Il discorso di Benito Mussolini che segnò l’inizio della dittatura fascista, cent’anni fa

Quello in cui rivendicò la responsabilità politica dell'omicidio Matteotti e disse che avrebbe usato la forza per stare al potere, come poi fece

Benito Mussolini parla alla folla radunata ai Fori Imperiali, Roma, foto non datata (Archivio Storico LaPresse)
Benito Mussolini parla alla folla radunata ai Fori Imperiali, Roma, foto non datata (Archivio Storico LaPresse)
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Il 3 gennaio del 1925 Benito Mussolini tenne un discorso di fronte alla Camera dei deputati del Regno d’Italia che da molti storici è considerato l’inizio del fascismo come dittatura. Con quel discorso Mussolini si assunse «la responsabilità politica, morale e storica» del clima nel quale l’assassinio di Giacomo Matteotti era avvenuto, l’anno prima, ma non la responsabilità materiale: Matteotti era uno dei leader dell’opposizione in parlamento al governo di Mussolini ed era stato rapito e ucciso dopo aver denunciato brogli e violenze durante le elezioni del 1924, che avevano poi portato al governo di Mussolini.

Mussolini disse come premessa che il suo non sarebbe stato un «discorso parlamentare» e sfidò apertamente il parlamento a portarlo davanti all’Alta corte di giustizia per processarlo, se lo riteneva responsabile dell’omicidio Matteotti. Poi dichiarò che nelle quarantott’ore successive «la situazione» sarebbe stata «chiarita su tutta l’area», intendendo che avrebbe definitivamente preso il potere con la forza. Il giorno dopo le sue parole furono seguite da una circolare ai prefetti con la quale si chiedeva la repressione di ogni dissenso o tumulto e il controllo della stampa.

Le condizioni per la nascita e il successo del fascismo in Italia erano state poste ben prima di quel discorso: dalla Prima guerra mondiale, innanzitutto, con un paese già diviso tra chi pensava che a quella guerra si dovesse partecipare e chi pensava di no. L’Italia era in una grave crisi economica e sociale che aveva colpito in maniera particolare i lavoratori delle fabbriche e delle campagne. Le loro rivendicazioni del 1919 e del 1920, promosse e sostenute anche dal Partito socialista, passarono alla storia come il «biennio rosso», durante il quale una rivoluzione socialista parve imminente, con seria preoccupazione di borghesi, ceti medi antisocialisti e industriali, oltre che del governo liberale di Giovanni Giolitti.

In quel clima di instabilità politica nel marzo del 1919 a Milano, in un palazzo di piazza San Sepolcro, Benito Mussolini – che era inizialmente iscritto al Partito socialista ma ne venne espulso in seguito alla sua campagna per l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale – fondò con un centinaio di persone, quasi tutti militanti “interventisti” (cioè che volevano intervenire in guerra), i fasci di combattimento, assumendo via via posizioni sempre più nazionaliste.

I fasci vennero presentati come i soggetti più attivi ed efficaci nel difendere la borghesia produttiva e i ceti medi che non si riconoscevano nei partiti tradizionali e nello Stato liberale, che erano contrari alle rivolte operaie, agli scioperi dei braccianti agricoli e alle occupazioni delle fabbriche. Tra il 1920 e il 1921, anno in cui fu decisa la trasformazione del movimento in partito, i fascisti si organizzarono militarmente in squadre armate. Cominciarono a organizzare spedizioni violente i cui obiettivi erano gli oppositori politici, le sedi dei sindacati, le cooperative dei lavoratori, le redazioni dei giornali di sinistra, le tipografie.

Lo «squadrismo» arrivò, nel giro di pochissimi mesi, a esercitare in quasi tutto il paese un potere incontrastato agendo come un antistato nello Stato, tollerato da governi deboli e favorito da un alto livello di collusione con la forza pubblica: c’erano forme di collaborazione con prefetti, questori, funzionari di polizia, carabinieri, guardie regie e magistrati; diversi ufficiali dell’esercito parteciparono direttamente alle spedizioni. Nella convinzione che il fascismo fosse un fenomeno passeggero e anche utile per indebolire socialisti e popolari, i quattro governi sostenuti da maggioranze eterogenee che si succedettero dal 1919 al 1922 si rifiutarono di usare la forza legale per reprimere la violenza del fascismo e favorirono anzi il suo ingresso in parlamento.

