Jimmy Carter ha reinventato la “post-presidenza”
La sua eredità politica è legata all’impegno umanitario che portò avanti dopo la fine del suo mandato, caratterizzato da molte crisi e solo di recente rivalutato
Negli Stati Uniti viene chiamata post-presidency, “post-presidenza”, la parte della vita di un ex presidente dopo la fine del suo incarico. Quella di Jimmy Carter, morto il 29 dicembre a cent’anni, è durata 43 anni: è stata «la più lunga e incisiva della storia americana», ha scritto l’ex presidente Barack Obama, seguendo un’opinione condivisa anche da vari necrologi pubblicati sui principali quotidiani statunitensi. Carter ha interpretato in modo nuovo il ruolo di ex presidente, senza sospendere l’impegno pubblico e anzi intensificandolo: in questo modo ha introdotto un modello diverso di post-presidenza, a cui è legata gran parte della sua eredità politica.
Alla fine del suo unico mandato, durato dal 1977 al 1981, Carter era assai impopolare. Alle elezioni presidenziali del 1980 divenne il primo presidente a non essere rieletto dai tempi di Herbert Hoover, nel 1932 (è risuccesso, dopo di lui, a George H. W. Bush e a Donald Trump). Carter non se la prese. Già l’anno dopo aprì in Georgia, il suo stato natale, la fondazione Carter Center con cui portò avanti molte attività umanitarie, per le quali nel 2002 ricevette anche il Nobel per la Pace.
La sua presidenza fu segnata da varie crisi. Su tutte il cosiddetto “shock petrolifero”, cioè l’aumento del prezzo del petrolio imposto dai paesi dell’OPEC come ritorsione per la sconfitta di Egitto e Siria nella guerra dello Yom Kippur contro Israele, e quella dei 53 americani presi in ostaggio a Teheran, in Iran, liberati dopo 444 giorni e un lungo negoziato. In un’intervista del 2006 Carter riconobbe che la sua reputazione era migliorata dopo la fine della presidenza, ma ne rivendicò alcuni successi.
Tra le altre cose durante il suo mandato istituì un dipartimento federale (l’equivalente di un ministero) dell’Istruzione, come aveva promesso durante la campagna elettorale portando il Partito Democratico a ricevere il sostegno del sindacato degli insegnanti per la prima volta in 117 anni. Altre sue nomine in campo economico posero le basi per le liberalizzazioni che contraddistinsero la presidenza del suo successore, il Repubblicano Ronald Reagan. Carter riuscì poi a raggiungere un delicato accordo di pace tra Israele ed Egitto a Camp David, nel 1979. L’impegno diplomatico, e soprattutto umanitario, ha caratterizzato anche la sua post-presidenza.
Per esempio, nel 1986 negoziò il rilascio di prigionieri politici in Nicaragua e nel 2010 del cittadino statunitense Aijalon Gomes, incarcerato in Corea del Nord. Nel 1994 contribuì a risolvere una crisi diplomatica con Haiti e, pochi giorni prima di Natale, andò in Bosnia dove negoziò una tregua di quattro mesi tra le forze regolari bosniache e quelle nazionaliste serbe di Radovan Karadžić. Nell’amministrazione di Bill Clinton (1993-2001) fu incaricato di condurre alcune trattative con il regime nordcoreano, e in seguitò si offrì di rifarlo durante il primo mandato di Trump.
Con la sua fondazione Carter fece da osservatore in 37 elezioni in vari paesi esteri, dal Perù al Mozambico: l’ultima volta fu nel 2015, in Guyana, quando aveva novant’anni. Il Carter Center è stata l’unica organizzazione indipendente autorizzata ad assistere alle elezioni in Venezuela dello scorso luglio (nelle quali riscontrò dei brogli). Nel 2004 invece la fondazione fu criticata per aver ritenuto regolare il referendum che confermò al potere l’allora presidente venezuelano Hugo Chávez, nonostante le proteste dell’opposizione.
Insieme alla moglie Rosalynn, morta nel 2023 a 96 anni, Carter si impegnò nel progetto Habitat for Humanity contribuendo a costruire, riparare o ristrutturare più di 4mila case in 14 paesi, con 108mila volontari. Una delle immagini a cui è associato lo vede ritratto con il caschetto e strumenti da carpentiere mentre aiuta a costruire una casa. Nell’ottobre del 2019, a 95 anni, volle partecipare a un evento del progetto anche il giorno dopo una caduta: nelle foto di quel giorno ha un occhio nero e vistosi cerotti.
La sua fondazione si è impegnata anche nell’eradicazione di varie malattie diffuse nei paesi in via di sviluppo, come quella causata dal parassita noto come verme della Guinea. Alcuni decenni fa questa malattia colpiva più di 3 milioni di persone all’anno, soprattutto in Africa e in Asia, mentre nel 2023 sono stati registrati solo 14 casi. Negli anni il Carter Center ha fatto campagne contro altre malattie, tra cui il tracoma e l’oncocercosi, due infezioni che possono causare la cecità.
Negli anni Carter è rimasto attivo nella comunità di Plains, in Georgia, dove per decenni ha curato le lezioni domenicali nella chiesta battista locale (e dove gli è stata dedicata un’installazione a forma di arachide gigante, in memoria del suo passato da agricoltore). La cosa attirava in chiesa turisti e curiosi.
Ha scritto 33 libri e, come per altri ex presidenti, le opere su di lui (e in particolare His Very Best di Jonathan Alter e President Carter di Stuart E. Eizenstat) hanno contribuito a migliorare la valutazione degli storici della sua presidenza, più questa si allontanava nel tempo.
Inoltre a differenza di alcuni suoi predecessori, che dopo la fine dell’incarico si ritirarono a vita privata (come Harry Truman e Dwight Eisenhower), Carter continuò a intervenire nel dibattito pubblico nonostante fosse inizialmente malvisto, e considerato un presidente fallimentare, anche da un pezzo dei Democratici.
Fu molto critico delle guerre statunitensi in Medio Oriente – sia durante il mandato di George W. Bush, Repubblicano, sia durante quello di Obama, del suo partito – e dell’amministrazione di Trump in generale. Alle elezioni presidenziali dello scorso novembre aveva votato per Kamala Harris, la candidata dei Democratici, nonostante le sue condizioni di salute si fossero da tempo deteriorate.
Negli anni Carter si è mostrato consapevole dell’apprezzamento raccolto dopo la fine della presidenza. Nel 2013, durante la cerimonia per l’intitolazione della biblioteca presidenziale a Bush, scherzò raccontando che la sua vignetta preferita del New Yorker era quella in cui un bimbo diceva al papà: «Da grande voglio diventare un ex presidente».
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