Che anno è stato per il parlamento, in numeri

Quante leggi ha approvato, con quante questioni di fiducia, e in che misura anche quest'anno Camera e Senato sono stati subordinati ai voleri del governo

Uno scorcio della Camera dei deputati
Uno scorcio della Camera dei deputati (Antonio Masiello/Getty Images)
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Nel 2024 il parlamento ha approvato 84 leggi. È un numero abbastanza elevato, che conferma la produttività del parlamento in questa legislatura. Nel 2023, con la stessa maggioranza di destra a sostegno del governo di Giorgia Meloni, ne erano state approvate 83. Nella legislatura precedente, tra il marzo del 2018 e l’ottobre del 2022, le leggi erano state 315, circa 70 all’anno; e in quella ancora prima, tra il marzo del 2013 e il marzo del 2018, erano state 379, circa 76 all’anno in media.

Di per sé il numero di leggi approvate non è indice del fatto che il parlamento lavori bene. Tra i molti importanti provvedimenti discussi e votati dalla Camera e dal Senato, ce ne sono anche parecchi tutt’altro che fondamentali e spesso ispirati da ragioni propagandistiche: per esempio la legge sul «riconoscimento della figura dell’agricoltore custode dell’ambiente», quella per l’istituzione del premio «Maestro dell’arte della cucina italiana», o quella per «l’istituzione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate». Altri provvedimenti, invece, riflettono interessi molto particolari, per esempio la legge per la realizzazione del Monteverdi Festival di Cremona. Nel computo complessivo ci sono anche le leggi istitutive di commissioni parlamentari d’inchiesta di dubbia utilità (tra le varie, per esempio, quella sulla gestione della pandemia da Covid-19), o ancora leggi che si sono dimostrate illegittime e parzialmente incostituzionali, come quella dell’autonomia differenziata.

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Del resto, un confronto con altri grandi paesi europei dimostra come ci sia una grande variabilità nel numero delle leggi approvate. Stando ai dati diffusi dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera, nel 2022 il parlamento tedesco ha approvato 107 leggi, quello francese 62, quello britannico 48. Non è insomma detto che tutte le 84 leggi approvate dalla Camera e dal Senato italiani nel 2024 siano destinate a cambiare sensibilmente in meglio la vita dei cittadini italiani, né che l’alto numero di leggi approvate sia espressione della vitalità del parlamento.

Il presidente del Senato Ignazio La Russa, a sinistra, e quello della Camera Lorenzo Fontana, a destra, alla cerimonia dell’80esimo anniversario dell’eccidio delle Fosse ardeatine, il 22 marzo 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Da questo punto di vista, anzi, si conferma una tendenza ormai sempre più consolidata e comune ad altri paesi europei, ossia il fatto che la maggior parte delle leggi approvate dal parlamento sia di iniziativa governativa. Di per sé è un po’ una stortura, in una repubblica parlamentare in cui dovrebbe essere proprio il parlamento il titolare dell’attività legislativa, cioè il promotore delle leggi. Ma da molti anni l’andazzo è sempre questo: che il governo fa le leggi, e il parlamento si limita per lo più a ratificarle, o al massimo a modificarle in maniera marginale.

Nei primi due anni di legislatura, quindi tra il 13 ottobre del 2022 e la fine del 2024, 129 leggi sulle 173 approvate erano proposte dal governo; e di queste, 69 erano decreti-legge poi convertiti in legge. Vuol dire insomma che quasi la metà delle norme approvate dal parlamento sono state leggi di conversione dei decreti, cioè leggi che Camera e Senato hanno dovuto di fatto ratificare, limitandosi a qualche parziale correzione in un tempo limitato (sessanta giorni al massimo) e con scarsa possibilità di intervenire. Il 2024, in questo senso, è andato leggermente meglio del 2023: su 84 leggi, le conversioni dei decreti sono state 28, cioè una su tre; nel 2023 erano state 37 su 83 leggi approvate, il 44,5 per cento, quasi la metà insomma. Il dato del 2024 è in linea con quanto avvenuto nella legislatura precedente, tra il 2018 e il 2022, quando il tasso di decreti convertiti sul totale delle leggi approvate era stato del 33 per cento, e in significativo aumento rispetto alla legislatura del 2013-2018, in cui era stato del 22 per cento.

