Cosa non va nel patrocinio a spese dello Stato per donne vittime di violenza
Dovrebbe garantire loro un maggiore accesso alla giustizia e incoraggiarle a denunciare, ma nel modo in cui viene applicato, o non applicato, c'è una serie di problemi
di Giulia Siviero
In Italia esistono delle leggi che consentono alle donne vittime di violenza di chiedere una tutela legale e una difesa in tribunale senza dover sostenere delle spese, e a prescindere dal reddito. Nei fatti, però, il patrocinio a spese dello Stato per le vittime di violenza ha diversi problemi: riguardano, tra le altre cose, la sua mancata estensione all’ambito civile o il mancato aggiornamento di alcuni reati per cui è previsto. Sono problemi che riguardano le donne vittime di violenza che ne possono o che ne potrebbero usufruire, ma altri ancora ricadono sulle avvocate, e spesso sono donne, che scelgono di difenderle.
Il patrocinio a spese dello Stato, comunemente noto come gratuito patrocinio, è un istituto giuridico regolato dal “Testo unico in materia di spese di giustizia”. Dà diritto alle persone prive di un reddito minimo di essere difese gratuitamente, e quindi di farsi assistere e rappresentare da un o da una legale presenti nell’elenco di quelli abilitati a questo tipo di difesa. Dunque non riceveranno il compenso dalla persona che stanno assistendo, che non ha appunto le possibilità economiche per farlo, ma dallo Stato.
L’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in generale, è legata a un limite di reddito che viene aggiornato periodicamente e che attualmente è pari a 12.838,01 euro l’anno.
Dal 2009, e dopo una serie di modifiche legislative al “Testo unico in materia di spese di giustizia”, esistono però dei reati che prevedono che lo Stato «possa» estendere il beneficio del gratuito patrocinio anche a prescindere dal reddito (ci torniamo). Sono reati che rientrano nell’ambito della violenza maschile contro le donne e sono, nello specifico, maltrattamenti in famiglia, mutilazione degli organi genitali, violenza sessuale, compresa quella di gruppo, atti sessuali con minorenni o atti persecutori (stalking). In questi casi, e anche se il reddito della persona offesa è superiore alla soglia stabilita dalla legge, c’è la possibilità di accedere al patrocinio a spese dello Stato.
Se l’istituto del gratuito patrocinio è stato originariamente previsto solo come strumento di tutela per le persone non abbienti, il principio alla base della deroga ai requisiti di reddito per le vittime di violenza segue una ratio differente: superare non soltanto le difficoltà economiche che impediscono l’accesso alla giustizia, ma anche qualsiasi altro ostacolo di ordine sociale.
L’ha ribadito anche una sentenza della Corte costituzionale del 2021: nei casi di violenza maschile contro le donne le persone offese si trovano in una condizione di particolare vulnerabilità e isolamento, proprio a causa della natura stessa del reato, e sapere che le spese legali saranno coperte dallo Stato può incoraggiarle a denunciare e a cercare aiuto. Il gratuito patrocinio, dice sempre la Corte costituzionale, è giustificato dalle «esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati» che spesso rimangono sommersi, serve a «incoraggiare» le donne a denunciare e rappresenta una «precisa scelta di indirizzo politico criminale»: un segnale concreto di supporto da parte dello Stato alle vittime di una violenza che è strutturale. Non è un caso che la Convenzione di Istanbul abbia espressamente dedicato un articolo, il 57, all’accesso al gratuito patrocinio per le donne vittime di violenza. La Convenzione è un trattato internazionale che l’Italia ha ratificato nel 2013, e che è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto di un fenomeno riconosciuto come strutturale.