Benito Mussolini a Milano con alcuni membri del Partito fascista nel giorno della marcia su Roma, 28 ottobre 1922 (AP Photo, File)

Lo squadrismo spodestava con la forza le amministrazioni locali socialiste, e nel frattempo Giolitti per le elezioni politiche del maggio del 1921 accolse i fascisti nelle alleanze elettorali di destra che vennero chiamate “Blocchi nazionali”: alla fine su un’ottantina di candidati, 35 furono eletti. Allo stesso tempo Mussolini iniziò a preparare la via politica alla presa del potere, da affiancare a quella insurrezionale. Da una parte cominciò dunque a trattare con alcuni ex presidenti del Consiglio e con i principali esponenti liberali per trovare un accordo su un’eventuale partecipazione dei fascisti al governo, dall’altra incitò pubblicamente i militanti a fare la rivoluzione contro lo stato liberale.

Come ha raccontato lo storico italiano Emilio Gentile, la combinazione delle trattative con l’insurrezione violenta fu l’originalità tecnica del fascismo. La prima via era un fattore complementare al successo della seconda, necessaria per un duplice scopo: fare pressione sul governo per spingerlo alle dimissioni e dall’altra parte «fare apparire l’ascesa del fascismo al potere non come un normale cambio di governo ma come un trapasso di regime: l’insurrezione era il “grande atto”, reale e simbolico nello stesso tempo, col quale il partito milizia doveva arrivare al potere, sconfiggendo l’impotente Stato liberale, per costruire il nuovo Stato fascista».

Fu in quel periodo che emerse l’idea della grande marcia su Roma che venne organizzata tra il 27 e il 28 ottobre del 1922: fu una mobilitazione di circa 16mila uomini con scarsi armamenti, equipaggiati male e che di fatto non compirono alcuna impresa. Ma fu di nuovo la fragilità delle istituzioni a rendere la marcia un momento fondativo. La mattina del 28 ottobre il ministero dell’Interno diffuse un telegramma in cui dava notizia che il governo presieduto da Luigi Facta aveva approvato lo stato d’assedio su tutto il territorio nazionale, per la prima volta nella storia dell’Italia unita (cioè dal 1861). Nonostante questo, però, le molte prefetture che sarebbero dovute intervenire per fermare le occupazioni fasciste nelle città non lo fecero. Per di più, poche ore dopo, la decisione venne invertita per volere del re, che non ratificò lo stato d’assedio e che anzi ne ordinò la revoca.

Il 29 ottobre Mussolini ricevette l’incarico di formare il governo nonostante l’esigua rappresentanza parlamentare. Il 30 arrivò a Roma entrando nella città insieme alle truppe squadriste e a quelle dell’esercito, che ormai non opponevano più resistenza, e il 16 novembre andò alla Camera dove pronunciò il suo discorso forse più celebre, il primo da presidente del Consiglio. Disse: «Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».

Nel frattempo, pur promettendo a parole la normalizzazione dell’ordine pubblico, gli squadristi vennero lasciati liberi di agire come sempre avevano fatto e furono anzi legalizzati come Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) alla fine del 1923. Le elezioni dell’aprile del 1924 si svolsero in questo clima generale di violenza, e tra denunce di brogli, abusi e intimidazioni: tutte cose che furono denunciate il 30 maggio alla Camera dal deputato e segretario del Partito Socialista Giacomo Matteotti in un discorso molto duro. In questo contesto violento e oppressivo, alla fine le elezioni si conclusero con una schiacciante vittoria del “listone nazionale”, formato in gran parte da candidati fascisti che conquistarono una maggioranza di due terzi.

Mussolini e i ministri fascisti siedono nei banchi del governo alla Camera in una foto senza data (ANSA / WIKIPEDIA)

Ma la posizione di Mussolini era meno solida di quanto apparisse dall’esterno. L’opposizione aveva comunque ottenuto più di un terzo dei seggi in parlamento, mentre nel listone fascista erano stati eletti anche numerosi liberali ed esponenti della destra storica, persone che non sarebbe stato impossibile separare dal fascismo. Anche se non era facile, un’opposizione parlamentare efficace al governo sembrava ancora possibile. Inoltre i governi dell’epoca rispondevano direttamente al re, che poteva scioglierli a piacimento. Molti leader dell’epoca erano convinti che con una forte opposizione parlamentare si sarebbe riusciti a far cadere il traballante governo Mussolini.

