovevano per forza essere da un’altra parte. E Morton conosceva le scoperte di Galileo Galilei, che 70 anni prima nel suo trattato Sidereus Nuncius aveva descritto per la prima volta montagne e crateri sulla Luna. Stimò quindi la velocità di viaggio ipotetica delle rondini verso il satellite naturale della Terra, e non gli sembrò una possibilità irrealistica.
In base ai suoi calcoli le rondini, non soggette alla resistenza dell’aria e non influenzate dalla forza di gravità, avrebbero viaggiato a una velocità media di 200 chilometri orari per due mesi. Avrebbero quindi esaurito tutto il grasso corporeo acquisito durante i mesi estivi e avrebbero trascorso la maggior parte del tempo dormendo, per poi svegliarsi in prossimità della Luna. Considerate le conoscenze scientifiche del Seicento, secondo Lee, «ogni passaggio dell’argomentazione di Morton era perfettamente logico; e, in assenza di qualsiasi prova contraria, era difficile da confutare».
Soltanto agli inizi dell’Ottocento il mistero degli uccelli migratori fu finalmente risolto, man mano che l’estensione del colonialismo europeo nell’emisfero australe rese possibili nuove osservazioni. Ma alcune furono del tutto casuali, come quella della cicogna trafitta da una freccia mentre svernava in Africa e sopravvissuta fino al suo ritorno in Germania, che confermò l’ipotesi della migrazione.
Era sostanzialmente la sola spiegazione logica per l’osservazione di un manufatto di cacciatori africani nel collo di una cicogna trovata viva nella primavera del 1822 nella città di Klutz, nello stato tedesco del Meclemburgo-Pomerania Anteriore. La freccia era fissata nel corpo del volatile abbastanza saldamente da poter resistere durante un viaggio di oltre 4.800 chilometri, ma aveva trafitto soltanto la pelle della cicogna, permettendole di sopravvivere.
Negli anni Trenta del Novecento l’ornitologo tedesco Ernst Schüz documentò altri casi di uccelli che trasportavano frecce conficcate nel corpo. Tra gli individui trafitti c’erano una cicogna di Abdim trovata nel territorio dell’odierna Tanzania, un biancone in Ungheria e un pecchiaiolo occidentale in Finlandia. Schüz trovò anche individui di cigni e anatre trafitti da frecce Inuit, molto distanti dal presumibile luogo degli attacchi. Scrisse infine che i casi di pfeilstorch erano diventati via via meno frequenti con il progressivo passaggio alle armi da fuoco da parte di molte popolazioni di cacciatori.
Una fondamentale conferma all’ipotesi della migrazione era arrivata alla fine dell’Ottocento anche dall’ornitologo danese Hans Christian Mortensen, che aveva applicato la tecnica dell’inanellamento degli uccelli per poterli identificare in modo univoco e per registrare i loro spostamenti. Questo aveva permesso di spiegare e comprendere ulteriormente le migrazioni degli uccelli, anche se il modo in cui si orientano attraverso il campo magnetico terrestre e trovano la strada verso l’altra parte del mondo è ancora, in effetti, un mezzo mistero.
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