Sebbene la deroga ai requisiti di reddito per le vittime di violenza valga dal 2009, è solo dal 2021 che viene applicata con omogeneità. Poiché l’articolo che lo regola dice che la persona offesa «può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito», fino al 2021 veniva interpretato in modi differenti: alcuni magistrati (facendo leva sulla “possibilità”) continuavano a chiedere alle vittime di violenza di dimostrare redditi entro i limiti fissati, mentre altri all’opposto ritenevano che l’ammissione fosse obbligatoria in quanto collegata soltanto al tipo di reato subito.
Nel 2021 la Corte Costituzionale è intervenuta con una sentenza chiarendo le cose: ha stabilito, in pratica, che l’ammissione al gratuito patrocinio per quei tipi di reato è automatica e obbligatoria. Dove nel Testo unico c’è scritto «può» il giudice è tenuto a leggere «deve» proprio per dare seguito alla ratio stessa con cui la norma era stata pensata e introdotta.
Un problema che invece non è stato risolto ha a che fare con la mancata connessione del riconoscimento del patrocinio tra ambito penale e ambito civile. I fatti che prevedono la deroga ai requisiti di reddito sono penali, ma l’articolo 75 del Testo unico dice anche che l’ammissione al patrocinio «è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse». Le procedure «comunque connesse» sono spesso di ambito civile, ma di nuovo, e seguendo un’interpretazione restrittiva della norma, l’applicazione del patrocinio a prescindere dal reddito viene limitata al solo processo penale.
L’avvocata Desi Bruno e l’avvocato Antonio Pugliese, del foro di Bologna, spiegano concretamente che cosa significa: «Dall’azione penale possono derivare condanne al risarcimento dei danni che hanno una procedura di esecuzione di tipo civilistico. Quando il reato è maltrattamento, inoltre, ci sono tantissime procedure connesse, legate alla separazione o all’affidamento dei figli. E c’è infine una serie di ordini di protezione che il giudice può applicare d’urgenza in sede civilistica in favore delle vittime di violenza che hanno più o meno la stessa efficacia dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare». Queste “misure cautelari”, così come i risarcimenti derivati dalla sentenza di condanna in sede penale e molte separazioni o cause per l’affidamento, sono «connesse dal punto di vista logico e probatorio ai fatti violenti oggetto del processo penale, ma spesso non vengono fatte ricadere nel gratuito patrocinio già riconosciuto in sede penale».
La prassi di questa mancata estensione, proseguono Bruno e Pugliese, «conduce a volte a esiti inconciliabili e paradossali. Le vittime di reati destinatarie di una rafforzata tutela in sede penale e ammesse al patrocinio a prescindere dal reddito, vengono poi trattate in modo differenziato quando si tratta di andare a rendere effettivo, ad esempio, il diritto al risarcimento del danno conseguente a reato». Questo significa «che non c’è una situazione uniforme sul territorio nazionale, che tutto dipende da un’interpretazione e che dunque in molti casi le vittime si fermano: o meglio, sono costrette a fermarsi».
Molte delle donne a cui la connessione non viene riconosciuta, spiega Elena Biaggioni, avvocata dalla rete dei centri antiviolenza D.i.Re, «hanno redditi spesso di poco superiori alla soglia fissata dalla legge per l’ammissione al gratuito patrocinio nel civile, e non possono affrontare il costo proibitivo del procedimento. Dunque rinunciano ad azioni lunghe e complesse». E Maria Carmela Cicchiello, avvocata di una casa rifugio di Benevento per donne maltrattate, conferma che la soglia fissata dalla legge «è molto bassa perché si riferisce al reddito imponibile» e che «con uno stipendio netto mensile di circa 800-900 euro si è già oltre».
Le vittime, soprattutto quelle di violenza domestica, sono poi molte volte dei soggetti non indipendenti da un punto di vista economico: proprio perché la violenza si manifesta spesso come violenza economica, che è una forma di abuso in cui il controllo delle risorse o gli ostacoli all’accesso a un lavoro fuori casa vengono utilizzati come mezzi per esercitare potere e controllo all’interno della relazione.