Quanto questo cosiddetto ricorso alla decretazione d’urgenza, cioè l’uso insistito e ricorrente dei decreti-legge, comprima il dibattito parlamentare, è dimostrato anche dal fatto che in tutti i casi la conversione dei decreti è stata approvata in due sole letture, una alla Camera e una al Senato. Vuol dire, dunque, che solo una delle due camere ha potuto apportare qualche modifica, benché minima; l’altra ha dovuto solo ratificare, senza discutere né esaminare in profondità il provvedimento, e soprattutto senza poter apportare delle modifiche che avrebbero a quel punto reso necessaria una terza lettura (c’è infatti bisogno che entrambe le camere approvino lo stesso testo, perché questo diventi definitivamente legge). È un piccolo record: nella legislatura scorsa, il tasso di decreti-legge convertiti con due sole letture era stato del 95,2 per cento, in quella tra il 2013 e il 2018 dell’88 per cento.

È insomma stato sdoganato una sorta di monocameralismo di fatto. Il regime di bicameralismo paritario, con la Camera e il Senato equiparate in tutto e per tutto e costrette ad approvare leggi identiche, è in effetti ormai considerato troppo macchinoso e per certi versi anacronistico. Ma dopo il fallimentare tentativo di superare questo bicameralismo con la riforma costituzionale promossa dal governo di Matteo Renzi e bocciata dal referendum del dicembre del 2016, questo sistema è rimasto in vigore praticamente solo sulla carta. Nella prassi si procede ormai a considerare solo una camera come effettivamente responsabile dei provvedimenti più importanti, relegando l’altra a un ruolo di mera ratificatrice. Succede da anni, ed è successo anche quest’anno, sulla più importante delle leggi che il parlamento deve discutere e approvare cioè la legge di bilancio, il provvedimento che definisce la politica finanziaria del governo per l’anno seguente.

Gli ultimi governi che stabilmente consentirono a entrambe le camere di discutere e modificare la legge di bilancio furono quelli di centrosinistra guidati da Renzi e da Paolo Gentiloni: tra il 2014 e il 2017, tre volte su quattro la legge di bilancio fu approvata in un regime effettivo di bicameralismo. Da allora in poi, si è sempre attuata la prassi per cui una delle due la discute davvero, e l’altra la riceve a ridosso della fine dell’anno e la ratifica senza poterla minimamente modificare, per evitare che la terza lettura avvenga oltre la scadenza del 31 dicembre. Dopo questa data infatti lo Stato entrerebbe in esercizio provvisorio, cioè un regime in cui il governo non può disporre nuove spese ma deve grosso modo limitarsi ad autorizzare solo le stesse fatte nell’anno precedente. L’unica parziale eccezione fu la legge di bilancio del 2018 che seguì tre letture, due delle quali però furono notevolmente costrette nei tempi.

Il ministro per i Rapporti col parlamento, Luca Ciriani, insieme a Giorgia Meloni alla Camera, il 15 ottobre 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

L’altro dato significativo, per comprendere meglio i rapporti tra parlamento e governo, è il numero delle volte in cui il governo ha posto la questione di fiducia. È una procedura con cui il governo contingenta i tempi dedicati alla discussione, fissando un termine entro il quale il provvedimento deve essere votato, e condiziona la propria permanenza in carica all’approvazione di quello stesso provvedimento. Se un governo non ottiene la maggioranza dei voti su una legge su cui ha posto la questione di fiducia, cade. Col tempo, però, questo strumento pensato in origine come straordinario è diventato un metodo abituale con cui il governo accelera l’approvazione di un provvedimento, e di fatto limita le prerogative di deputati e senatori.

Nel 2024 sono state 32 le fiducie poste dal governo di Meloni: 16 alla Camera e 16 al Senato. Sono state poste, in sostanza, su quasi tutti i decreti-legge (con poche eccezioni) e nel caso della legge di bilancio. Nel 2023 erano state 41, 26 alla Camera e 15 al Senato. È un numero abbastanza elevato, sul totale dei provvedimenti, specie considerando che su quasi tutti i decreti-legge è stata posta in entrambe le camere. Ma la frequenza con cui il governo di Meloni ha fatto ricorso alla fiducia è grosso modo in linea con quella dei governi precedenti.