Le opposizioni, però, faticarono a mettere insieme un piano comune, divise com’erano tra cattolici, socialisti, comunisti e liberali. Quando il 10 giugno Matteotti venne rapito (e poi ucciso: il suo corpo sarebbe stato trovato solo il 16 agosto) Mussolini diede una risposta debole, ma la maggioranza delle opposizioni decise di riunirsi mettendo in atto l’unico piano su cui si trovarono d’accordo.

– Leggi anche: Prima di essere ucciso, Giacomo Matteotti venne anche molto diffamato

Il 26 di quello stesso mese, 123 deputati dell’opposizione decisero di non partecipare più ai lavori parlamentari fino a che i responsabili del delitto Matteotti non fossero stati processati. Si riunirono in una sala di Palazzo Montecitorio dove il leader dei socialisti Filippo Turati tenne un discorso che avrebbe dato nome al loro movimento: «Noi parliamo da quest’aula parlamentare mentre non v’è più un parlamento. I soli eletti stanno nell’Aventino delle nostre coscienze, donde nessun adescamento li rimuoverà sinché il sole della libertà non albeggi, l’imperio della legge sia restituito, e cessi la rappresentanza del popolo di essere la beffa atroce a cui l’hanno ridotta».

Gli “aventiniani” non entrarono più nell’aula: ci rimasero, oltre ai fascisti, soltanto i comunisti e i deputati vicini all’ex presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, fermamente contrario all’Aventino.

Il governo Mussolini, che sembrava traballante, si riprese in fretta. Forte dell’indecisione delle opposizioni e pressato dai suoi militanti più estremisti, nel primo pomeriggio del 3 gennaio del 1925 Mussolini tenne alla Camera dei deputati un discorso con il quale non annunciò le proprie dimissioni come alcuni si aspettavano, ma rivendicò la propria posizione:

«Signori!
Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere a rigore di termini classificato come un discorso parlamentare. Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure traverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre. Un discorso di siffatto genere può condurre e può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. L’articolo 47 dello Statuto dice: “La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia”. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47».

Tenendo tra le mani il manuale dei deputati che conteneva lo Statuto del Regno, Mussolini incitò chiunque a trascinarlo davanti a una corte per giudicarlo se davvero lo si fosse ritenuto complice del delitto Matteotti. E poiché nessuno lo fece fu lui a levare l’accusa contro se stesso, per discolparsi. Si era detto, riferì, che lui avesse fondato una polizia politica segreta per eliminare gli oppositori, che il fascismo non fosse stato altro che «olio di ricino», «manganello» e «un’associazione a delinquere»: ma se così fosse stato, aggiunse, si sarebbe dovuto procedere immediatamente a preparare «il palo e la corda» per impiccarlo seduta stante.

Proseguì dicendo che per tre mesi era stata portata avanti una campagna «immonda e miserabile» nei suoi confronti, che «le più macabre menzogne» erano state «affermate diffusamente su tutti i giornali», e che lui aveva reagito responsabilmente frenando i violenti e restando «sempre tranquillo e calmo in mezzo a questa bufera», mentre i suoi oppositori avevano scelto «la sedizione dell’Aventino» che aveva avuto come unica conseguenza l’aumento delle aggressioni contro i fascisti in tutt’Italia, che elencò. E concluse:

«Voi vedete da questa situazione che la sedizione dell’Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Ed allora viene il momento in cui si dice: basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è nella forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ci sarà mai.

Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il fascismo, governo e partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che il Partito fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Se io la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo la mettessi a scatenarlo, oh, vedreste allora…

Ma non ci sarà bisogno di questo, perché il governo è abbastanza forte per stroncare in pieno e definitivamente la sedizione dell’Aventino.

L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario. Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area, come dicono. E tutti sappiamo che non è capriccio di persona, che non è libidine di governo, che non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria».

La promessa venne mantenuta, per i successivi vent’anni. Le parole di Mussolini furono seguite da una circolare ai prefetti che dispose la repressione di ogni dissenso o tumulto e drastiche limitazioni alla libertà di stampa. A partire da lì, e attraverso una serie di leggi approvate nel giro di pochi anni, il sistema politico italiano venne trasformato in una dittatura, che crollò definitivamente solo vent’anni dopo, il 25 aprile del 1945 con la vittoria degli Alleati e delle forze della Resistenza nella Seconda guerra mondiale.