Nel 2021, nella convinzione che l’ammissione al gratuito patrocinio debba valere sempre, anche nelle procedure connesse, Bruno e Pugliese hanno inviato una richiesta di parere all’Ordine degli avvocati di Bologna che ne ha di conseguenza formulato uno al Consiglio nazionale forense (CNF), l’organismo che rappresenta l’intera classe forense e che, tra le altre cose, svolge una funzione consultiva nei confronti del ministero della Giustizia sui progetti di legge e di regolamento. Interpellato, il CNF ha risposto nel 2022 confermando la legittimità dell’orientamento più restrittivo della norma. Da una parte, nel suo parere, il CNF ha rilevato la contraddittorietà dell’applicazione della norma che limita, se letta in modo letterale, il gratuito patrocinio in deroga ai requisiti di reddito alla sola sede penale, ma dall’altra ha anche sostenuto la necessità di una modifica della norma stessa da parte del legislatore. E ha concluso che serve una legge per chiarire le cose: «Ma è ovvio che dopo questo parere e in mancanza di un intervento legislativo anche gli Ordini degli avvocati che prima riconoscevano la connessione ora si stanno orientando sempre più verso un’interpretazione restrittiva».
Un ulteriore problema riguarda il mancato aggiornamento del Testo unico con i reati per cui si prevede il patrocinio in deroga ai requisiti di reddito, introdotti più di recente. Il reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, la costrizione o l’induzione al matrimonio, le lesioni personali o la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, ma anche il tentato omicidio aggravato (che spesso si configura come quello che viene chiamato femminicidio) e altri reati ancora sono cioè rimasti fuori dal Testo unico, per un difetto di aggiornamento.
Spiega l’avvocato Pugliese: «Quando viene ad esempio deciso l’allontanamento dalla casa familiare e l’imputato vìola la misura, la sua violazione costituisce ora un nuovo reato che però non è stato introdotto nella lista di quelli previsti dal Testo unico per l’ammissione al gratuito patrocinio in deroga ai requisiti di reddito: di conseguenza se la vittima si vorrà difendere da questo secondo reato, che è direttamente connesso a quello principale, non potrà farlo gratuitamente».
In alcune regioni sono stati istituiti degli appositi fondi di solidarietà per il patrocinio legale alle donne vittime di violenza e maltrattamenti che tentano di superare le criticità legate alla soglia di reddito, all’assenza di alcuni reati tra quelli ammessi per ottenere il patrocinio in deroga ai requisiti di reddito o per le procedure connesse in ambito civile. Ma non sono stati attivati in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
L’avvocata e presidente dell’ordine di Novara, Giulia Ruggerone, spiega un altro problema: «Il patrocinio non consente, nei fatti, la possibilità di nominare dei consulenti di parte». L’iscrizione degli avvocati e delle avvocate all’elenco di quelli abilitati per il patrocinio non è obbligatoria, è volontaria. L’obbligatorietà, salvo nel caso in cui vengano avanzati dei motivi che si dovranno giustificare, scatta nel momento in cui l’avvocato riceve l’incarico dalla persona ammessa al patrocinio: «Per i consulenti, medici legali, psichiatri o altri esperti ancora, non esistono invece degli elenchi ed è dunque diventato difficilissimo che accettino l’incarico quando sanno che la persona per cui dovranno lavorare è in patrocinio, a meno che la consulenza non venga pagata subito e per intero, cosa che spesso una persona in patrocinio a spese dello Stato non può fare». Questo genera una nuova disparità legata alle condizioni economiche della persona coinvolta e un nuovo paradosso: «La maggior tutela che si vorrebbe riconoscere con il patrocinio alle donne vittime di violenza non garantisce fino in fondo il loro diritto alla difesa», conclude Ruggerone.
Alcune delle criticità del patrocinio a spese dello Stato riguardano infine le avvocate e gli avvocati abilitati che seguono le vittime di violenza. Non solo perché i tempi e le procedure per arrivare all’effettiva liquidazione del compenso sono lunghi e complicati («Durano in media due o tre anni», dice Cicchiello), ma anche perché tali compensi non sono riconosciuti in modo uniforme: «Gli importi del gratuito patrocinio che si riceveranno dallo Stato sono definiti per legge a un valore inferiore alle tariffe vigenti: sono di un terzo in meno circa nel penale e della metà nel civile», ma nella maggior parte dei tribunali, spiega Cicchiello, «ci sono protocolli che prevedono tariffe ancora inferiori: un tribunale può cioè prevedere tariffe molto più basse rispetto a un altro, con una disparità di trattamento dei professionisti e delle professioniste a seconda dell’area geografica in cui lavorano».
Il gratuito patrocinio paga inoltre «tutto ciò che riguarda la fase giudiziale, dalla costituzione in giudizio alla sentenza, mentre tutto il lavoro stragiudiziale rimane fuori. Lo stragiudiziale rappresenta spesso una fatica immane, perché in questo tipo di dinamiche si deve far fronte ai problemi più diversi: dalla richiesta di permesso di soggiorno alla richiesta di congedo lavorativo per donne vittime di violenza, senza contare l’enorme lavoro relazionale e di cura che casi come questi richiedono».
Sebbene non ci siano dati che distinguono e quantificano per genere chi difende le donne vittime di violenza, non è imprudente affermare che si tratti soprattutto di avvocate: lo si può ricavare facilmente dagli elenchi di chi ha una formazione specifica e che si trova negli elenchi di abilitazione al patrocinio. Nelle liste predisposte ad esempio dalla regione Piemonte per l’accesso al fondo di solidarietà per vittime di violenza, su 560 persone iscritte 501 sono donne, più dell’89 per cento. Lo stesso atto numero 146 della Conferenza Stato-Regioni del settembre 2022 per l’assistenza in case rifugio e centri antiviolenza prevede una tutela legale «esclusivamente femminile».
Questo, dice Biaggioni, si concretizza «in una asimmetria di genere nei guadagni indirettamente confermata anche dal dato più generale della Cassa Forense», cioè l’ente previdenziale di avvocati e avvocate italiane iscritte agli albi. Dal report pubblicato nel 2024 sui dati dell’anno precedente risulta che gli uomini iscritti superino leggermente le donne (52,9% contro 47,1%), che il reddito medio annuo delle avvocate sia tra i 28 e i 29mila euro mentre quello degli uomini è poco più di 59mila: sono dunque almeno 30mila gli euro di differenza fra uomini e donne, a scapito di queste ultime.
Ma al di là della ricaduta economica, precisa Biaggioni, c’è anche altro: «Il meccanismo del patrocinio a spese dello Stato non favorisce la specializzazione per i reati legati alla violenza di genere», specializzazione invece necessaria perché i casi di violenza di genere sono tra i più difficili anche sotto il profilo giuridico. Richiedono la conoscenza di diversi ambiti del diritto e non solo, delle Convenzioni internazionali ma soprattutto della radice culturale della violenza stessa per essere affrontati adeguatamente: «Se tutta la mia professionalità viene stabilita a monte, cioè per legge, con un compenso inferiore chi è che investirà tempo e risorse per questo tipo di difese?».
Aderire agli elenchi del gratuito patrocinio e difendere le donne vittime della violenza maschile resta una scelta libera e autodeterminata, conclude Biaggioni: «Ogni avvocata è una libera professionista e spesso decide di dedicarsi a questo tipo di cause per una forte motivazione anche politica. Non è però molto comprensibile che il sistema del patrocinio a spese dello Stato che vorrebbe rafforzare la difesa delle donne vittime non dia a quelle donne, nei fatti, delle solide garanzie di accesso alla giustizia. Né è comprensibile che si traduca in uno strumento di impoverimento delle loro avvocate o, peggio, di disincentivo a formarsi su quella materia».
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